Il cammello di Mattarella

Di Paolo Armaroli

01 febbraio 2021

Come Niccolò Paganini, questa volta Sergio Mattarella non era intenzionato a concedere il bis. Come si ricorderà, all’inizio di questa legislatura il capo dello Stato, armandosi di una pazienza degna di Giobbe, si iscrisse all’Accademia del Cimento. Al motto galileiano del “Provando e riprovando”, le provò tutte per non strangolare in culla una legislatura che faceva sentire i primi vagiti. E siccome non si è professori di diritto costituzionale e di diritto parlamentare per niente, usò tutti gli espedienti ai quali fecero ricorso un po’ tutti i suoi predecessori. Mandati esplorativi prima al presidente del Senato, che a norma di Costituzione supplisce l’inquilino del Quirinale in caso di sua assenza o impedimento, e poi al presidente della Camera. Incarico a un Giuseppe Conte pescato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini nella società civile, che fallisce per l’impuntatura del predetto di non voler cambiare casella ministeriale a Paolo Savona. Con il codicillo ridicolo della messa in stato d’accusa nei confronti di Mattarella, una stramba idea di Di Maio che dura lo spazio di un mattino.

Non è finita. Ecco che il presidente della Repubblica si avvale di un’arma segreta che ha il nome e cognome di Carlo Cottarelli. Per formare un governo palatino, un gabinetto uscito dal cilindro del capo dello Stato? Neppure per sogno. La verità è che Mattarella – d’accordo con l’interessato, che meriterebbe il titolo di benemerito della Patria – butta giù questa carta per ridurre Conte e i suoi danti causa a più miti consigli. Cosa che puntualmente avviene con il repentino spostamento di Savona ad altro dicastero. Non meno travagliato è stato il parto del Conte 2, la Vendetta, perché nato sulle spoglie di Salvini. Difatti nella seduta del Senato del 20 agosto 2019 Conte, nelle vesti del Conte di Montecristo, si vendicò del carceriere della Lega e, con la fama di aver abbattuto “il nemico pubblico numero uno”, si precostituì i titoli per il suo secondo ministero.

E ora, non c’è due senza tre? Andiamoci piano. Questa volta Mattarella non aveva alcuna intenzione di tirarla per le lunghe. Voleva fare in fretta. Perché il Coronavirus non ci dà tregua. Perché il Recovery plan non può restare sospeso a mezz’aria come il caciocavallo di Benedetto Croce. Perché, come le stelle di Cronin, l’Europa ci sta a guardare. Tuttavia una cosa Mattarella pretende senza tanti giri di parole: chiede di vedere il cammello. Darà un incarico di formare il governo e poi schiuderà le porte di Palazzo Chigi solo a chi gli dimostrerà di godere di una maggioranza parlamentare coesa, tale da poter governare senza troppi patemi d’animo in momenti di emergenza. Già, ma oggi come oggi chi può fornire tali garanzie? Forse il gruppo degli europeisti, successore degli straccioni di Valmy, appena costituito al Senato? Indovinala grillo.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico

Il presidente del Consiglio dimissionario le aveva tentate tutte per non gettare la spugna. Ma tutto è stato inutile. Il 14 gennaio, dopo la conferenza stampa di Matteo Renzi, un “ciao ciao” in piena regola, Conte è salito al Quirinale e – come reca il comunicato del Colle – “ha rappresentato la volontà di promuovere in Parlamento l’indispensabile chiarimento politico mediante comunicazioni da rendere dinanzi alle Camere”. La replica del capo dello Stato è stata asciutta: una pura e semplice presa d’atto che sa tanto di presa di distanza. Come dire: “Veditela tutto. Regolati un po’ come meglio credi”. E lo dice, Mattarella, per due buone ragioni. La prima, non intende interferire nel rapporto fiduciario tra esecutivo e legislativo perché, come Vittorio Emanuele III, anche per lui i suoi occhi e le sue orecchie sono quelli del Parlamento. La seconda, nel suo ruolo di commissario alle crisi ministeriali può essere considerato una levatrice che facilita il parto. Però il bambinello non è una sua creatura ma il frutto degli accordi tra i partiti.

Fatto sta che il tentativo di Conte non ha avuto il successo sperato. Al Senato, con l’astensione di Italia viva, i numeri sono risultati più ballerini che mai. E anche se Renzi dovesse fare l’ennesima giravolta e tornare all’ovile ministeriale, come già va facendo un giorno sì e l’altro no, chi può garantire che alla prima occasione non cambi di nuovo idea e costringa il presidente del Consiglio alle dimissioni poco dopo il suo terzo insediamento a Palazzo Chigi? Se Renzi dovesse essere determinante, sosterrebbe Conte come la corda l’impiccato. Alla vigilia del voto sulla relazione del Guardasigilli, dove sarebbe con ogni probabilità andato sotto e costretto alle dimissioni senza speranza di un reincarico, Conte ha pensato bene di consegnarsi nelle mani del capo dello Stato. Senza nessuna rete di protezione. Senza nessuna reale garanzia.

Una mano a Conte potrebbe darla paradossalmente solo Giorgia Meloni. Perché a furia di invocare “elezioni, elezioni”, potrebbe indurre altri “responsabili” a salire sul carro dei giallorossi per evitare come i tacchini l’anticipo delle feste di Natale. Nel qual caso la presidente di Fratelli d’Italia rimarrebbe vittima della hegeliana eterogenesi dei fini. A scanso d’equivoci, con la effe rigorosamente minuscola. Vista la mala parata, non resta che affidarci alla saggezza di Mattarella. Governo istituzionale, governo tecnico, governo di scopo, governo a termine? O, all’insegna del non c’è due senza tre, la minestra riscaldata di un Conte ter, sempre al comando con maggioranze variabili? Ha da passa’ ‘a nuttata. Nel frattempo Mattarella è costretto agli stanchi riti del tempo della Prima Repubblica, che si era ripromesso di non ripetere: un mandato esplorativo a Fico, forse un secondo giro di consultazioni. Con l’aggravante che non ci sono più i partiti coesi di una volta. Oggi abbiamo agglomerati di tribù in lotta tra loro. Abbiamo forze politiche che sembrano associazioni di filosofi peripatetici dove ognuno va per conto proprio. Per nostra disgrazia.