Infinito variabile. Una declinazione poetica dello Spazio

08 settembre 2021

Di Chandra Candiani

Meditare apre le soglie, le socchiude, le spalanca, le accosta. Non restano per sempre invariabilmente aperte né invariabilmente chiuse. È lo spazio la prima vastità aperta sull’infinito che si percepisce. Lo sfondo visivo a occhi chiusi, respirando, si rivela in movimento e in espansione, si rivela vivo e pulsante e apre a una spaziosità della mente e del cuore che è sconfinata, non troviamo i suoi confini, le sue sponde. Non incontriamo limiti. Spaventa. Ci si deve avvicinare piano piano, come in alta montagna bisogna abituare gradualmente i polmoni all’aria sottilissima delle altezze. E anche degli abissi. Si tratta dell’infinito percepito da una creatura, un sentirsi totalmente inermi, vulnerabili, fuggevoli e vaghi, fatti di qualcosa che non è.

Respirare mette in contatto con un flusso di arrivi e partenze: il respiro entra in noi ma già porta con sé notizia di abbandono, ci percorre, e infine ci lascia, c’è una piccola sosta nel vuoto, poi ritorna, si riaccende, porta la notizia che un giorno non tornerà.

La poesia va e viene, non sempre bussa, non sempre si fa presagire. Ci becchetta da un libro, da un pensiero, da un angolo aperto, da una stanza chiusa. Altre volte tace totalmente, mai esistita. È fatta della necessità di parola e di silenzio, i suoi a capo non garantiscono ritorno e sbrecciano il linguaggio portando la notizia di una possibile polverizzazione, di un definitivo silenzio della parola. La limitatezza del linguaggio rispetto alla sconfinatezza da cui proviene e che bussa per farsi intuire mi incanta, come si incantano i meccanismi se non vengono ricaricati. Sento che l’incanto è l’infinito che incontra il limite. Alla morte di mia sorella, sono arrivati questi versi: «(…) guerriera qui ti arrendi / come si arrende l’infinito / alla trasparenza magnifica / del limite». È il limite la soglia dell’infinito. Lo si intuisce, quando sconfitti si sta con la fronte appoggiata a un muro.

Copertina Curved Negative-positive, Bruno Munari, 1950, olio su tavola. Sopra Venti voci per la Treccani e dieci virgole per il mondo, Emilio Isgrò, 2019, serigrafia su carta

Certe volte, dedicandosi a un piccolissimo compito che addestra all’apertura, raccogliendosi sul poco, come camminare lentissimi, senza guardarsi intorno, su e giù per un breve tratto sempre ripetuto, senza meta, senza scopo, ci si ritrova rivolti all’infinito, come rivolti all’eterno erano i cavalli di Emily Dickinson quando la morte si fermò per lei. L’eterno è la sospensione del tempo e così l’infinito ci si spalanca quando intuiamo la sconfinatezza del limite: il filo d’erba rivolto oltre sé stesso eppure totalmente solo sé, ma coinvolto in un insieme che da lui dipende e a cui lui dipendendo partecipa.

L’infinito non sta nel pensiero e così lo spalanca. C’è una frase del Buddha su come vagliare ciò che ci viene insegnato: «Mettilo in pratica e se scopri che conduce a un tipo di saggezza che è come guardare un muro e poi il muro crolla e vedi in maniera sconfinata, allora puoi fidarti». Succede, praticando la meditazione e anche la poesia, di avvertire il pensiero come imprigionato nella sua legge di gravità e di sentirlo limitato e stretto, opaco, privo di trasparenza. Poi arriva la piccolezza del respiro, il suo flusso che, se investito di attenzione indivisa e senza preferenze, apre a uno spazio senza fine, dove le opinioni cedono il posto a una chiarezza priva di oggetto. Così, in attesa della poesia, il pensiero pesa e si fa stretto, domestico, senza avventura ma poi, senza garanzia alcuna, arriva un puro conoscere, uno sguardo di meraviglia e il linguaggio si avvicina in un’improvvisazione che ha dietro di sé tutte le parole e davanti l’infinità del possibile. Il libro, i libri, dovrebbero sempre stare alle spalle, mai davanti, altrimenti si scrivono idee, bordi, e non lo sbordare incognito del limite che si fa liquido.

«Gioisci di chi ti impiega / come uno strumento», è Rilke in “La vita monastica”. Quando la poesia arriva gioisco ma quando ammutolisco a lungo sono uno strumento che non sa più di esserlo. Impolverato, triste come un attrezzo che non viene più sollevato, preso in mano.

Pagina da Opium: The Diary of His Cure, di Jean Cocteau, traduzione di Opium: Journal d’une désintoxication, Peter Owen Publishers, 2001

L’infinito che finora ho incontrato è molto delicato, schivo, timidissimo, variabile e vulnerabile. Una pesantezza di tono o di gesto o anche di pensiero lo fa ritrarre, scompare lasciandoti col dubbio del delirio. Quando poi ricomincio a toccare il mondo sognando, a sentire le sue sottili vene, ritorna la spalancatura e non dubito più, finché il mondo non si richiude un’altra volta nelle rassicuranti consuetudini dello sguardo che vede solo il già visto o della parola che dice solo il risaputo. Eppure non è lo straordinario che spalanca infinito, ma anzi l’ordinario visto in trasparenza, nel suo tessuto di veli sovrapposti. Un verso di Pessoa da “Il mondo che non vedo”: «Essere è essere nostro velo». E ancora: «Fra l’albero e il vederlo / dov’è il sogno?».

La nostra smania di portare a termine, di non lasciare essere l’incompiuto è una dimensione immersa nel finito, nel finire, l’infinito è incompiuto, altrimenti non sarebbe più infinito. Si va a tentoni nell’infinito, vacillando, bambini che imparano a camminare e a balbettare, versi che non conoscono il senso, che cercano la parola non ancora ricevuta. L’infinito quando invita a entrare, quando aspetta aperto, rende umili, tutte le soglie rendono umili, ignudi.

In “Il metodo del dunque” Odysseas Elytīs scrive: «La poesia è la prova che la morte non ha l’ultima parola». Resto su questo vacillante bordo e mi fido della poesia, del suo trasalimento. Resto incompiuta e passeggio nel bosco senza meta, ogni passo che tace l’altrove mi apre all’insegnamento invisibile, addestrata come un asino giorno dopo giorno a mettermi da parte, a essere periferica, affacciata a una finestra da cui non si vede niente. La vista è vastissima.