Energia. La grande trasformazione

Il saggio di Valeria Termini giunge nel cuore dell’attuale, ponderoso momento di riformulazione del modello di sviluppo globale innescato dalle conclamate urgenze climatiche e dalle sfide geopolitiche connesse al monopolio o alla condivisione decentrata delle filiere energetiche rinnovabili.

Di Alessandro Giuli

La vecchia talpa marxiana aveva scavato bene, nella sua Miseria della filosofia: “Le transizioni energetiche cambiano la condizione dell’umanità”. Ed è appunto su questo presupposto che si fonda il saggio a suo modo predittivo di una scienziata della materia come Valeria Termini, “Energia. La grande trasformazione”, Laterza editore. Professore ordinario di Economia politica all’Università Roma Tre, l’autrice può vantare riconoscimenti internazionali di prestigio ed è stata commissario dell’Autorità per l’Energia e vicepresidente del Consiglio Europeo dei Regolatori dell’Energia. Il suo libro giunge nel cuore dell’attuale, ponderoso momento di riformulazione del modello di sviluppo globale innescato dalle conclamate urgenze climatiche e dalle sfide geopolitiche connesse al monopolio o alla condivisione decentrata delle filiere energetiche rinnovabili. Intorno a questo clivage, sta andando in scena il grande gioco mondiale per lasciarsi definitivamente alle spalle il Novecento come “secolo del petrolio” e individuare una via sostenibile lungo la quale le nuove fonti di approvvigionamento (eoliche, fotovoltaiche, geotermiche e biomasse), in sinergia con la transizione digitale, siano il combustibile per accrescere il “potenziale democratico della trasformazione energetica nella politica globale e nella vita dei cittadini”.

Prerequisito indispensabile: conoscere il passato per non ripeterne gli errori. Di qui la lunga retrospettiva, che irrobustisce il lavoro della Termini, tesa a illuminare le genesi dell’egemonia occidentale americanomorfa legata alla centralità dei petrodollari negli scambi internazionali, con l’inevitabile ricaduta oligopolistica che ha condizionato l’area del Golfo persico condannandola a fluttuare in una durevole instabilità fra Stati produttori (l’Egitto di Nasser e l’Iran di Mossadeq) e Stati rentier pietrificati in un sistema dinastico semifeudale sul modello dell’Arabia waabita. Oggi che tali rendite sono in dissolvenza, si apre l’opportunità per riconsiderare alla radice i vecchi modelli di relazioni internazionali “idrocarburocentriche” che hanno prodotto la finanziarizzazione dei mercati e disegnato un’immensa giungla “dove gazzelle e leoni vengono messi nelle stesse gabbie” (la citazione, molto opportuna nel testo, è del compianto maestro Marcello De Cecco). A tale riguardo, come sostiene e argomenta l’autrice offrendo sempre precise ricognizioni statistiche, l’irruzione sullo scacchiere mondiale dello shale gas e le innovazioni sul trasporto del gas naturale liquefatto (GNL) rappresentano un’alternativa positiva in quanto libera dalle spire della speculazione e strumento di crescita per nuovi Paesi produttori (Qatar, Canada, Indonesia, Iran) o per antiche eccellenze tecno-trasformatrici (l’Italia di Enrico Mattei!); ma al tempo stesso sono anche la causa efficiente di una concorrenza aggressiva nella quale si rischia di riprodurre, sia pure a geometria variata, la novecentesca dinamica di soft power che in passato ha reso dominanti gli Stati Uniti, i quali sulla mappatura militarizzata dello shale gas hanno costruito la loro autarchica Energy Renaissance.

Qui il cono di luce si allarga su gli attori nazionali declinanti ma ancora egemoni (Usa), sugli emergenti già citati e soprattutto su quelli ormai ascesi al rango di primissima potenza: la Cina neoconfuciana di Xi Jinping, controversa protagonista della riscossa asiatica che oscilla tra le inveterate tentazioni colonialiste (vedi la predazione delle terre rare africane con il pericolo di un antistorico testacoda minerario di tipo schiavile) e la millenaria attitudine a conciliare le leggi dell’uomo e quelle spontanee della natura. Se, come affermano gli esperti, nel 2050 l’Asia riconquisterà la posizione economica dominante detenuta fino alla rivoluzione industriale europea, lo si dovrà anche alla capacità di Pechino nell’investire più e meglio di altri nella decarbonizzazione fondata sulle rinnovabili e nelle tecnologie di ultima generazione. Fermo restando l’auspicio che il neoconfucianesimo si dimostri un libro aperto sulla volontà di sfuggire alla trappola di Tucidide (Cina e Usa come novelle Atene e Sparta) e contribuire invece a una prospera stagione di riconversione multilaterale post-trumpiana.

Si tratta di lenti ma inesorabili “movimenti di faglia di lungo periodo” che preconizzano una nuova fase green del capitalismo in cui le catene globali del valore nella filiera energetica possono dilatare gli spazi vitali dei diritti civili (la prospettiva del Medioriente, secondo la dottrina dello Stato-fiscale risalente a Joseph Schumpeter), magari in conformità all’intuizione habermasiana delle “intersezioni compatibili” tra le democrazie costituzionali e le regioni a più forte radicamento identitario collettivistico. Non molti anni fa, il politologo americano Charles A. Kupchan si lasciò sfuggire un’ambigua profezia: “Il XXI secolo non apparterrà né agli Stati Uniti, né alla Cina e nemmeno all’India, al Brasile o a qualche altra nazione emergente: sarà un mondo senza un unico centro di gravità o un gendarme globale, sarà il mondo di nessuno”. Il saggio di Valeria Termini ci ricorda che quello del XXI secolo potrebbe essere, piuttosto, il mondo di tutti.