L’Azione Parallela. Walther Rathenau e una certa idea di democrazia

11 luglio 2022

Di Vincenzo Pisani

“La salute di un popolo proviene solo dalla sua vita interiore, dalla vita della sua anima e del suo spirito”. Incise su una placca di bronzo all’altezza del civico 16 di Königsallee - Grunewald, Berlino Ovest - queste parole sono il distillato di un discorso pronunciato a Stoccarda il 9 giugno 1922, da Walther Rathenau, allora Ministro degli Esteri del sesto governo (Kabinett) formatosi nei tumultuosi anni della Repubblica di Weimar, primo esperimento democratico della storia tedesca.

La tempesta perfetta

Nella sua interezza, l’orazione dello statista berlinese ripercorreva la complessità delle sfide di un Paese uscito sconfitto e stravolto dalla Prima Guerra Mondiale. Non era certo nelle formule degli accordi e negli obblighi firmati con le potenze vincitrici – ammoniva il Segretario di Stato - che la Germania avrebbe ritrovato la forza per rialzarsi e tornare a sperare, bensì guardando dentro se stessa, nella sua anima, nel suo spirito. Una visione che avrebbe dovuto ispirare un sentimento di unità nonostante le conflittualità interne. Uno slancio di orgoglio che avrebbe potuto sanare il malcontento nazionale, malgrado le ferite inferte dalle perdite territoriali, economiche e militari. Un appello che, tuttavia, cadrà nel vuoto. 
Appena quindici giorni dopo il discorso di Stoccarda, alle 10:45 del 24 giugno 1922, una Torpedo grigia a sei posti, scoperta, con tre uomini a bordo, si affianca e tampona da destra la Mercedes di servizio che sta portando il Ministro alla sua sede di lavoro. Un fucile mitragliatore spara nove colpi a distanza ravvicinata. Come confermeranno le indagini della polizia, Walther Rathenau, nel punto esatto in cui oggi è posta la placca in sua memoria, era caduto vittima di un attentato per mano di ex ufficiali dell'esercito tedesco, legati al milieu più reazionario, militarista e antisemita allora in azione in Germania.
Quello di Rathenau non fu il primo omicidio né sarà l’ultimo di una lunga storia di violenza politica che caratterizzò l’intero arco temporale della fragile democrazia di Weimar. Ma il suo caso resta il paradigma di un’epoca e del suo spirito. Il Ministro degli Esteri era la vittima designata, il capro espiatorio perfetto delle frustrazioni e dei fantasmi di un popolo intero. Ebreo, figlio del fondatore del colosso dell’elettromeccanica e dell’elettrotecnica Allgemeine-Elektrizitäts-Gesellschaft (AEG), aveva studiato filosofia, fisica, chimica e ingegneria a Berlino e Strasburgo. Successivamente avrebbe ricoperto numerosi incarichi dirigenziali nell'industria tedesca, fino a guidare la stessa AEG. Uno dei pochi industriali tedeschi a rendersi conto del ruolo strategico delle risorse economiche per l’esito del conflitto, Rathenau convincerà il governo ad istituire un dipartimento delle materie prime di guerra, che dirigerà fino alla primavera del 1915. Dopo la guerra, contribuirà a fondare il Partito Democratico Tedesco – ispirato al liberalismo classico – e promuoverà una politica di cooperazione con il Partito Socialdemocratico Tedesco. Convinto che i giorni del capitalismo senza restrizioni stessero volgendo al termine, sosterrà nel suo “Die neue Wirtschaft” (“La nuova economia”, 1918), un progetto che oggi potremmo definire una sorta di "socialismo del capitale": distribuire il plusvalore delle imprese secondo una destinazione sociale piuttosto che a favore del profitto puro e semplice. 
Come spiega lo storico Lucio Villari, Rathenau, figlio dell’élite industriale prussiana, fu tra i pochi suoi contemporanei a cercare di individuare il punto di rottura politico e culturale che permettesse al liberalismo e all' individualismo borghese di compiere il passo decisivo verso la democrazia. Forte dell’esperienza maturata negli anni dell’economia di guerra, credeva in un ruolo forte dello Stato nell'organizzazione dell’economia, non distante dal modello keynesiano. Come Ministro degli Esteri, svolse un’attiva politica di avvicinamento nei confronti della Russia comunista, con cui firmerà a Rapallo, ai primi di giugno 1922, un trattato di amicizia e di mutua assistenza economica. In altri termini, mirava a raccordare capitalismo e socialismo in una visione internazionale, che andasse oltre la lotta di classe e si ascrivesse nel quadro di una democrazia liberale. Un obiettivo estremamente ambizioso e complesso per una stagione in cui aleggiavano fin troppi fantasmi: la Dolchstoßlegende, la leggenda della “pugnalata alla schiena”, che addossava al presunto disfattismo anti-nazionale delle correnti democratiche e popolari le colpe della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale; l’ossessione per la presunta esistenza di un complotto sionista internazionale, che all’occorrenza vedeva gli ebrei tanto alleati del bolscevismo quanto regia occulta della finanza globale; il mito della verratene Revolution, la “rivoluzione tradita”, che attribuiva alla borghesia prussiana la responsabilità di aver disatteso le istanze più radicali – a destra e a sinistra dello spettro politico - dei moti che portarono al rovesciamento dell’Impero guglielmino e alla nascita del regime repubblicano. 
In altre parole, il sabato mattina del 22 giugno 1922, la vettura di servizio del Ministro Rathenau andò incontro alla tempesta perfetta di un Paese lacerato da troppe inquietudini e rivendicazioni divergenti per poter ascoltare qualsivoglia appello all’unità nazionale, allo spirito democratico e alla cooperazione tra le classi e le Nazioni. 

Walther Rathenau

Arnheim/Rathenau, il doppelgänger di Musil

Questa è storia dei fatti: Rathenau l’uomo di industria, l’intellettuale, il servitore dello Stato, le sue azioni, le sue idee, la sua fine. Ma come in un quadro dell’espressionismo tedesco - pensiamo a Metropolis di Georg Grosz, che insegue la realtà soggettiva, la deforma con colori acidi, la costella di simboli e caricature – esiste una dimensione altra, che è intimamente legata al contesto culturale in cui i fatti accadono. Esiste l’Europa del primo Novecento, le cui capitali alimentano e promuovono innovazioni, avanguardie e sperimentazioni in ogni campo, proiettando i contemporanei in una “vertigine di libertà”, che sarà tanto intensa e travolgente da causare disorientamento, smarrimento, crisi
Ed è qui, in questa congerie di correnti di pensiero e inquietudini collettive, che facciamo conoscenza di Paul Arnheim, l’alter ego di Walter Rathenau, per come ci viene presentato nell’opera-monumento della letteratura mitteleuropea novecentesca: “L’uomo senza qualità” di Robert Musil. "Un grande uomo... un nababbo tedesco, un ricchissimo ebreo, un originale che scriveva poesie, dettava il prezzo del carbone ed era intimo amico dell'imperatore di Germania". All’interno di quell’opera che la critica tedesca definisce uno straordinario esempio di “Intelligenzen Roman” – una narrazione che esplora le dispute intellettuali tra artisti, scrittori e pensatori di un determinato contesto storico - il personaggio letterario che l’autore austriaco ricalca sulla falsa riga del vero Rathenau è uno dei membri dell'Azione Parallela. Geniale parabola di un mondo ormai in via di estinzione, la “Parallelaktion” altro non è che una grandiosa celebrazione, messa in piedi da un gruppo di notabili per celebrare il settantesimo anno di regno di Francesco Giuseppe e, al contempo – da qui il nome dell’iniziativa – per oscurare i festeggiamenti che si terranno contemporaneamente in Germania per il trentesimo anniversario di regno di Guglielmo II.
Robert Musil aveva conosciuto il vero Rathenau in quel di Monaco nel 1914 e ne rimarrà fortemente colpito. Ecco dunque che il suo alter-ego Arnheim assume le caratteristiche di un uomo in grado di soggiogare qualunque interlocutore. Padroneggia cinque lingue, frequenta con egual disinvoltura magnati della finanza americana, imperatori e re: "che egli sapesse parlare di industria con i grandi industriali e di finanza con i grandi banchieri, era comprensibile. Più sorprendente il fatto che fosse in grado di conversare con altrettanta competenza di fisica molecolare, di misticismo e di tiro al piccione". 
Lo sguardo di Musil verso la figura letteraria che evoca il Rathenau in carne ed ossa si mostra al contempo ammirato e tagliente, ammaliato e disincantato, quasi a tratteggiare l’ambivalenza di un uomo capace di suscitare fascino e fastidio, stima e irritazione. Con raffinata ironia, Musil sembra suggerirci che intelligenza, cultura e aspirazioni morali diventano un guscio vuoto laddove inseguono un mondo ideale, autoreferenziale, slegato dalla realtà. Un Rathenau che lo scrittore sceglie infatti di associare ad un progetto effimero, ideato per celebrare un Impero, quello austro-ungarico - latore di pace, ricchezza e multiculturalismo proprio a un passo dal suo disfacimento. Ai nostri giorni, ben lontani dall’eleganza e profondità intellettuale di Musil, qualche nostro contemporaneo potrebbe leggere nel ritratto di Rathenau/Arnheim la descrizione di un “radical chic”: colto, cittadino del mondo, ben saldo nelle cerchie elitarie dell’aristocrazia industriale e al contempo affascinato dalla “bellezza delle idee”, dal “candore della pace e della giustizia”, proprio mentre le strade di Berlino esprimevano rabbia, frustrazione e disprezzo per un establishment mai pienamente riconosciuto dalla maggioranza di cittadini, vuoi per “aver supinamente accettato le condizioni umilianti” imposte dalle potenze vincitrici – dicevano a destra – vuoi per non spingersi verso un democrazia operaia in stile sovietico, rincalzavano nelle cerchie della sinistra più radicale.

Robert Musil

La relatività come nuovo paradigma

Ma Musil non è mai banale o superficiale nelle sue riflessioni e nei suoi giudizi, sempre accompagnati da una certa pietas, uno sguardo che non difetta di compassione e comprensione per i limiti e le derive del mondo che descrive. Di Rathenau coglie tanto lo spessore politico e morale, quanto l’oggettiva e ineluttabile distanza tra gli obiettivi immaginati e la realtà in cui realizzarli. 
Umanista e matematico, lo scrittore austriaco discuterà a Berlino nel 1908 la sua tesi di dottorato sulle teorie del fisico e filosofo Ernst Mach, uno dei massimi esponenti dell’empiriocriticismo, quell’indirizzo filosofico che mirava a mettere in luce limiti di validità della scienza e faceva dell'esperienza pura la base di ogni conoscenza. Ma già due anni prima, con la pubblicazione del suo romanzo “I turbamenti del giovane Törless”, Musil aveva ampiamente dimostrato la centralità dell’approccio matematico-scientifico nella sua costante ricerca esistenziale: “…durante la lezione di matematica, a Törless venne all’improvviso un’idea. Già negli ultimi giorni aveva seguito con particolare interesse le lezioni, pensando: “Se tutto questo costituisce davvero la preparazione alla vita, come dicono, dovrà pur trovarvisi almeno un accenno di ciò che io vado cercando”. E aveva pensato proprio alla matematica, ancora preso da quei pensieri sull’infinito. […] La storia dei numeri immaginari. […] Non è poi così difficile. Bisogna solo ricordare che l’unità di calcolo è data dalla radice quadrata di meno uno […] Ma è proprio questo il punto. Quella radice non esiste. Qualsiasi numero, che sia negativo o positivo, elevato al quadrato dà un valore positivo. Per cui non può esserci un numero reale che sia la radice quadrata di qualcosa di negativo […] Ma la cosa singolare è proprio che ciononostante con quei valori immaginari o comunque impossibili si possano fare calcoli perfettamente reali e raggiungere alla fine un risultato concreto […]  In un calcolo del genere, tu hai all’inizio dei numeri solidissimi, in grado di quantificare metri, pesi o qualsiasi altro oggetto concreto, comunque numeri reali. Alla fine del calcolo, lo stesso. Ma l’inizio e la fine sono tenuti insieme da qualcosa che non c’è. Non è un po’ come un ponte che consti soltanto dei piloni iniziali e finali, e sul quale tuttavia si cammina sicuri come se fosse intero? Un calcolo del genere mi dà il capogiro; come se un pezzo del cammino andasse Dio sa dove. Ma la cosa davvero inquietante per me è la forza insita in questi calcoli, una forza capace di sorreggerti fino a farti arrivare felicemente dall’altra parte.”
Quel ponte “tenuto insieme da qualcosa che non c’è” ci guida dritto negli anni di Rathenau, Musil, Mach, Einstein, Nietzsche, Weber e Freud, portandoci al cuore della crisi del positivismo, al tramonto di una visione dei fenomeni come mera concatenazione deterministica di cause ed effetti. La relatività dello spazio e del tempo; l’influenza dell’osservatore sull’osservato (che porrà le basi della fisica quantistica); il superamento degli assiomi delle “verità evidenti” a favore del convenzionalismo scientifico; l'emancipazione da ogni fede metafisica; la scoperta dell’inconscio come dimensione soggettiva: erano queste lenti attraverso le quali filosofi, storici, economisti, sociologi, letterati e artisti del figurativo guardavano alla realtà dell’Europa del primo Novecento. Ed è il contesto culturale in cui sono immerse tanto la Vienna di Musil come la Berlino di Rathenau. Capitali di due Imperi dissolti dalla Grande Guerra. Costrette, loro malgrado, a gestire la constante tensione fra frustrazioni dei vinti, nostalgie di potenza e rivendicazioni di nuove istanze progressiste, le due città dovranno prendere le misure della nuova realtà democratico-repubblicana, incalzate e condizionate tra due modelli opposti, ma entrambi allora in piena ascesa: la Russia di Lenin e l’Italia di Mussolini.



Weimar, specchio del perturbante 

Torniamo alla pittura di Georg Grosz o del suo collega Otto Dix, alle loro caricature, allo specchio deformante e sarcastico con cui ci descrivono la Berlino degli anni di Weimar: il militare che avanza rigido e pomposo, la dama ingemmata che ci osserva da un divano, la dattilografa che scrive col suo cappello a cloche, l’operaio in tuta e berretto che consuma stancamente la sua sigaretta durante una pausa, i politici baffuti e occhialuti che discettano sull’incerto futuro della Germania nell’idillio di un giardino borghese, i bambini malvestiti delle Mietskaserne – i casamenti popolari dei quartieri poveri – e quelli agghindati e paffuti dei distretti più elitari, i commessi azzimati dei grandi magazzini, le prostitute in attesa del prossimo cliente, i senzatetto annebbiati dall’alcool...Folla ovunque: nelle strade, sui tram, nelle metropolitane, nei caffè e nei cabaret, dove camerieri in livrea si fanno strada tra tavoli ricolmi di sigari, alcolici, giornali, armi, banconote… È un brulicare di vita frenetico e incessante in cui, qua e là, nella massa dei corpi volutamente alterati e spigolosi, spuntano uniformi naziste e frontisti rossi, dove le contraddizioni convivono e si incrociano senza soluzione di continuità, nell’incertezza di un agone in cui non è ancora dato sapere chi prevarrà, chi detterà la via e imporrà la propria visione del futuro. 
Nel quindicennio della Weimarer Republik, Berlino è stata la vera e indiscussa capitale della modernità, non solo in Europa, ma a livello globale. Viveva quella che il filosofo tedesco Ernst Bloch avrebbe definito “la nuova età di Pericle”, un’epoca di massimo splendore culturale e scientifico, e che lo storico Hagen Schultze riassunse con queste parole “espressionismo e post-espressionismo, nuova oggettività, realismo metafisico, dadaismo, futurismo, cubismo, primitivismo, […]: tutto ciò si affastella nel giro di un decennio, crea scuole e discepoli […], di volta in volta si presenta come assolutamente nuovo, unico e diverso. Uno scintillante caleidoscopio di forme e colori mai visti prima.” 
Berlino era leader incontrastata nel settore del fotogiornalismo e della fotografia artistica, con i reportage di Erich Salomon e i fotomontaggi politici di John Heartfield; per le grandi testate giornalistiche scrivevano corrispondenti come Alfred Dōblin, Erich Kästner o Joseph Roth; il cinema espressionista portava sul grande schermo opere con un linguaggio profondamente innovativo di cui, “il Gabinetto del Dottor Caligari” (1919-20) resta l’emblema indiscusso: basandosi sulla difficile distinzione tra allucinazione e realtà, il regista Robert Wiene mette in scena un viaggio nell’abisso dell’animo umano, tra strade che si torcono, scale sghembe, alberi dai rami protesi a formare figure fantastiche e, soprattutto, il tema del doppio, il Doppelgänger – il doppio viandante- che, calato in questo contesto,  sembra voler esprimere le paure, le angosce personali e collettive di un popolo “in movimento”, dimidiato da spinte opposte e polarizzanti. Attraverso la figura del “gemello cattivo” che, imperterrito, segue i suoi passi, l’uomo di Weimar incarnare il conflitto tra pulsioni contrastanti, fino ad entrare in uno stato di nevrosi. Siamo nella sfera dell’unheimliches di Sigmund Freud, come ben espresso nel suo saggio “Das Unheimliche” (1919): quel “perturbante” suscitato dall’ambivalenza che proviamo nel rapportarci a qualcosa - a un oggetto o ad una situazione - in cui si uniscono caratteristiche di estraneità e familiarità in una sorta di “dualismo affettivo” in cui affiora qualcosa di conosciuto e misterioso al tempo stesso. La finezza della lingua tedesca consente di racchiudere alla perfezione questo sentimento: “Heim” – il focolare domestico, la dimora – è la radice da cui gemmano il termine “Heimat” - patria, paese natio – e l’aggettivo “heimlich”, ciò che è nascosto, segreto. Con il prefisso di negazione “un-”, “unheimlich” assume la valenza del turbamento provato dal riaffiorare di ciò che un tempo avevamo conosciuto e poi rimosso: una patria antica, una dimora originaria che dall’inconscio torna in superficie
E dopo l’esperienza dilaniante e disumana della Grande Guerra, l’Europa intera è un grande territorio dell’unheimliches: punto d’innesco del primo vero conflitto globale, il Vecchio Continente ha sperimentato un trauma collettivo senza precedenti, un evento che ha ribaltato le categorie mentali e materiali, un capovolgimento completo dell’impianto concettuale della civiltà europea. Come espresso dallo storico tedesco Niels Löffelbein (“War Victimization and the Memory of the First World War in Germany after 1918”, École française d’Athènes, 2019), per le nazioni del dopoguerra, la perdita di massa di membri delle proprie famiglie o il loro ritorno come mutilati, disabili, irrimediabilmente turbati sul piano psichico, ha rappresentato un’esperienza centrale e decisiva: qualcosa che gli europei, nonostante le loro differenze nazionali, hanno condiviso tutti. 

Metropolis di George Grosz. 1916-1917

Il ricordo di coloro che morirono o rimasero feriti in guerra rimase una parte onnipresente della vita quotidiana delle persone dopo il 1918: decine di migliaia di monumenti ai caduti sorsero in ogni città e in ogni remoto villaggio di tutta Europa, ricordando coloro che erano caduti e le sconfinate sofferenze che la “Grande Guerra” aveva portato in tutto il continente europeo. Tuttavia, il processo di elaborazione degli effetti sociali e mentali della guerra è variato notevolmente ed è rimasto strettamente connesso alla questione della vittoria e della sconfitta. In Francia, la cui popolazione ha subito di gran lunga la maggior parte delle devastazioni della prima guerra mondiale, il ricordo dei morti e dei feriti dopo il 1918 si è rapidamente consolidato come un simbolo di unità nazionale e ordine repubblicano di rafforzamento della comunità. Anche nel Regno Unito il lutto ha unito la comunità, nonostante le controversie politiche interne. Al contrario, la Germania aveva perso la guerra e si trovò di fronte a una sconfitta che per molti tedeschi era arrivata inaspettata, umiliate e traumatica, gettando un’ombra persistente sulla pace e sulla prima democrazia del Paese. Il ricordo della guerra rimase letteralmente un “umkämpftes Terrain”, un “terreno conteso” e un lascito gravoso per una società politicamente e ideologicamente fratturata, incapace di riuscire a trovare un linguaggio collettivo di lutto e ricordo in tempo di pace.
Appena dopo il conflitto, la giovane democrazia di Weimar dovette affrontare la reintegrazione sociale di milioni di veterani disabili che, insieme ai loro parenti ed ai superstiti, costituivano un decimo della popolazione tedesca. Un processo oneroso, tanto dal punto di vista economico quanto e soprattutto da quello politico e culturale.  Gli invalidi di guerra divennero un vero e proprio simbolo della sconfitta, spesso iconicamente associato all’altro fantasma ricorrente, il “trattato della vergogna” di Versailles, che all'epoca veniva costantemente descritto nei dibattiti pubblici come una “amputazione” del Volkskörper, il “corpo della nazione”. Un’immagine che i vari governi succedutisi negli anni di Weimar non riuscirono mai veramente a gestire e a riabilitare, lasciando campo libero ai nazionalsocialisti i quali, fin dal primo giorno, si presentarono come veri successori o eredi dei soldati del fronte. Fu proprio il nazionalsocialismo a ribaltare l'emarginazione delle vittime della guerra nella coscienza pubblica dopo il 1933 e a glorificare gli invalidi e i caduti come Ehrenbürger, “cittadini onorati”, con grande sforzo organizzativo e propagandistico. D'altra parte, la figura fragile del veterano disabile divenne presto un efficace simbolo utilizzato dalla sinistra politica per denunciare il militarismo distruttivo dell’Impero guglielmino, nonché l'incapacità della Repubblica di prendersi cura ragionevolmente delle sue vittime di guerra. Ne è prova il libro del pacifista Ernst FriedrichKrieg dem Kriege”, “Guerra alle Guerre” (1924), in cui le immagini di soldati gravemente feriti erano assurgevano appunto a denuncia della natura bellicosa del Reich di Guglielmo II.

Otto Dix ritratto da Hugo Erfurth

Weimar nella storiografia

Certamente, il trauma della guerra è soltanto una delle concause che minarono, fin dalla sua genesi, le sorti della prima fragile democrazia della Germania. Weimar come oggetto di studio merita una riflessione a sé. Schiacciata tra la catastrofe del primo conflitto mondiale e il nazismo, è a lungo stata considerata come un’esperienza fallimentare, adducendone le fragilità di volta in volta a presunte lacune nella costituzione, all’incapacità dei suoi politici, alle riparazioni di guerra troppo onerose imposte dalle potenze vincitrici, alla Grande Depressione e alla conseguente super-inflazione, al maturare e degenerare di correnti politiche e culturali già presenti nella società tedesca prebellica. La posizione attuale della storiografia tende a considerare e tenere insieme ciascuno di questi elementi, evitando di appiattire l’analisi su un singolo fattore e soprattutto a non strumentalizzare quell’esperienza con una lettura politica influenzata dalla lente del dibattito politico attuale. In tal senso vale la pena leggere un saggio edito da Il Mulino e pubblicato nel 2021 -  “La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità”, a cura dello storico tedesco Christoph Cornelissen e del ricercatore di storia contemporanea Gabriele D’Ottavio – che ricostruisce la riflessione storiografica sulla parabola weimariana, ne illustra le molte sfaccettature e cerca di contribuire al superamento di quel “complesso di Weimar”, che per lungo tempo ha dominato il dibattito politico-culturale, soprattutto in patria. Non è un caso se il motto “Bonn non è Weimar”, coniato dal giornalista svizzero Fritz René Alleman negli Anni Cinquanta sia stato un abusato leit motiv dell’identità della Repubblica Federale Tedesca, quasi ad esorcizzare il ricordo di un “modello negativo”, un fallimento da cui prendere le distanze. Cornelissen e D’Ottavio ripercorrono l’ampia letteratura storiografica sul tema weimariano, concentrandosi in particolare su sei macro-temi: costituzione e rivoluzione, società postbellica e cultura politica, crisi economica e crisi sociale, aspirazioni individuali e diritti collettivi, dimensione globale e prospettiva europea e, infine, eredità e attualità. Dal loro lavoro – che attraversa i contributi, solo per citarne alcuni, di studiosi come Andreas Wirshing, Alexander Gallus, Dirk Schumann, Nadine Rossol, Elisa Poletto, Gustavo Corni, Alessandro Cavalli e Martin Sabrow - emerge un complessivo mutamento di prospettiva, che riconsidera e mette in relazione le tante componenti di un passaggio storico complesso: la cesura della prima guerra mondiale, le fratture sociali prodotte dal capitalismo, le trasformazioni delle culture politiche, le implicazioni della globalizzazione e i condizionamenti del contesto europeo e internazionale. Le loro analisi restituiscono l’immagine di un’epoca che non fu semplicemente un intermezzo tra l’età guglielmina e il Terzo Reich, ma parte integrante della storia della democrazia e della modernità europea. Come scrivono gli autori “la repubblica di Weimar, come le altre democrazie in Europa, rappresentò il tentativo di realizzare dopo il 1918 una democrazia che fosse al contempo liberale e sociale. L’uguaglianza giuridica e politica, insieme alle nuove istituzioni dello Stato sociale, avrebbero dovuto garantire la più ampia partecipazione possibile di tutti i cittadini. È in questa prospettiva che dalla storia di Weimar si possono ricavare ancora oggi delle lezioni sullo sfondo delle molteplici crisi di quella che alcuni definiscono “postmodernità” o seconda modernità”.
Particolarmente interessante è il contributo di Martin Sabrow- “il freddo vento di Weimar” – dedicato alla nuova attualità del confronto con la prima democrazia tedesca. “Quanto grande sia nel dibattito pubblico la preoccupazione per un possibile ritorno di Weimar, lo ha [...] palesato una mostra allestita nel 2019 dal Museo storico tedesco di Berlino, i cui curatori non a caso le hanno dato lo stesso titolo – “Vom Wesen und Wert der Demokratie” (n.d.r. “Essenza e Valore della Democrazia”) – di un libro del giurista e filosofo austriaco Hans Kelsen pubblicato nel 1920. Il cartello posto all’ingresso accoglieva i visitatori con queste parole “Oggi la democrazia liberale non è più scontata, ma è nuovamente in pericolo”. [...] Come nel periodo tra le due guerre mondiali, l’attuale perdita di validità e appeal della democrazia e dei valori liberali che ne stanno alla base non è solo un fenomeno tedesco, ma globale. Ovunque si volga lo sguardo, dall’Ungheria alla Polonia fino all’Olanda, dalla Francia alla Danimarca, dalla Russia fino agli USA, la democrazia liberale appare in ritirata e le idee correnti di una modernità trionfante vanno di pari passo con il disprezzo del compromesso come fondamentale principio politico.

Memorial plaque, Walther Rathenau, Koenigsallee 16, Berlin-Grunewald, Germany. Credits: OTFW

La lezione di Weimar oggi

Le parole di Sabrow sembrano viaggiare nel tempo e riallacciarsi idealmente a quelle del giurista e politologo tedesco Hermann Heller che, nel 1931, ormai quasi al crepuscolo della storia della democrazia di Weimar, scriveva “la nostra epoca non riesce a trovare una soluzione politica adeguata alla democrazia sociale di massa. Le forme e le norme tradizionali non sembrano idonee. La fede nelle possibilità di elaborare un modello democratico per una società stravolta dalla rivoluzione è gravemente scossa. Il presupposto di ogni forma di Stato è l’affermazione di un contenuto comune di volontà che sia capace di integrare nell’unità dello Stato la molteplicità degli antagonismi sempre presenti nella società.”. 
Dalla sua fine ai nostri giorni, Weimar non smette di essere un termine di paragone con cui misurarsi e valutare la salute delle democrazie, uno specchio su cui riflettere le temute derive e fragilità del contemporaneo. Ma se c’è una lezione di cui vogliamo far tesoro dopo anni di studi, ricerche, analisi e comparazioni sull’epoca weimariana, è quella di non concentrarci solo sul suo inizio e sulla sua fine. Come ci insegna lo storico Heinrich August Winkler, Weimar è stata molto più che un esperimento fallito. E non è certo con questa sentenza che dovrà essere costantemente riportata di fronte al tribunale della storia. La sua attualità risiede piuttosto nella constatazione che la democrazia politica – tanto allora quanto oggi – non può sopravvivere senza il sostegno e la forza propulsiva di un sistema socioeconomico e valoriale altrettanto democratici
La prima esperienza repubblicana della storia tedesca – sottolinea Winkler nel suo saggio “Repubblica di Weimar” (Donzelli Editore, 1998) - fu abbattuta più dai suoi stessi sostenitori - liberali, cattolici, il grande capitale finanziario e industriale - che dai suoi oppositori, che pure utilizzarono a loro vantaggio tutte le opportunità loro offerte dal nuovo sistema democratico-liberale. Non meno gravi, secondo Winkler, furono le responsabilità dei comunisti tedeschi e dell'Internazionale comunista nel non capire il ruolo fondamentale che avrebbe potuto avere la socialdemocrazia tedesca nel campo delle riforme sociali del nuovo regime. In altre parole, la delegittimazione del nuovo apparato istituzionale weimariano ha avuto una regia diffusa, molto più estesa del cono di luce che siamo soliti puntare esclusivamente su quella destra estrema che avrebbe poi messo fine alla vita e al progetto politico di Walther Rathenau e che, undici anni dopo, avrebbe definito il nuovo volto della Germania nazista. 
Nel rileggere oggi la targa apposta al numero 16 di Königsallee, torniamo a chiederci, a cento anni esatti dalla morte di Rathenau, se sarebbe mai stato realmente possibile costruire e coltivare un progetto di “socialismo del capitale”, se la giovane Repubblica – senza quell’attentato - avrebbe mai avuto delle concrete chances di trovare una felice sintesi tra istanze tanto diverse e conflittualità così marcate, oltretutto nel contesto delle due importanti crisi economiche (1920 e 1929) che il Paese si trovò ad affrontare. Non è dato saperlo. Tuttavia, forse vale la pena restituire all’allora Ministro degli Esteri l’onore che si merita, a dispetto dell’ambigua memoria che ne conserviamo attraverso il suo alter ego letterario. In fin dei conti, a differenza di Paul Arnheim, il vero Rathenau non aderì mai ad un progetto evanescente, ad un gioco effimero tra notabili di un mondo in declino. Molto più concretamente, si prese la responsabilità di traghettare il suo Paese verso la democrazia e la stabilità. E lo fece durante la peggiore delle tempeste, in solitaria. Su quella targa, oggi, sarebbe corretto aggiungere che la salute di un popolo è pari alla sua capacità di proteggere le istituzioni, i processi e i riti del proprio esercizio democratico