L'agguato del Metaverso alla carne

17 febbraio 2023

Di Edoardo Dallari

Al “vivaddio!” di Luciano Floridi, uno dei principali teorici dell’uomo digitale che esulta per la “profonda trasformazione ontologica” cui l’umano sta pervenendo immerso nelle ICT (Information and Communication Technologies) e nelle AI (Artificial Intelligence), Eugenio Mazzarella contrappone l’imperativo – disperato, in fondo – di “salvare la presenza”, la presenza della carnalità dell’umano in quanto tale. Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022) esprime l’esigenza di una critica serrata all’ideologia che sorregge l’impianto tecnologico che nel mondo globale costituisce l’orizzonte trascendentale della vita di ciascun individuo.


Lo “shock antropologico”, la mutazione essenziale del nostro dasein, del nostro esserci, simbolizzata dal digito ergo sum, di cui il Metaverso si è avviato a essere la rappresentazione più compiuta, consisterebbe nella progressiva smaterializzazione della vita reale in quella virtuale. Il “nuovo Vangelo” annuncia che siamo entrati nell’epoca della piena interattività nella community, dell’iper-connessione, dell’interazione, ovvero dell’on-life (l’autentica vita digitale smaterializzata) che “fagocita” sempre più l’off-life (l’inautentica vita biologica). È tempo di entrare nell’iper-storia dell’info-sfera – dove “ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale” (Floridi), è tempo di un salto evolutivo che ci consenta di dismettere la nostra corporeità, di liberarci dalla carne per diventare puri spiriti, evolvere in avatar. Eccolo il Verbo per l’uomo nuovo: “avatarsi”, divenire inforg, esseri ibridati digitalmente, per salvarsi dalla morte, divenire immortali. 

Fonte: Unsplash.com

Per Mazzarella questa prospettiva conduce a un Grande Fratello digitale in cui si attua l’alienazione assoluta dell’umano che si ritrova ospite analogico e non abitante di un mondo che non lo riconosce – gli agenti artificiali funzionano meglio di noi e potenzialmente non hanno bisogno della nostra presenza – e che lo estromette relegandolo all’irrilevanza e alla schiavitù di un mondo retto dall’“algocrazia”, dalla dittatura degli algoritmi. Ma per definire questo allontanamento dell’uomo dalla sua essenza più propria bisogna dire che cosa sia questa essenza. Se l’Intelligenza Artificiale si basa sull’idea che la ragione umana sia puro calcolo, che le macchine possono riprodurre con efficacia infinitamente più alta rispetto alle capacità umane, allora per riappropriarci della dimensione umana occorre considerare che l’uomo è sentire, capacità di soffrire. Per non perdere il mondo – come accaduto durante il lockdown pandemico, espressione dell’accelerazione del dominio tecnologico che isola i corpi gli uni dagli altri – occorre salvare il nostro essere corpi, spiriti sì, ma esseri che pensano in quanto incarnati, e che intelligono, pensano, non solo calcolando, ma vivendo quella “prossimità insopprimibile” all’altro, al corpo dell’altro, che determina lo spazio-tempo che si abita, qui e ora. “Paradossalmente è proprio il corpo che muore il vero argine all’umano non ‘telematico’, il pegno del corpo vivo di spirito che siamo. (…) Non c’è nessuna metafisica, neanche di avatar che ci portino nell’eterno digitale, dopo il reale, dopo la fisica che siamo. Dopo la fisica, anche quella dell’onlife, c’è solo la fisica che muore, l’unica metafisica conosciuta, cioè noi”. 

Siamo tuttavia sicuri che rimettere al centro il corpo, la presenza, sia sufficiente per contrastare il Metaverso? Davvero individuare nel pàthos l’essenza dell’umano consente di reagire all’onnipervasività del “calcolemus”, al divenire antiquato dell’uomo? Non è forse un circolo vizioso che relega l’uomo a una subalternità al digitale, al sistema totalizzante delle relazioni real-virtuali? Alla sua impotenza, debolezza, al proprio nulla?