Le cinque malattie

30 gennaio 2023

Di Roberto Petrini

I direttori/2

«Non ho mai ben compreso il vero significato del malumore suscitato dalla stampa politica di ogni tendenza nei confronti di quello slogan “l’immaginazione al potere” che fu forse l’espressione più singolarmente cristallina del Maggio francese, poiché il ruolo della fantasia è chiaro (…): è la forza dominante non solo del progresso culturale, ma anche di quello globale dell’umanità».  Era l’inizio degli anni Settanta, seduto nella tolda di comando di “Civiltà delle Macchine”, colta e raffinata espressione dell’editoria del mondo IRI, Francesco d’Arcais sviluppa il suo progetto attraversato da vocazione professionale, da una grande curiosità intellettuale e dall’incessante ricerca di una strada per un mondo migliore. Convoca una tavola rotonda sul tema, apparentemente astratto, della “fantasia” mettendo insieme un commediografo come Diego Fabbri e un economista come Pasquale Saraceno e invita a guardare il Sessantotto per il suo aspetto più rivoluzionario: rompere gli schemi e progettare un nuovo futuro. 
È passato più di un decennio da quando d’Arcais è diventato direttore della rivista, raccogliendo il testimone dal fondatore Leonardo Sinisgalli, e ha imposto la sua cifra culturale. Cattolico progressista, di sentimenti antifascisti fin dalla prima ora, negli anni Trenta militante di quella FUCI erede dell’impostazione ribelle al regime impressa da Giovanni Battista Montini e Igino Righetti,  attivo nella Resistenza, giornalista al “Popolo”, nella Democrazia cristiana con gli amici dossettiani Paolo Emilio Taviani e Luigi Gui, d’Arcais ha alle spalle una storia politica lunga e combattiva. Ma ci sono almeno altri due elementi della sua personalità e del bagaglio professionale che svettano nella sua biografia: Francesco d’Arcais era un intellettuale eclettico con studi di matematica, scienza e filosofia e al tempo stesso era un artigiano del giornalismo in grado di battere il tempo in quella bottega rinascimentale che era la “Civiltà delle Macchine”.
Era nato il 17 marzo del 1917, verso la fine della grande guerra, a Vogogna, in Val d’Ossola, dove il padre, chimico, era dirigente di uno zuccherificio. Le cose della vita portarono la famiglia Flores d’Arcais (questo il cognome completo di antica origine sarda che Francesco nella sua vita professionale abbreviò facendo cadere il “Flores”) a Padova e lì Francesco crebbe e compì gli studi. La città veneta era un centro di intensa attività politica e fu naturale per l’adolescente, di famiglia cattolica, impegnarsi nelle organizzazioni giovanili fin dalle scuole medie. Con l’ingresso all’università dove conseguirà la laurea in matematica, l’attività politica che inizia nelle file della FUCI diventa una costante della sua vita, tanto che è proprio a un congresso della organizzazione degli studenti cattolici che conoscerà la moglie, madre dei suoi sette figli,  Giovanna Bifoli, che lo affiancherà fino alla morte nel 2011. 


Gli anni a cavallo tra i Venti e i Trenta non sono facili per gli universitari della FUCI: gli studenti cattolici subiscono le aggressioni dei fascisti dei GUF e il giovane Francesco conserverà con cura rapporti e circolari interne che precedettero il decennio del suo impegno diretto e che testimoniano l’allarme, il disagio e la voglia di organizzare la ribellione. Tra le sue carte, a conferma della militanza di prima fila e dei rapporti intimi con i vertici dell’organizzazione, resta conservata una lettera di proprio pugno del giovanissimo Montini, tra gli anni Venti e Trenta ai vertici della FUCI, in cui il futuro Paolo VI invita «all’entusiasmo» i giovani universitari cattolici perché, ammonisce, «non si lavora nel nostro campo se il ferro non è rovente».  È in questo clima, dove gli studenti della FUCI contestano il regime, che Francesco d’Arcais fa i suoi primi passi in politica: un cammino che comincia negli anni Trenta e prosegue senza sosta. Dopo l’8 settembre, ufficiale del Regio esercito, rifiuta la chiamata alle armi della Repubblica sociale e trova riparo a Cervignano: un percorso che lo porterà fino a prendere parte organica alla Resistenza e nel 1944 a fondare e guidare come direttore l’organo della Democrazia cristiana veneta “La Libertà”. 
La guerra finisce, l’entusiasmo della ritrovata democrazia e il ritorno della libera circolazione delle idee scaldano cuori e coscienze. Ne gioisce, poco più che trentenne, d’Arcais ma dalle sue parole emerge con chiarezza che non dimenticherà facilmente le sofferenze del Ventennio: «Il popolo italiano è stato costretto per lunghi anni ad ignorare tutto quanto rifletteva la politica fuori dei nostri confini» oppure, scrive sulla “Libera Tribuna” nel luglio del 1945, ha dovuto subire la «falsa rappresentazione» della realtà offerta dal regime che demoliva «tutto ciò che non era fascista».  C’era dunque molto da fare, da riscrivere e da rivelare all’opinione pubblica: ottima occasione per intellettuali e giornalisti. 
Quello che è certo è che per d’Arcais non era il caso di abbassare la guardia. È vero, il nazifascismo era sconfitto, la democrazia riconquistata ma bisognava vigilare sul nuovo ordine mondiale post-guerra che già manifestava i rischi di concentrazioni internazionali di potere. Con determinazione, in un articolo del 1945 sulla “Libera Tribuna”, lancia l’allarme sulla conferenza di Potsdam, dove si riunirono le tre potenze vincitrici, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, tra la fine di luglio e i primi di agosto di quell’anno. Cita Luigi Salvatorelli, azionista, storico e giornalista, per sintetizzare e rappresentare il suo pensiero su quelli che già chiama i big three: «Se i tre grandi si sentissero autorizzati a mettersi a tavolino per decidere da soli (…) avrebbero torto (…) Essi invece devono ascoltare le voci dei popoli».  La tesi che sviluppa d’Arcais è che per perseguire la pace bisogna guardare alla conferenza di San Francisco dove, poco prima, tra l’aprile e il giugno dello stesso anno si erano già riuniti 50 paesi, piccoli e grandi, per gettare le basi dell’ONU cui avrebbe dovuto spettare, almeno nelle intenzioni, il compito di dirimere i futuri conflitti. 
La scelta democratica e progressista è già radicata nel giovane Francesco d’Arcais, per i suoi trascorsi di antifascismo, Resistenza e cattolicesimo sociale, ma lui sembra allargare il campo e cercare già soluzioni più avanzate. In un articolo intitolato “Chi sono i laburisti”  spiega ai lettori che il Labour Party britannico è “cugino” della Democrazia cristiana, del Partito d’Azione, del Partito socialista e della Democrazia del lavoro: perché l’obiettivo comune è «rivalutare il lavoro e l’elevazione delle classi bisognose».  
I tempi sono maturi per il salto a Roma, dove arriva nel 1948, chiamato come capo ufficio stampa da Amintore Fanfani, per poi passare al “Popolo”, l’organo della Democrazia cristiana, come notista politico. Il clima non è certo favorevole alla sinistra e sono anni piuttosto difficili, ma Francesco d’Arcais si batte e stringe ancora di più i legami con i vecchi compagni di strada con cui aveva condiviso, al di là dei tortuosi percorsi della DC di quegli anni, l’esperienza della FUCI e l’impianto democratico-sociale dossettiano. In prima linea tra le sue frequentazioni il vecchio amico e coetaneo Luigi Gui, anch’egli cattolico, resistente e padovano, destinato a diventare ministro della Pubblica Istruzione e a condurre in porto una radicale riforma della scuola. Comincia a frequentare anche Paolo Emilio Taviani, esponente dossettiano con sensibilità sociali, favorevole all’apertura a sinistra e all’intervento dello Stato nell’economia.
Trascorrono così dieci anni cruciali sul piano professionale e di grande impegno su quello politico. Alla fine degli anni Cinquanta d’Arcais è in corsa per diventare direttore del “Popolo”, ma lo batte Ettore Bernabei, favorito da un rapporto più stretto con Fanfani. È l’occasione per avvicinarsi a un nuovo registro professionale: nel 1958 “Civiltà delle Macchine”, la raffinata rivista di proprietà della Finmeccanica passa sotto il controllo dell’IRI. La cosa non piace al direttore Leonardo Sinisgalli, fondatore della creatura editoriale cinque anni prima, che se ne va. L’uomo giusto che viene individuato come successore è Francesco d’Arcais. Naturalmente c’è un retroscena: l’idea di strappare “Civiltà delle Macchine” alla controllata Finmeccanica per farne una specie di banale house organ dell’IRI fu dell’ex deputato democristiano Aldo Fascetti asceso ai vertici dell’Istituto nel 1956: tant’è che in un primo momento riuscì a imporre nella raffinata iconografia di “Civiltà delle Macchine”, dove figuravano Vedova, Vespignani, Munari, Dorfles e Mafai, la pubblicazione delle sue foto d’occasione accompagnato da gruppi di notabili della DC. 


Naturalmente d’Arcais non sta al gioco: mantiene lo schema della rivista con la sua meravigliosa grafica e con la minuzia editoriale fatta di riassunti degli articoli in inglese e francese, di indici periodici dei contributi e degli autori pubblicati, di copertine d’autore di gran classe. Ma c’è di più, la direzione di Francesco d’Arcais, come spiega Donatella Germanese, del Max Planck Institute, che ha dedicato un saggio a “Civiltà delle Macchine”, «imprime una svolta culturale, allontanandosi più e più dalla pubblicità aziendale verso numeri monotematici di stampo sociologico e filosofico».  Si può dire che nei circa 22 anni in cui d’Arcais dirige “Civiltà delle Macchine”, la rivista con le sue 16.000 copie patinate diventa un punto di riferimento degli intellettuali progressisti italiani e ospita regolarmente voci e articoli dei maggiori pensatori del globo. 
Resta al suo posto il poeta Giuseppe Ungaretti, da sempre nume tutelare letterario della rivista, viene mantenuta la cifra grafica e l’occhio intelligente alle arti visive e fotografiche, ma d’Arcais sposta in avanti l’obiettivo, si ferma, riflette e sceglie di prendere di petto i grandi temi della società, della scienza e della filosofia. Dall’estetica applicata alla meccanica e dall’industrial design, come lo stesso d’Arcais definirà le scelte editoriali del suo predecessore nella prospettiva di accomiatarsi dalla “Civiltà delle Macchine” nel 1979, alla ricerca delle cause profonde dei fenomeni sociali e scientifici dando voce ai maggiori intellettuali del Novecento.  
Del resto già negli anni padovani, tra il 1942 e il 1946, si era concesso la scrittura di alcuni manuali di matematica e aritmetica, sua vecchia passione, per le scuole medie e gli istituti tecnici.  Ora mette alla prova il suo impegno sulla nuova sfida e comincia a coinvolgere una girandola di intellettuali assegnando loro temi precisi e di attualità. Il 20 luglio del 1969 la missione Apollo atterra sulla Luna? “Civiltà delle Macchine” ospita una riflessione di Alberto Moravia che va oltre il carattere scientifico dell’evento e che ha come titolo “Al di là della Luna. Verso un’evasione dalla Terra”. Vero e proprio catalogo del pensiero moderno il periodico, sotto la direzione di d’Arcais, raccoglie scritti e riflessioni di filosofi come Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat, Norberto Bobbio, e Guido Calogero; di sociologi come Franco Ferrarotti, Luciano Gallino e Sabino Acquaviva; del futuro riformatore dei manicomi Franco Basaglia, di un quarantenne Umberto Eco intervistato sul Medioevo, di un gruppo di economisti come Paolo Sylos Labini, Pasquale Saraceno, Siro Lombardini, Luigi Spaventa e il matematico-statistico Bruno de Finetti. Architetti e storici dell’arte restano una colonna portante della rivista affezionata al bello e alla civiltà urbanistica: partecipano Pier Luigi Nervi, Giulio Carlo Argan, Gillo Dorfles. Walter Gropius, padre della Bauhaus, gli scrive per dirgli che ha esposto nel suo studio una copia di “Civiltà delle Macchine” perché ne possano godere tutti.  Leonardo Sciascia, quando invia il suo contributo, chiede un piccolo aiuto: «Forse non ho citato esattamente il verso di Montale, lesarò grato se vorrà controllare». 
Nel frattempo, siamo ormai nel pieno degli anni Sessanta, la famiglia si allarga, la casa del quartiere romano della Balduina è centro di incontri di lavoro, summit politici, di riunioni con teologi e cardinali in vista del Concilio Vaticano II, i figli vanno a scuola con quelli di Andreotti, Moro e Nobili, le mogli sono amiche. Il vento del Sessantotto investe anche casa d’Arcais, dove l’educazione è severa e ispirata a un fervente spirito religioso. Le vacanze sono rigorosamente a Soraga di Fassa dove si riuniscono le famiglie dei laureati cattolici romani, ma come accade in quei tempi si apre il conflitto generazionale: i figli Paolo e Marcello  sono nel movimento studentesco, e il dibattito politico s’infuoca. Con le contraddizioni dell’epoca: come quando Paolo rientra a casa con sottobraccio il volantino appena distribuito all’università con scritto “Gui ministro del manganello” (era ministro degli Interni) e incrocia in salotto una imbarazzata signora Gui intenta a prendere il tè con la madre. 


Il ruolo di Francesco d’Arcais in questi anni va oltre quello del giornalista e dell’organizzatore culturale. Affronta in prima persona i grandi temi del presente, cerca una risposta, dialoga con gli intellettuali e scrive in ogni numero editoriali complessi alla ricerca di una trama filosofica, antropologica e sociale della realtà. Anzi i nuovi fermenti degli anni Settanta e, forse anche il confronto con i figli, lo spingono ancora una volta a guardare oltre l’orizzonte: una scelta che lo porterà ad avvicinarsi a Raniero La Valle e al gruppo dei cattolici della Sinistra indipendente e a votare in qualche occasione PCI. 
I sei numeri del 1966 sono emblematici e vale la pena leggerli con un po’ più di attenzione come esempio dello stile di direzione di d’Arcais. Ogni fascicolo è deliberatamente un pezzo di una riflessione su come la scienza e le tecnologie stanno cambiando l’uomo e come bisogna reagire. Ogni editoriale bimestrale affronta, come il capitolo di un pamphlet, un aspetto del cambiamento. Si chiede: quali sono gli effetti e i rischi dell’avvento dell’automazione e della cibernetica? D’Arcais individua almeno cinque malattie provocate nell’uomo dalla scienza. 
Già nel primo numero dell’anno, dedicato al “Consumo rapido”, mette in guardia su come, sulla scia di quanto la tecnologia sta provocando per gli oggetti di consumo, si stia verificando una «obsolescenza delle idee» e «un logoramento dei prodotti intellettuali», dall’arte alla letteratura. Ebbene il rischio è che l’uomo, sotto il ritmo delle mode pensi che «la velocità possa diventare anche una dimensione dello spirito» con la conseguenza di cadere nella «incertezza e nella mediocrità». Attenzione, dunque, a non diventare schiavi delle macchine e dei loro nuovi ritmi anche nel pensiero. 
Come bisogna fare attenzione – e questo è l’oggetto del secondo numero dedicato alla “Scomparsa della fatica” – a non lasciarsi sopraffare dalla noia, cioè «dalla perdita di fantasia e dalla mancanza di interesse», in una società dove prevalgono l’automazione, la cibernetica e si apre la strada all’«era del tempo libero». Così il messaggio contenuto nel primo numero viene reiterato: «È la dimensione dell’uomo che deve sopravanzare la dimensione della macchina», suggerisce d’Arcais. 


Un terzo effetto del progresso della scienza e delle sue scoperte è quello che d’Arcais definisce “La mancanza di stupore”, cui è dedicato il terzo fascicolo del 1966. L’uomo contemporaneo, un po’ come uno spettatore o un consumatore, accoglie ormai quasi come inevitabile e scontato ogni passo in avanti della scienza che invece scontato non è affatto, anzi è completamente soggetto all’incertezza. Il progresso «è dovuto» all’uomo della strada, annota d’Arcais. S’ignora invece nel grosso dell’opinione pubblica lo sforzo dello scienziato che l’autore descrive con parole suggestive: «La fede unita al dubbio, la pazienza che si accompagna alla ripetizione, il controllo che non annulla l’imprevedibile, il coraggio che è pur sempre prudenza». Ecco: attenzione a non perdere lo stupore, in altri termini la fantasia e la creatività, e in questo caso dunque a non cadere in uno stato di passività. 
Così come nella “Ambiguità della sicurezza”, nel numero successivo uscito nell’estate del 1966, l’editoriale spiega che la mancanza di stupore si accoppia malauguratamente con la crescita del «senso di sicurezza». In base allo stesso processo per cui ci aspettiamo i progressi senza considerare l’incertezza in cui operano
gli scienziati, ci fidiamo e godiamo dei «risultati dagli altri conseguiti» nella civiltà del benessere. Affrontiamo la vita con il minimo rischio e cadiamo in uno stato di pigrizia. Anche in questo caso è l’uomo che spesso reagisce male nei confronti della scienza e la parola d’ordine per Francesco d’Arcais è non cedere alla passività. La quinta malattia, come si intitola l’editoriale del quinto numero dell’anno, è “L’ansia di autonomia”. Emerge di fronte alla caduta dei miti, al «crollo degli idoli» al rifiuto della tradizione indotto dalla società moderna che, di fatto, sembra dire d’Arcais, sviluppa un senso di superbia nell’uomo che deve essere contrastato. L’anno si chiude con un editoriale di sintesi intitolato “Dalla ambiguità alla speranza” nel segno di uno sforzo caratterizzato da un nuovo umanesimo per governare l’epoca di transizione. Viviamo in un’epoca di ambiguità ma «la soluzione è opera dell’uomo, perché è l’uomo che possiede la speranza: le cose non vivono, non operano, non sono che attraverso la vita dell’uomo, e la speranza è capace di vincere ogni ambiguità. Così è stato in tutti i tempi, in tutti i momenti
di crisi. E ogni epoca ha avuto così il suo umanesimo».  Per governare scienza e tecnica. 


Con l’arrivo della crisi petrolifera e il manifestarsi dei primi sintomi della lenta e lunga agonia dell’IRI,  nel 1979, “Civiltà delle Macchine” venne chiusa. Per Francesco d’Arcais, a 62 anni, è il momento di nuove sfide sempre all’insegna dei suoi interessi principali: la scienza, la storia, la filosofia e la religione. Nel 1983 tentò di far rivivere l’esperienza dell’antica rivista battezzata “Nuova civiltà delle macchine”: riunì filosofi e umanisti, come Dario Antiseri, Marcello Pera, Luciano Pellicani, Norberto Bobbio, Paolo Sylos Labini, Rita Levi Montalcini. Dopo un paio d’anni d’Arcais lasciò la direzione ma non l’attivismo culturale: fu tra i fondatori insieme a Primo Levi, Giuseppe De Rita, Valentino Bompiani e Margherita Hack, dell’associazione “Biblia” attiva negli studi dei testi sacri e del dialogo interreligioso. Dedicò gli ultimi anni alle ricerche storiche sulle origini della sua famiglia in Sardegna e alla figura di Enzo Bifoli, padre della moglie Giovanna, pittore e architetto, antifascista e collaboratore di Gino Coppedè. Ma non chiuse gli occhi sul mondo e sulla politica: la sua prima attività, il mattino, era la regolare lettura di cinque giornali. Fino alla morte avvenuta il 22 agosto del 2011.