08.04.2024 Marco Casu

La prossima frontiera sei tu

BCI (Brain-Computer Interface). È stato impiantato con successo il primo microchip in un cervello umano. L’annuncio è comparso il 30 gennaio 2024 sul profilo X (ex Twitter) di Elon Musk, proprietario della piattaforma e fondatore di Neuralink, l’azienda che ha compiuto il prodigio.

Il chip si chiama Telepathy e permetterà ai tetraplegici di muovere i propri arti, agli amputati di manovrare protesi robotiche, e a tutti, in un futuro davvero imminente, di controllare il telefono, il computer, i dispositivi domestici, le vetture Tesla e le applicazioni rese possibili dall’avvento del 6G (fino a 10 terabyte al secondo) – un’ennesima frontiera sulla quale Musk intende incidere le sue iniziali: la flotta satellitare Starlink di SpaceX potrebbe presto garantire al mondo, senza alcuna disparità di banda, un’unica velocissima connessione che arriva dal cielo, senza passare dagli oceani, dalle acque territoriali e dai cavi sottomarini, attraverso cui attualmente scorre il 98% del traffico internet. Altri 11 microchip verranno impiantati entro il 2024, 22.000 entro il 2030, l’anno di attivazione del 6G: Telepathy inizierà a diffondersi nel prossimo decennio, con prezzi almeno inizialmente di nicchia, 40.000 dollari a impianto, a fronte di 10.000 dollari di costi di produzione.

Da mettere in conto anche qualche probabile eccezione, qualche storia d’impatto, qualche paziente particolarmente significativo che potrebbe ricevere gratuitamente il deus ex machina di Musk. Una sorta di eucarestia, una salute somministrata agli infermi, una salvezza che entra nel corpo.

Decine di fili flessibili, più sottili di un capello umano, intrecciati al cervello e in grado di cogliere l’intenzione del movimento a partire da picchi neuronali e impulsi nervosi. «Immaginate se Stephen Hawking potesse comunicare più velocemente di un dattilografo o di un banditore d’asta. Questo è l’obiettivo». Ma lo scopo dell’operazione è molto più ambizioso, sia da un punto di vista commerciale, sia da un punto di vista filosofico o per lo meno propagandistico, cioè dal punto di vista della narrazione, dello storytelling, della strategia di marketing di Neuralink, condensata nella sua mission: «Create a generalized brain interface to restore autonomy to those with unmet medical needs today and unlock human potential tomorrow». Insomma: restore today, unlock tomorrow. Il fine dichiarato è il potenziamento dell’umano mediante l’interfaccia umano-macchina-rete, una connessione universale transumanista, un’utopia da fantascienza, molto simile a quella rappresentata nel film “Avatar” (di James Cameron, 2009), ma rivisitata in chiave cyberpunk. Il fine (neanche troppo) recondito è il monopolio tecnologico globale, in termini di infrastrutture di rete (connettività 6G) e soprattutto di controllo dei dati, in uno scenario che prepara la fusione, tendente alla progressiva sostituzione, tra dati personali e dati biometrici. 

In futuro potremo insomma controllare lo smartphone col pensiero. Peccato che in futuro lo smartphone non ci sarà più, o comunque sarà meno diffuso. 

Come forse il pensiero, o almeno quella forma di pensiero alla quale siamo abituati, quell’idea a partire dalla quale consideriamo la persona come responsabile dei propri atti (pubblici) e non delle intenzioni (private): l’archetipo della prossima generazione tecnologica è la macchina della verità.

Lo schermo connette, lo schermo separa, lo schermo sparirà. E forse sparirà anche la persona, che è etimologicamente ed effettivamente la “maschera” costruita da ciascuno di noi intorno alle pulsioni proprio del corpo. Il rapporto tra corpo e persona è la prossima frontiera digitale.

Hype Nell’era post pandemia, il dibattito pubblico sul digitale è stato mosso da diverse ondate mediatiche, principalmente tre: l’hype del gaming, che ha surfato sul lockdown, l’hype del metaverso, che ha surfato su gaming, criptovalute e blockchain, e l’hype dell’intelligenza artificiale generativa, trascinato dall’inedito successo commerciale di ChatGPT. Con l’onda dell’hype, che significa “inganno, imbroglio” ancora prima che “montatura pubblicitaria”, si spostano di volta in volta gli investimenti, quindi i finanziamenti (soprattutto privati) alla ricerca, e infine le previsioni, le speranze e le paure relative al prossimo futuro, al prossimo limite della frontiera digitale. Perché è anche così che si smuove una frontiera, con la moda del moderno. Si tratta di finzioni in certa misura lecite, o comunque estremamente diffuse, strategie di marketing volte a sovrastimare alcune direzioni intraprese dai tecno-visionari di oggi fino a generare effetti performativi sul domani, profezie autoavveranti che incidono sulla realtà. Possiamo chiamarle “iperstizioni”: un’espressione illuminante coniata da un padre non esattamente illuminato, e anzi proprio teorico dell’Illuminismo oscuro, Nick Land, negli ultimi anni sempre più vicino a posizioni suprematiste.

C’è ancora un residuo di magico nel linguaggio (nel linguaggio “naturale”, quello umano): dici qualcosa, e qualcosa comunque accade. Oggi viene anche chiamato “effetto ancoraggio”, un bias cognitivo usatissimo nelle contrattazioni: chi spara (alto) per primo, spara due volte. Ogni risposta si adegua, sebbene al ribasso, al valore contenuto nella domanda, al dato dell’asserzione precedente. Ci sentiamo ancorati al dato e al detto, è un automatismo del pensiero. Malgrado la nostra posizione apicale tra le specie di questo pianeta, siamo ancora un po’ animali che reagiscono agli stimoli in modo prevedibile. E con l’aumentare degli stimoli, aumenta la nostra prevedibilità.

Nel ciclo dell’hype convivono aspettative esagerate ed esagerate disillusioni: uno stesso prodotto, o un insieme di tecnologie, viene prima sovrastimato e poi sottostimato, in ogni caso letto attraverso lenti distorte, o anche solo nomi impropri, che ne inibiscono una reale comprensione diffusa.

Intelligenza artificiale generativa L’IA generativa non è intelligente, non è artificiale e neanche davvero generativa. È e resterà un algoritmo, un calcolo combinatorio, un abaco sotto steroidi, un codice scritto da mani umane, una creazione incapace di creare. Esercita il fascino, la seduzione dell’oggettività, ma in realtà eredita i pregiudizi e i bias dei suoi sviluppatori. E non è qui per correggerli. Però è uno strumento molto potente, diffuso, efficiente, e tanto basta per incidere sul mercato del lavoro e per offrire nuove prospettive sia alla ricerca medica e scientifica, sia al marketing, al condizionamento mediatico e alla profilazione dell’utente. Come ogni strumento tecnico moderno (e forse come ogni strumento tecnico tout court) non è soltanto un mezzo inerte, ma in qualche modo interviene nella determinazione dei fini, determinazione che resta però prerogativa umana (e innanzitutto prerogativa di chi controlla il mezzo). È una potenza che stimola la volontà. Nessun bambino del Trecento voleva fare l’astronauta; nessun regno del Trecento ha attivato sperimentazioni di social scoring (la moda del tempo prescriveva altri sistemi di controllo sociale): lo sviluppo dello strumento tecnico, e oggi dell’IA, è in grado di ampliare, via via, la frontiera del possibile e dunque del desiderabile. Potrebbe persino contribuire, e anzi lo sta facendo, a una storica risemantizzazione di parole e concetti chiave della nostra cultura: autore e autorialità (di chi è il prodotto co-prodotto in collaborazione con i suggerimenti di una macchina?), privacy e dati personali (è in grado di monitorarne e anche condizionarne sempre di più, compresi quelli inconsci, i dati biometrici), forse persino persona (è una res, una cosa, che può simulare persone scomparse e in generale può simulare persone). Di certo costituirà il terreno principale di confronto tecnologico di ogni prossimo smottamento geopolitico.

Ma la singolarità, l’intelligenza artificiale forte, quella superiore all’umano è pura fantascienza. L’addestramento di ChatGPT 3.5 ha portato al consumo di 700.000 litri d’acqua, ogni conversazione consuma una bottiglia da un litro e mezzo, in totale l’applicazione emette quattro tonnellate di anidride carbonica al giorno. Oltretutto la sua crescita è vincolata alla fisica; e stiamo raggiungendo, forse abbiamo già raggiunto, il limite della miniaturizzazione: per provare a riprodurre le connessioni sinaptiche di un solo cervello umano mediante microchip occorrerebbe il territorio del Molise (e noi siamo otto miliardi: otto miliardi di persone con centinaia di miliardi di connessioni a cervello). Potremmo provare a farla crescere, l’IA, ci proveremo di certo, ma la Terra, semplicemente, non basta.

Metaverso Passiamo al metaverso, il grande oscurato da ChatGPT. Non è un’invenzione di Zuckerberg, ma di questo si parlava fino a poco tempo fa: un unico ambiente globale targato Meta, una virtualità che avrebbe quasi rimpiazzato la realtà, un grande videogioco del mondo. L’hype è svanito, eppure le applicazioni immersive sono in piena fioritura. Non per mano di Zuckerberg ma grazie a Massimiliano Nicolini e alla Olitec (Olivetti tecnologia). Non in Silicon Valley, ma in Italia, dove tra l’altro sono nate. Perché quasi tutto il digitale nasce a Scarmagno, un paesino microscopico vicino Ivrea. La prima macchina su cui sono stati scritti algoritmi è stata creata da Pier Giorgio Perotto nel 1965 (è il Programma 101, che ha calcolato l’allunaggio dell’Apollo 11), il padre del microprocessore (1972) è Federico Faggin, Giorgio Coraluppi ha sviluppato l’algoritmo delle videochiamate (1984), Giovanni Nicolini il sistema operativo XPL VRO, che è la tecnologia immersiva alla base del metaverso. Proprio negli ultimi mesi, presso il Tribunale penale di Firenze, si sono svolte le indagini del primo caso di giustizia immersiva al mondo. E qui davvero non si tratta di un gioco. Piuttosto di un omicidio, avvenuto lo scorso anno tra le colline di Assisi, forse un incidente di caccia. Come appurare la dinamica dei fatti? Ogni giudice, alla luce di prove, testimonianze e perizie, si è sempre figurato mentalmente la scena del crimine. Adesso può entrarci. E puoi entrarci anche tu.

Il protocollo operativo OPM (Olimaint Proximity Management) che ha generato questa simulazione utilizza un incrocio di tecnologie non incasellabile nella mera virtualità. La ricostruzione è effettuata mediante il LIDAR (Light Detection and Ranging), un sistema di rilevamento che sostanzialmente sfrutta il principio del laser: quando la luce colpisce un oggetto, una parte di essa viene riflessa indietro verso un sensore, che può dunque calcolare il tempo di andata e ritorno e produrre un’immagine grezza, una “nuvola di punti”, di ciò che accade intorno al dispositivo. Sia in tempo reale, sia retrospettivamente, a posteriori. In fondo la teoria del Big Bang nasce da questa sorta di riavvolgimento ipotetico del nastro del tempo: l’universo è in espansione, quindi prima sarà stato più contratto.

Per ricostruire la scena del crimine, non basta però il LIDAR ed entra in gioco la cosiddetta intelligenza artificiale. Niente di senziente: è un grande incrocio di dati. Tutte le rilevazioni della scientifica, le perizie effettuate, e poi la simulazione del corretto movimento del fogliame, la riproduzione dei rumori di fondo, l’analisi dei parametri relativi a temperatura, umidità, velocità del vento, inclinazione e pendenza del territorio, morfologia della zona, situazione meteorologica, analisi satellitare del cambiamento di questi parametri dal momento dell’evento delittuoso al momento della ricostruzione. È solo a questo punto che entra in gioco il visore. Può indossarlo il giudice, e può indossarlo l’imputato. E qui la macchina del tempo si trasforma in macchina della verità: i suoi dati biometrici ci diranno se sta davvero rivivendo il momento del delitto.

Dispositivi molto simili sviluppati dalla Olitec sono attualmente in sperimentazione in campo sanitario, che è il regno dei dati biometrici. Ogni terapia è tanto più efficace quanto più è tarata sul singolo individuo, e anzi aggiornata costantemente in relazione alla variazione delle sue condizioni. Il monitoraggio dei parametri biometrici può aiutare nella verifica dell’aderenza terapeutica e prevenire insorgenze indesiderate, talvolta letali. Chi non vorrebbe l’ausilio della previsione algoritmica, se applicata al proprio prossimo infarto? Chi non vorrebbe una vigilanza automatica dei propri cari, quelli più fragili? Quando si tratta di ergastolo, o di vita e di morte, è difficile respingere il progresso tecnologico. Che ovviamente va regolamentato, e regolamentato costantemente, in un compito infinito di autodiagnosi e autoterapia della comunità. Che deve dunque essere dotata degli strumenti necessari alla comprensione del presente. Ma con un tasso di analfabetismo funzionale al 28%, non stupisce in Italia la comune equazione metaverso=visore.

Personalizzazione Arriviamo dunque al gaming: oltre 3 miliardi di active users giornalieri globali. Sulle ali della pandemia, nel 2020, il suo giro d’affari (175 miliardi di dollari, mentre ora 280 miliardi) ha superato la somma di cinema (40 miliardi) e musica (25 miliardi), industrie ovviamente penalizzate in quell’anno dal lockdown. E il nesso con l’isolamento è significativo. Il momento del gioco, il momento dei giochi, dello spettacolo, della cerimonia e della festa è sempre stato il momento sacro della ri-creazione della comunità. La parola inglese è più individuante dell’italiano “gioco”, che viene non da ludus ma da iocum, scherzo. Game viene dal prefisso collettivo germanico “ge” (analogo al “con-” delle lingue neolatine) e da “mann”, cioè persona. La parola gaming predica “persone insieme” ma razzola sulla via della personalizzazione. Rispetto all’intrattenimento tradizionale (musica, cinema), il videogioco si sviluppa in un percorso non (totalmente) lineare e non (totalmente) prefissato, un percorso in cui il ruolo attivo del giocatore è determinante: il gioco è qualcosa che vedi e che senti, ma soprattutto qualcosa che fai. Qualcosa che ti coinvolge. Anche grazie alla componente agonale, che non è propria di tutti i tipi di giochi ma è quella preferita dal gaming, così come dal social scoring, che è erede diretto della gamification: ranking, premi e punizioni. A ogni modo il potenziale intrattenente del gioco è già stato accolto tra gli strumenti didattici della scuola italiana. Con ottimi risultati: una cosa è leggere, studiare un capitolo, o vedere un documentario sui Longobardi, una cosa ben diversa è ricostruire un villaggio longobardo su Minecraft e muoversi virtualmente al suo interno. Il giocatore, l’utente, è più artista che fruitore. E ne trae godimento, soddisfazione, gioia (joy-stick). È un fatto anche (e forse soprattutto) biochimico, un’iniezione di dopamina. Che infatti si traduce talvolta in dipendenza, come con la droga, come con la cioccolata. Non è soltanto questione di gaming, è un trend generalizzato e di lungo corso, un fenomeno il cui impatto non è riconducibile a una mera fluttuazione del mercato: pensiamo a Netflix rispetto alla TV tradizionale, al palinsesto che scorre a prescindere da me, dai miei gusti, dai desideri del momento, ma anche dai bisogni fisiologici (da espletare durante la pubblicità). Su Netflix posso scegliere, stoppare, tornare indietro, rivedere quello che mi pare, quando mi pare. Pensiamo allo scroll dei reel: in pochi secondi ho il potere di passare allo stimolo successivo, comunque di breve durata. Il brivido della decisione e della scelta può rovesciarsi in automatismo. Ma già in partenza, a monte, si tratta di un margine di decisione abbastanza esiguo. Da Wikipedia: «con customizzazione (neologismo dall’inglese customization, traducibile in personalizzazione), nell’architettura dell’informazione, si indica la concessione, da parte di un programmatore di un’interfaccia (per esempio una pagina web), di un certo grado di libertà all’utente riguardo a presentazione, navigazione e contenuto degli elementi [...]». Il palinsesto c’è. Non si vede ma c’è. Nei siti web, nei canali streaming, negli scroll, nei videogiochi. E l’ebbrezza di quel “certo grado di libertà”, che oltretutto finisce per rovesciarsi nel suo opposto, non è per niente gratis. Oggi l’esperienza della rete è personalizzata, soprattutto in termini di profilazione e microtargeting: visitando uno stesso sito, due persone vedono inserti pubblicitari diversi, tarati sulle loro ricerche precedenti, sui dati di navigazione e su quelli personali. Domani, i pop-up tarati sui dati biometrici avranno il colore giusto, il suono giusto, e parleranno la grammatica del mio cuore, del mio corpo in un dato momento, quello più propizio per indurlo all’acquisto.

Zoé/bíos Diciamo “biometria”, misura della vita, e intendiamo i parametri vitali dell’individuo come la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, gli impulsi neuronali, oppure l’iride, il padiglione auricolare ecc. Però bíos, in greco, non indica affatto questi parametri. I Greci avevano due parole per vita. La zoé è la vita del corpo, che l’umano condivide con gli animali, di cui si occupa la zoologia. Ma l’umano, l’uomo, è l’animale che ha il lògos (zoòn lògon èchon). Il suo linguaggio è più articolato, non è solo suono, phoné, quella voce mediante la quale gli (altri) animali comunicano piacere e dispiacere. Il lògos è certamente anche phoné, ma non è solo questo: permette di concepire il giusto e l’ingiusto, l’utile e il nocivo, fino a generare il senso morale del bene e del male. È il primo libro della “Politica” di Aristotele: «la condivisione di queste cose costituisce famiglia e città». Perché questa, in sintesi, è la politica. Per la sanità e per la sicurezza, ma anche per il controllo e la manipolazione, i dispositivi di monitoraggio biometrico aprono praterie di possibilità. Il dibattito pubblico, e non solo in senso normativo, ma soprattutto pedagogico, deve occuparsi di discutere, e costantemente ridefinire, i limiti dell’impiego lecito, i limiti del giusto e dell’ingiusto. La previsione del comportamento umano (bíos) a partire dalla mera biometria (zoé) è un procedimento fallace. Il comportamento umano, e cioè politico, può retroagire sulla stessa pulsione animale. Forse non fa altro.

Il rapporto tra corpo e persona è la prossima frontiera digitale. Ma è una frontiera che l’umanità riscrive da quando è sorta, perché è sorta tracciando questa frontiera. Quella tra corpo animale e persona umana, un rapporto gerarchico e matrice di ogni gerarchia, ma anche matrice di storia. Nasciamo animali, diveniamo umani. È attraverso questa gerarchia di base che l’essere umano ha trovato il proprio posto nel mondo. Sotto Dio e sopra l’animale, ma anche sopra lo strumento. Alcune curve della storia, insomma, è bene prenderle larghe: l’automazione non nasce ieri. Automazione è il fuoco che brucia mentre il Sapiens dorme. È il lupo divenuto cane, che mangia i resti della cena del padrone. E che abbaia ai pericoli, come una sveglia, un automatismo (esterno, protesico) che crea un altro automatismo (interno, organico), la regolarizzazione del sonno notturno, con vantaggi evolutivi miracolosi. Almeno per un ominide che era stato a lungo preda di felini. E che piano piano inizia a riposare, a separare nettamente stato cosciente e stato incosciente, perché qualcuno vigila al suo posto. Abbiamo iniziato a sfruttare in modo creativo il tempo così liberato. La scuola, la scholé, è il mio tempo libero, perché qualcuno lavora al mio posto: «Se le spole tessessero da sé e i plettri suonassero da sé, allora i costruttori non avrebbero per nulla bisogno di aiutanti né i padroni di schiavi» – diceva Aristotele. Ma oggi che l’automazione ne ha realizzato la profezia, commenta Alexandre Koyré, «il tessitore resta più che mai incatenato al telaio». La promessa della tecnica era, e forse può essere ancora, una liberazione del tempo, una scuola per tutti. Se sarà realizzata dipende da tutti, dipende anche da te. Dall’uso del tuo tempo.