Squid Game: il più crudele dei giochi

08 ottobre 2021

Di Andrea Venanzoni

Per dieci, lunghi anni, nessun produttore e nessuna emittente televisiva hanno preso in considerazione la serie ideata, scritta e più volte modificata dal regista coreano Hwang Dong-hyuk, Squid Game, il Gioco del calamaro: e quella che sembra originare come una storia di frustrazione artistica, si è trasformata, dieci anni dopo, in uno dei più clamorosi successi mediatici.

Squid Game è divenuta una serie Netflix, mandata in onda da metà settembre 2021 e nonostante in molti Paesi sia arrivata in lingua originale con soli sottotitoli nella lingua nazionale, è assurta presto all’Olimpo delle serie più viste di sempre: un successo oggettivamente senza precedenti, nonostante la trama e le idee sottese ai nove episodi in cui si articola il Gioco del calamaro abbiano dei notevoli precedenti sia in letteratura che nel cinema.

In una Corea notturna, fumosa e disperata, 456 persone con evidenti problemi di integrazione sociale, spesso ai margini, ludopati, irrisolti nelle loro fragilità esistenziali, vengono reclutati da una misteriosa organizzazione che propone loro di partecipare ad un gioco, sospeso a metà tra Truman Show e i Teletubbies: in palio, una vincita economica stratosferica, capace di cambiare per sempre in positivo la vita del vincitore.

I concorrenti, all’inizio del gioco, avranno a disposizione due buste, una di colore rosso, e una di colore blu. Proprio come le divise che distingueranno i giocatori-reclusi, e le guardie, con il volto queste mascherato da misteriosi cappucci adorni di triangoli che ricordano i cursori della Playstation; una sorta di simbologia sospesa a metà tra alchimia e tecnologia postmoderna.

Il regista Hwang Dong-hyuk sul set di Squid Game. Credits: Netflix

Il punto nodale della serie è che, in una straniante e conturbante ambientazione iper-colorata e infantile, una sorta di ventre della Fabbrica di Cioccolato con al posto degli Umpa Lumpa i misteriosi incappucciati con mitra a tracolla, e scenografie fiabesche, nel gioco alla eliminazione consegue la eliminazione fisica.

E nelle maniere più brutali e ciniche possibili. Le prove a cui i partecipanti sono sottoposti consistono in giochi per bambini, alcuni noti in tutto il mondo, altri di tipica derivazione coreana. Il protagonista è Il numero 456, Seong Gi-hun, personaggio assai articolato, problematico e complesso, che potrebbe (condizionale d’obbligo per non anticipare nulla) rivelare un sorprendente legame con il numero 1, l’anziano Il-nam, anche questo ultimo foriero di notevolissime sorprese.

Da L’uomo in fuga di Stephen King, romanzo scritto con lo pseudonimo di Richard Bachman, a The most dangerous game di Richard Connell e al giapponese Battle Royale, sono moltissimi i libri e le serie che hanno tratteggiato la dimensione crudele del gioco, unito in simbiosi, e spesso in metafora, con la violenza. Perché quindi Squid Game, nonostante non sia davvero poi così originale nella idea di partenza, è così interessante e sta facendo registrare questo enorme, e meritato, successo?


Innanzitutto, al di là delle facili e semplicistiche letture del suo essere metafora della brutalità di una società voyeuristica che reifica l’esistenza umana fino alle estreme conseguenze, Squid Game è una straordinaria riflessione sul potere: nonostante la lucidità granulosa dei non-luoghi che popolano le scene della serie, siamo davanti a momenti che ricordano, anche graficamente, alcuni passaggi del raggelante Salò di Pasolini.

Quando i giocatori sono disposti in schiera ordinata, davanti ai militi-Teletubbies, più che in un Hunger Games qualsiasi, siamo sprofondati nell’inferno sadiano de Le 120 Giornate di Sodoma, solo riaggiornate all’epoca del digitale e della sorveglianza voyeuristica di massa.

Ma soprattutto i personaggi che popolano le immagini, anche le più cruente, sono persone: scolpite e cesellate con molti particolari e dettagli, non siamo davanti sagome di cartone messe in piedi per mera esigenza di scena.

Ci sono disperazione, sentimento, scoperte, desolazione, una notte cupa e insondabile che aggredisce i sensi, come in un dramma di Sarah Kane ibridato con un videogioco. E la morte, qui, colpisce, colpisce in faccia davvero. Non lascia mai indifferenti. E questo, in una epoca che della violenza ha fatto simulacro posticcio, è certamente il più grande pregio della serie.