Ethos, una favola dalla Turchia che rivela i confini reali o immaginari che separano Oriente e Occidente

04 agosto 2022

Di Vincenzo Pisani

Prime luci del mattino. In un paesaggio rurale, una coltre di foschia avvolge la sagoma di un minareto. Una ragazza – borsa a tracolla, cappotto di panno grigio e un velo sul capo, attraversa la boscaglia a passo svelto. Supera dei campi coltivati e raggiunge una strada. Una luce più netta illumina il traffico che scorre su un viadotto di una grande città. All’interno di un autobus affollato, riconosciamo il cappotto grigio. L’inquadratura stringe sul volto della giovane: attraente, lo sguardo assorto. Continuiamo a seguirla mentre accede nella hall di un grattacielo, quando percorre un lungo corridoio ed entra in un appartamento dallo stile minimalista, moderno: molto acciaio e molto cristallo. Si sfila il cappotto e le scarpe da ginnastica per indossare delle pantofole di legno e stoffa. È sul punto di aprire la porta del bagno. Si ferma un istante prima. All’interno, al di là di un vetro appannato, intuiamo la sagoma di un uomo di spalle, immobile, sotto lo scroscio dell’acqua. Lo sentiamo piangere. Imbarazzata, la giovane devia verso la cucina, posa la sua borsa, armeggia con la lavastoviglie, sciacqua un calice di vino. Ad un tratto, un pensiero le attraversa la mente. Riprende la sua borsa, la rovista, afferra qualcosa. Accenna prima un sorriso, poi sgrana gli occhi, perde i sensi, sviene.  
È questo l’incipit di “Bir Başkadır” che, tradotto dal turco, significa “qualcosa di differente” o, meglio ancora, “qualcos’altro rispetto a tutto il resto”: una serie televisiva ideata, scritta e diretta ad Istanbul dal regista e sceneggiatore Berkun Oya, che la piattaforma di streaming Netflix ha scelto - per la distribuzione internazionale - di intitolare, non a caso, “Ethos”: il costume, la norma di vita, il comportamento quotidiano. L’arco narrativo, sviluppato su otto puntate, tratteggia infatti volti e voci di una comunità di personaggi, soprattutto al femminile, di cui osserviamo le azioni, ma soprattutto impariamo a conoscere valori e norme morali che le muovono, le determinano. Ne emerge un racconto corale sulle diverse realtà, apparentemente opposte, della Turchia contemporanea: religiosa e atea, tradizionale e iper-moderna, asiatica e occidentale, patriarcale ed emancipata, rurale e urbanizzata.   

Un ritratto composito, in cui la figura di Meryem - la collaboratrice domestica che abbiamo accompagnato nel suo pendolarismo tra un sobborgo agreste e la metropoli sul Bosforo – apre e chiude la narrazione come un cerchio perfetto. Il suo mondo – interiore e relazionale - si sviluppa come una tela su cui affiorano e si intrecciano altre storie, che riconducono a lei, alla sua ricerca di un posto nel mondo. Il suo personaggio sembra ricordare – in versione turca e contemporanea – la Bertha Pappenheim del “caso Anna O.”, descritta nell’opera “Studi sull’isteria” di Joseph Breuer e Sigmund Freud. Come Bertha, anche Meryem è affetta da un disturbo psicosomatico – gli improvvisi svenimenti – e anche lei verrà indirizzata alle cure di un percorso psicoterapeutico. Entrambe vivono un non detto, un disagio inespresso, che trova altre strade per manifestarsi. Entrambe dimostrano un’intelligenza vivace e una sensibilità che le porta a cogliere molte più sfumature e colori del mondo patriarcale in cui sono cresciute. Ma laddove Bertha alias “Anna O.” è un’aristocratica della Vienna del Primo Novecento, Meryem è figlia della Turchia più umile, contadina e tradizionalista. Tuttavia, in entrambi i casi, l’indagine psicanalitica va oltre la mera dialettica medico/paziente, esce dalle quattro mura di uno studio terapeutico e si traduce in qualcosa più vasto: un dilemma collettivo. Se Breuer e Freud alzavano metaforicamente il velo sulle pulsioni latenti di un mondo destinato a cambiare radicalmente nel giro di pochi anni – i costumi sessuali, gli equilibri internazionali, le rivoluzioni, la Grande Guerra e la società di massa – “Ethos” cita e riporta spesso in primo piano un velo concreto e tangibile – l’hijab – la cui presenza o assenza attorno al capo dei personaggi femminili diventa un elemento spartiacque tra due Turchie che convivono, si incrociano, condividono spazi e cittadinanza, ma spesso – questo sottende “Ethos” – appena si conoscono, raramente si comprendono. 


È infatti proprio il velo ad alzare una barriera sociale, culturale e psicologica tra la giovane protagonista e la psichiatra Peri: una donna dell’alta borghesia di Istanbul, formatasi nelle migliori scuole e università di Europa e Stati Uniti, che fatica ad accettare l’altra Turchia, quella che sente un forte legame con la tradizione e che si affida ai consigli degli Hodja, maestri spirituali e punti di riferimento per le piccole comunità territoriali di fede islamica. Già dal primo colloquio, quell’hijab e la menzione - da parte di Meryem - di una guida religiosa a cui dover render conto, suscitano nella iper-secolarizzata Peri un senso di rifiuto, un contro-transfer negativo che mette subito in crisi la relazione tra medico e paziente. 
Ed è sempre un velo, materiale e metaforico, a dividere due sorelle: Gulbin - la psicoterapeuta e amica di Peri, cui quest’ultima affida la propria supervisione dei contenuti delle sue sedute – e Gülan. Appartenenti ad una famiglia curda – un’altra scelta narrativa audace e originale, che ha offerto all’audience turca un ulteriore terreno di dibattito – le due donne hanno scelto percorsi di vita diametralmente opposti: Gulbin condivide con la sua amica/paziente Peri la stessa formazione di studi, nonché libertà economica e di costumi; scelte verso le quali sua sorella Gülan - velata, sposata e molto credente – esprime tutto il suo più netto dissenso. Eppure qualcosa le accomuna: entrambe si accusano reciprocamente di pregiudizio, arroganza e di un malcelato complesso di superiorità. 
Infine, è l’abbandono dell’hijab da parte di Hayrünnisa, la figlia dell’Hodja, ad incarnare l’evoluzione di un personaggio che troverà via via la strada verso la consapevolezza di sé, del proprio orientamento sessuale e della necessità di costruire la sua vita altrove, lontana dal nucleo familiare, verso il quale non smetterà tuttavia di nutrire un forte legame di affetto, gratitudine, rispetto. 
Attorno a queste tre vicende, “Ethos” ha poi l’ambizione di coltivare ulteriori ramificazioni narrative, dando spazio a diverse altre sotto-trame, pur sempre intrecciate con la dialettica tra Meryem e Peri. Ed è forse questo l’unico vero limite di un’opera che vanta altrimenti quasi sempre un ottimo livello di recitazione, una fotografia eccellente e un solido lavoro di osservazione sui diversi contesti socioculturali. Tuttavia, la proliferazione di storie non sempre consente il dovuto approfondimento sul carattere e le dinamiche di ciascun personaggio. Una lacuna che affiora soprattutto rispetto alle figure maschili, in alcuni casi appena abbozzate e pericolosamente vicine ad immagini stereotipate.

È il caso di Yasin, il fratello di Meryem, compresso in un maschilismo patriarcale a tratti troppo “urlato”. O del “Bey” (Signor) Sinan, il deejay che intreccia relazioni con più partner, tra cui Gulbin e un’attrice di serie tv di bassa fattura, destinate ad un’audience più popolare e senza pretese.  La sua ostentata superficialità stride con l’improvvisa presa di coscienza ed il crollo emotivo nelle ultime battute. 
D’altro canto, certi limiti non sminuiscono il quadro d’insieme, che conserva una freschezza e una ricchezza emotiva, che raramente ritroviamo in molte produzioni occidentali, soprattutto nostrane, spesso standardizzate su generi e linguaggi ben definiti. Al contrario, Berkun Oya scrive e filma un intreccio che mescola un registro alto, più autorale e introspettivo, con un altro più popolare. Una scelta voluta, proprio per rimarcare il dualismo che “Ethos” intende narrare: i due volti del Paese – quello tradizionale e quello secolarizzato - che si incontrano e dialogano in una inconsueta seduta psicoterapeutica collettiva. Dal confronto emergono conflitti più o meno latenti che, come suggerisce Peri alla sua paziente “se inespressi, troveranno comunque una strada per affiorare, come l’acqua fra le rocce”. Ed è forse l’aspetto più affascinante dell’opera di Berkun Oya. Entrambi le parti dialoganti mostrano i loro pregiudizi e finiscono per riconoscerli. 
L’analista Peri ha un’insight – è sorprendente che sia lei, non la sua paziente – quando intuisce il perché del suo lapsus freudiano, rivolgendosi a Meryem col nome della domestica che per anni aveva lavorato per la sua famiglia nella casa d’infanzia: anche lei velata e proveniente dalla sconfinata provincia anatolica. Pregiudizi di classe e di cultura che creano confini invisibili, duri a morire, nonostante anni di studio e una civile tolleranza di facciata. Questa consapevolezza segnerà l’inizio di un nuovo rapporto con Meryem, che finalmente si sentirà accolta e supererà le crisi psicosomatiche. 
Ali Sadi, il padre di Hayrünnisa, è tanto immerso nelle ritualità di una tradizione che lui stesso insegna e tramanda, quanto capace di un amore incondizionato per una figlia che prende in mano il suo destino. Sia lui sia sua moglie Mesude sono dotati di una saggezza spontanea, autentica, che supera ogni veto sociale o religioso. Lo stesso Yasin, pur nelle sue tare caratteriali e culturali, dimostra infine di amare e voler proteggere la sua famiglia senza esitazioni e con ogni mezzo. 
“Ethos” regala diversi momenti di confronto tra personaggi divisi da distanze all’apparenza incolmabili, come il lungo tragitto mattutino di Meryem per raggiungere il centro della nuova Istanbul dal suo sobborgo ai confini della città.


Ciononostante, gli stessi ritrovano un terreno comune grazie a gesti, parole, intuizioni che rovesciano i punti di vista, che creano immedesimazione ed empatia. La felice metafora della terapia collettiva trova un punto di sintesi nelle ripetute panoramiche su una metropoli immensa, che abbraccia e costringe tutti, loro malgrado, a condividere spazi, a colmare differenze, a riconoscersi parte di una comunità, per quanto varia e complessa. Ma la vera ricchezza dell’opera risiede nel realismo della narrazione. Lo sguardo del regista è benevolo, eppure mai banale e semplicistico. Non tutti i conflitti si risolvono, non tutto può ricomporsi. E le rimozioni dei sentimenti a volte permangono, proprio come accade in un percorso psicanalitico. 
Solo al termine del racconto, scopriamo che la scena di apertura è in realtà la conclusione. L’intera vicenda è un flashback lungo un anno intero. Meryem è infine giunta a casa del Signor Sinan. È pronta, come sempre, ad iniziare le faccende domestiche. Poi ricorda di aver ricevuto un dono da un suo ammiratore: il giovane assistente dell’Hodja Ali Sadi. Afferra la sua borsa a tracolla e ritrova un incarto simile ad una confezione di cioccolata. Quando scopre di aver ricevuto un anello di fidanzamento, le sue emozioni sono più forti di ogni conquista guadagnata durante mesi di terapia. L’ansia per aver finalmente trovato una corrispondenza affettiva emerge in tutta la sua potenza. Meryem, ancora una volta, perde i sensi. Il lavoro su se stessa non è concluso. E forse non terminerà mai del tutto, come la costante ricerca di una riconciliazione tra mondi diversi, divisi da confini reali o immaginari, latenti o evidenti.