Storia tortuosa delle gloriose macchine di Sua Maestà la Regina

09 settembre 2022

Di Giovanni Vasso

Elisabetta II ha concluso, con la sua esperienza terrena, anche un regno lunghissimo che è durato per più di settant’anni. Fu incoronata quando, con il ritorno di Winston Churchill al governo, la Gran Bretagna credeva ancora d’avere un impero, se n’è andata con i primi scricchiolii della globalizzazione. In mezzo è accaduto praticamente di tutto. Il mondo dell’automobile e quello della moto, forse, rappresentano più di qualunque altro settore industriale quella che è stata l’evoluzione dell’Inghilterra a cavallo tra ‘900 e Terzo Millennio. Soft power, icone pop ma pure dolorosissimi fallimenti, tensioni sociali e, alla fine, la restaurazione (talora riuscita, altre volte no) grazie ai sudditi del Commonwealth.

Innanzitutto, c’è da dire che il garage di Buckingham Palace trabocca di auto da sogno. Dall’Aston Martin DB6 alla Rolls Royce Phantom VI, fino alla Bentley Continental Flyng Spur (che in tempi recenti ha ispirato uno spin-off destinato alle celebrazioni per il 20esimo anniversario dell’ingresso della casa nel mercato cinese) e a un’Audi A8 limousine. Lei, e il principe consorte Filippo, però preferivano il Land Rover Discovery, un successo mondiale del fuoristrada inglese. Del resto, la regina (che non aveva la patente perché sarebbe stato ridicolo, oltre che inutile, ottenere un documento rilasciato nel suo stesso nome) durante la Seconda Guerra Mondiale aveva imparato ad aggiustare i camion e mezzi dell’esercito.


L’industria motoristica inglese ha saputo farsi pop prima di tante altre, già dai tempi del mitico Lawrence d’Arabia e delle sue moto Brough Superior. I simboli, le icone, si sprecano anche perché progettisti e stilisti hanno tentato di trasfondere, nelle loro opere, alcune delle caratteristiche salienti della british way of life: eleganza, sprezzo del pericolo (a volte a discapito di sicurezza e affidabilità), eccentricità. La Jaguar E-Type prodotta dal 1961 ne è un esempio insuperato, l’Aston Martin DB5, un’icona senza tempo, è stata la vettura perfetta per imporre al mondo il mito di James Bond.

Poi c’è la mitica Mini, che nel 1966 l’ingegner John Cooper trasformò in una saetta inarrestabile capace di mettere in fila tutti al Rally di Montecarlo. Costringendo i giudici di gara a trovarsi la scusa dei fanali non omologati per dare la vittoria a tavolino a una Citroen. Cooper non lo sapeva ma in quel momento s’è inventato le hot-hatchbacks, le piccole ma sportivissime che sono diventate un genere a parte nell’industria dell’auto. La Mini, nel frattempo (un po’ come la 500 da noi e la 2Cv in Francia, il Maggiolino in Germania), è diventata l’icona british per eccellenza, relegando a ninnolo kitch il bus a due piani. Cinema e tv l’hanno portata ovunque: da Mr Magoo a Mr Bean, passando per Austin Powers e The Italian Job.


Eppure non era la più ardita né la più “folle”. Nell’anno stesso in cui si insediò al trono Elisabetta, la Reliant lanciò sul mercato la Regal. Un’auto a tre ruote che, al contrario del nostro “motociclistico” Ape, aveva una sola ruota davanti e due di dieto. Anticipò la Robin, amatissima e temutissima per i frequentissimi cappottamenti alle rotatorie. Dieci anni più tardi, nel 1963, arrivò la Peel 50, una micro-auto monoposto, tre ruote (stavolta due avanti e una dietro) lunga appena 134 centimetri e larga poco meno di un metro (99 cm). Più eccentrico di così.

Quando finirono gli anni ’60, l’industria dei motori inglese entrò in crisi. E fu un dramma. Gli anni ’70 furono scanditi dagli scioperi nelle fabbriche e dagli avvitamenti dovuti alla crisi petrolifera. Lo scontro fu talmente feroce che la British Leyland, per ricostruirsi un’immagine, cambiò nome diventando Austin-Rover Group. La piccola Metro quasi riuscì a sanare il deficit mostruoso dell’azienda ma non bastò. Perché intanto la produzione inglese, non sempre attentissima ai dettagli specialmente in quella di massa, perse di qualità. Dunque i marchi britannici smarrirono la capacità di stare sul mercato.


Arrivò la Thatcher e lo scontro si esarcerbò. Il risultato fu che nel 1989, quando Jaguar passò a Ford, seguendo il destino di Aston Martin, l’unico marchio inglese ancora saldamente in mano britannica, era Rolls Royce. Uno smacco per l’orgoglio british che, intanto, doveva sorbirsi improvvidi tentativi di rilancio affidati a progetti che non riuscirono più nemmeno ad avvicinarsi al successo dei modelli che hanno scritto la storia dell’auto inglese.

Lo stesso James Bond, passato da Sean Connery a Roger Moore, lasciata la DB5 in garage tentava di stupire andando sott’acqua con l’auto-sottomarino Esprit. Non ci fu verso e quasi rischiò di pagarne lo scotto anche lui, insieme alla Lotus.  


Tra gli anni ’80 e l’inizio del nuovo millennio, si fu una lunga serie di mirabolanti cessioni, fallimenti, annunci roboanti, avventure e disavventure finanziarie e produttive (Bmw si scottò non poco per tentare di rilanciare Rover), alcuni dei marchi storici sono tornati a livelli importanti. Grazie agli (ex) sudditi del Commonwealth.

L’Aston Martin è proprietà del magnate canadese Lawrence Stroll che l’ha fatta sbarcare anche in F1. L’indiana Tata Motors ha acquisito, oltre a Austin e Rover, il marchio Jaguar. Royal Enfield, la casa di moto nata come industria di proiettili, che ha compiuto da poco 120 anni, è tornata in Inghilterra grazie alla divisione indiana che, a differenza di quella della casa madre, non s’era impelagata negli Usa tentando di far la concorrenza all’Harley Davidson ma aveva proseguito a produrre moto solide e affidabili per la polizia di frontiera. I cinesi di Geely hanno acquisito Lotus dai malesi di Proton.

Dio salvi la Regina, anzi: salvi il nuovo Re Carlo III. Ché a salvare la storia motoristica anglosassone ci pensano le (ex) colonie.