De-industrializzazione, non è uno spettro ma un tir che ci viene addosso

Di Oriano Giovanelli

12 novembre 2019

Le mie prime 500 lire le guadagnai da bambino andando a ripulire i trucioli del legno sotto una macchina che serviva a tornire un travicello per farne la gamba centrale di un tavolo. La macchina era collocata vicino alla mangiatoia di una stalla ormai in abbandono perché la terra, quella terra ingrata delle colline urbinati, non era già più da alcuni anni la strada attraverso cui cercare il benessere per sé e la propria famiglia.

Qualche anno dopo in una capanna mi ritrovai a passare alcune giornate della mia estate di studente minorenne a levigare con la carta vetrata le stesse gambe che avevo visto tornire. Il mio, si fa per dire, datore di lavoro era ovviamente un altro perché ognuno produceva un pezzo e da qualche altra parte, nella fabbrica vera e propria giù nella valle lungo l’Apsa e il Foglia, si sarebbe fatto l’assemblaggio. In analoghe capanne si “spruzzava”; si passavano con delle pistole munite di un serbatoio e collegate con un tubo ad un rumoroso compressore, le vernici altamente tossiche che facevano luccicare quei pezzi di legno e facevano morire di tumore gli operai. In una ventola che doveva teoricamente sanificare l’ambiente si formavano delle incrostazioni simili a stalattiti e stalagmiti che mandavano un inebriante odore resinoso, fino al punto che la ventola esausta di portarsi quel peso appiccicoso smetteva di girare e così restava.

Fatti i 15 vennero le stagioni estive da cameriere a Misano Brasile che le marchette me le ritrovo ancora nella mia carriera contributiva ma questo è un altro discorso. Anche i miei primi gesti politici furono segnati dal tema del lavoro assieme a quello della scuola: scuola e lavoro= futuro -> emancipazione.
Per me detto francamente non è cambiato niente, quel binomio rimane l’unica strada possibile per dirsi persona. Se mi togli la scuola e il lavoro mi togli la dignità il futuro la speranza.

Quando mi capitò di conoscere l’opera di Adriano Olivetti mi resi conto di quanto anche gli imprenditori potessero fare per affermare quel binomio. Ma inconsciamente cosa fosse la responsabilità sociale dell’impresa lo avevo già intuito. Guardavo il mio piccolo mondo così lontano dalla città-fabbrica, dalla lotta di classe, i miei artigiani, le mie piccole imprese dove gli operai e gli imprenditori erano persone, giocavano a carte assieme o a bocce nell’unico bar e piuttosto che licenziare si sarebbero tagliati un braccio.

Quando andavo da alcuni di questi a rinnovargli la tessera del PCI nello spazio “professione” volevano che si scrivesse “operaio” anche se il bollino che gli proponevo e che loro pagavano era più salato. La scuola, il lavoro, il partito, tanto il PCI quanto la DC partiti operai entrambi, la comunità. Non che tutti gli artigiani e i piccoli imprenditori fossero fatti della stessa pasta, sia chiaro, vi erano quelli che sfruttavano, che negavano i diritti, che fallivano con i soldi in tasca per ripartire con altri nomi, che evadevano alla grande. Ma la comunità li sapeva riconoscere; quelli al partito non ci venivano, si diceva che avessero le tessere di tutti i partiti, ma io non c’ho mai creduto.

Passi avanti, quel mondo in cui le imprese si trovarono spalleggiate dalle istituzioni e in particolare dai comuni e dalle province, ce ne fece fare eccome. Nacquero un po’ ovunque aree industriali, più o meno bene progettate, fornite di servizi primari, i capannoni diventarono luminosi e arieggiati, le macchine a controllo numerico fecero il loro ingresso e già si diceva che avrebbero tolto lavoro agli operai ma non fu così, arrivarono i contratti, le visite sanitarie, la specializzazione professionale, i prodotti innovativi. Su quel binomio scuola-lavoro crescevano i salari, i diritti le opportunità la ricchezza. Non ci rendemmo conto allora che abbandonando le campagne e inquinando aria e acqua ci stavamo dando la zappa sui piedi. Ma la peggior cosa fu che non ci accorgemmo quando ci consegnammo mani e piedi al dio mercato. Non è una giustificazione della nostra superficialità il fatto che omettemmo di ricordare, e dire che ce lo avevano insegnato, che quel dio non sarebbe stato per nulla equo e rispettoso delle nostre umanità. Avrebbe desertificato le nostre fabbriche, avrebbe reso le vie dei nostri centri storici come delle bellissime labbra di donna che appena si dischiudono mostrano ampi buchi neri di denti mancanti, ci avrebbe ricacciato indietro costringendo i nostri figli al non lavoro, e che il figlio dell’operaio possa fare il dottore, cara Contessa, lasciamoglielo pensare e scrivere su facebook. I libri? Su Amazon, i mobili? Ikea, la cucina? Mondo Convenienza, le scarpe? su Zalando. Idrovore che succhiano denaro dalle famiglie lasciando sul terreno stecchite migliaia di imprese, artigiane e di negozi. 178.000 aziende artigiane in meno e 29.500 negozi in 10 anni. Parola d’ordine: illudere di stare al passo con i tempi quando invece si sta dentro ad una informe omologazione che solo i pupi siciliani potrebbero efficacemente irridere. E se si sposta l’attenzione dai salari troppo bassi ai costi di produzione il risultato è che la spesa degli italiani cala di 21,500 miliardi e i profitti di quell’1% di ricchi in Italia e nel mondo crescono in modo esponenziale. Il ceto medio crolla e l’incazzatura popolare va a mille. I migliori studenti se ne vanno a cercare fortuna all’estero e non soltanto dal mezzogiorno ma anche dal ricco Nord-Est, dall’Emilia, dalla Lombardia; i vecchi si rassegnano a fare l’assistenza ai giovani, le comunità si deprimono culturalmente e socialmente.


Se una volta tanto dicessimo che il problema è politico useremmo adeguatamente questo intercalare che tante volte è servito per non parlare del merito delle cose e prendersi le proprie responsabilità. Il problema è politico. É politico il problema della difesa delle tipicità e della qualità della produzione italiana di cui c’è ancora grande domanda nel mondo. É politico il problema del far fare pace all’industria con l’ambiente. Ci sono ancora 44 siti (dati 2017) di interesse nazionale caratterizzati da un altissimo livello di inquinamento frutto di pratiche più o meno criminali di aziende private e pubbliche.

Magari ci scaldiamo per un caso giudiziario legato ad un abuso d’ufficio di un amministratore locale perché la polemica fa gioco allo scontro politico del momento ma nessuno si scalda per queste bombe ecologiche che non conoscono da decenni azioni concrete atte a rimuoverle. Passano i governi di diversi colori, il problema rimane e siccome tutti sono colpevoli nessuno è colpevole. Se la politica non sa risanare quei siti dove i dati epidemiologici evidenziano anomale percentuali di tumori perché i cittadini dovrebbero fidarsi dell’industria?

É propriamente politico il tema della individuazione dei settori strategici su cui vogliamo concentrare le energie del paese, del sostegno al fare impresa, del dialogo fra università ricerca e industria. É politico il tema della redistribuzione della ricchezza. La risposta non è la resa alla deindustrializzazione ma una nuova industrializzazione che già in tanti settori esiste e di cui non conosciamo davvero le potenzialità e le criticità. Il passato non torna questo è sicuro nel bene e nel male. Ma il presente non è assenza di industria, il presente è difficoltà dell’industria, il presente è l’illusione che se ne possa fare a meno.

Eppure anche lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti correttamente raccolti in modo differenziato da cittadini coscienziosi è impossibile fuori da un processo industriale. Così come la povertà sociale delle comunità è impensabile da rimuovere senza un incontro fra istituzioni, formazione, lavoro, impresa. Far pace con l’industria è ciò di cui abbiamo bisogno in definitiva ma questo non vuol dire lasciar fare agli industriali, strizzargli l’occhiolino per trarne qualche beneficio, ma assumere la potenzialità e la qualità industriale di un paese come problema del paese. Che qualcuno starnazzi a tal proposito al rischio di un nuovo interventismo dello Stato mi pare il problema minore di fronte al problema più grande che è rappresentato da uno Stato e da una politica che brilla per la propria assenza proprio sulla questione industriale