Automotive, l’elettrico avanza con la Cina. E l'Italia?

03 gennaio 2022

Di Massimo Falcioni

L’ondata che nel mondo spinge forte il settore dell’automotive verso il motore elettrico e lo stop proposto in Italia dal Cite (commissione interministeriale sulla Transizione ecologica) dei propulsori a benzina e diesel entro il 2035 se da un lato alimentano aspettative positive per la riduzione dell’inquinamento ambientale dall’altro preoccupano per i risvolti negativi sul futuro dell’industria e dell’occupazione. E’ una questione geopolitica che va ben al di là dei confini strettamente tecnici investendo le scelte politiche che non possono essere prese dai governi dei singoli stati: come tale va affrontata, senza strappi e fuori da logiche ideologiche. Il riscaldamento del pianeta con i gas serra generati dall’uomo (soprattutto anidride carbonica, ma non solo) è problema reale e va affrontato senza però mettere in croce il settore trasporti (auto, moto, camion, aerei, navi) responsabile del 14% del gas serra complessivo, di cui il 5/6% dovuto esclusivamente alle auto. 
Bisogna guardare in faccia la realtà e chiamare le cose per nome: non è una forzatura pensare che, procedendo a senso unico e a testa bassa verso l’elettrico, un settore strategico qual è quello dell’automotive possa diventare una esclusività tutta cinese mettendo all’angolo le industrie dell’Occidente con ripercussioni negative generali, anche di carattere politico. Negli ultimi anni la Cina ha sovvenzionato l’industria dell’ auto elettrica per oltre 100 miliardi di dollari rendendo già attive oltre 300 sue imprese specializzate. Con la prevista invasione dell’elettrico si va ben al di là della attuale pesante presenza cinese nel settore auto e moto sostanzialmente basata su prezzi bassi e tecnologie di basso/medio livello: la Cina detiene il monopolio nella produzione di batterie e delle materie prime (ad esempio gli ioni di litio detenuti dal colosso asiatico per oltre l’80% nel mondo, ma anche cobalto, grafite, manganese, nichel) indispensabili per realizzare gli accumulatori. Addirittura la Cina possiede grandi miniere di cobalto e di altri materiali preziosi in Congo e in altri Paesi dell’Africa e non solo. Da tempo il colosso asiatico è impegnato nell’estrazione delle materie prime e sui metalli per la produzione di batterie agli ioni di litio, senza i quali oggi l’elettrico non decolla. La Cina è già in grado di elaborare il 90% mondiale del litio grezzo, il 70% del cobalto, il 40% del nichel distanziando enormemente tutti gli altri Paesi, Usa compreso.

Giacimento di litio

Non basta: c’è preoccupazione per le nuove mire espansionistiche della Cina non solo in Africa ma anche nel Pacifico, in particolare verso la Nuova Caledonia (una dozzina di isole francesi nel sud del Pacifico) che possiede nel suo sottosuolo il più grande deposito al mondo di nichel, risorsa strategica per le batterie e per la produzione di acciai speciali utili per la costruzione delle navi e degli armamenti. Negli Stati Uniti si cerca di contenere l’espansionismo cinese e, specificatamente all’automotive elettrico, correre ai ripari programmando entro i prossimi 5-10 anni la costruzione di grandi fabbriche di batterie, senza però avere certezze su come e dove trovare le materie prime necessarie per una produzione adeguata, iniziando dal cobalto, dal manganese, dal nichel. Senza una svolta decisa, di cui allo stato attuale nessuno sa se potrà davvero avvenire e in quale direzione, non è difficile prevedere che la Cina possa diventare davvero “padrona” del mercato automotive mondiale. Altri interrogativi incombono perché non è detto che l’elettrico – questo elettrico – sia la soluzione per risolvere i gravi problemi ambientali. Basti pensare allo smaltimento delle batterie. Così si lavora su batterie innovative senza l’uso di materiali quali cobalto e litio (batterie agli ioni di sodio?) non solo per non rimanere “prigionieri” della Cina ma anche per produrre batterie di minor impatto sull’ambiente e non restare vittime nella tenaglia dell’aumento incontrollato dei prezzi delle materie prime. Non è comunque “solo” una questione tecnica perché , come già scritto, questa svolta dell’automotive inciderà su tutto, compresi gli equilibri politici nazionali e internazionali. Una matassa particolarmente ingarbugliata per l’Italia, da sempre protagonista dell’automotive e oggi in prima fila nella scelta verso la nuova grande era della transizione ecologica.  Se davvero in Europa il Parlamento ratificherà la recente proposta della specifica Commissione con il divieto entro il 2035 per la produzione di auto con motori endotermici (benzina e diesel) – il nostro Cite ha di fatto “copiato” quanto proposto a Bruxelles aggiungendo lo spostamento al 2040 lo stop per i veicoli commerciali  - le conseguenze in Italia per l’industria e per l’occupazione saranno devastanti. Un durissimo colpo per l’intera economia dato che il settore automotive produce il 6,2 del Pil nazionale generale, forte di oltre 5.500 imprese, di circa 280 mila addetti, con un fatturato vicino ai 110 miliardi di euro.


Due dati per capire in dettaglio: l’automotive Made in Italy esporta in Europa per il 67% e il 30% delle auto tedesche è realizzato da parti prodotte nel nostro Paese. Entro i prossimi 13 anni almeno 60 mila dipendenti di 500 aziende saranno disoccupati. C’è chi prevede addirittura una botta da 100 mila disoccupati. In Italia, solo nella componentistica  sono presenti circa 2.500 imprese con circa 170 mila occupati. Ci sono già oggi in molte aziende del settore riduzioni di posti di lavoro causa tagli alla produzione nel diesel, nella componentistica dei motori endotermici. Anche gli altri Paesi sono in affanno: ad esempio in Germania si teme di perdere entro il 2030 quasi 500 mila posti di lavoro! Per effetto delle economie di scala entro tre-cinque anni il gap di prezzo tra le auto elettriche e quelle a motore endotermico dovrebbe ridursi di molto. Negli stessi USA si spinge sull’auto elettrica, con incentivi fiscali per i consumatori dei nuovi mezzi prodotti in America. Altro discorso in Europa dove manca ancora una linea comune e ogni Paese fa quel che vuole. L’Italia, anche stavolta, è il Paese più esposto: vaso di coccio fra vasi di ferro. La febbre sale. Durissime le ultime dichiarazioni del presidente di Confindustria Carlo Bonomi: “Dopo l’annuncio del Cite mi aspetto che molte imprese del settore automotive comincino a pensare alla delocalizzazione: non è questo il modo di fare politica sulla transizione energetica”. Sullo stesso piano una nota dell’Anfia, l’associazione dell’indotto auto: “Auspichiamo un ripensamento o comunque un chiarimento. L’accelerazione verso l’elettrificazione è troppo spinta: serve un piano industriale con risorse e una road map di avvicinamento”. Idem i sindacati dei lavoratori. “Il countdown a cui è legato la perdita di oltre 60 mila lavoratori nel nostro Paese è stato avviato. Istituzioni e politica non stanno assumendo decisioni all’altezza del dramma sociale che si sta consumando, servono fondi per la formazione e ammortizzatori sociali ad hoc. Andare a rotta di collo verso l’elettrificazione senza sostegni di politica industriale significa suicidarsi. Serve un piano straordinario con risorse straordinarie”. Il ministro allo Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti pare condividere le preoccupazioni delle organizzazioni degli imprenditori e dei sindacati dei lavoratori: “Bisogna difendere l’industria italiana evitando ricadute sociali disastrose”. Già. Ma serve passare dalle parole ai fatti. Subito, che è già tardi. E’ stato finalmente creato un tavolo sull’automotive dal ministero dello Sviluppo economico ma, per ora, ci si muove a zig zag, fra audizioni, pacche sulle spalle e arrivederci alla prossima.