Industria 4.0 e una nuova cultura di impresa

28 settembre 2021

Di Marco Proietti

Albert Einstein amava dire che “i computer sono incredibilmente veloci, accurati e stupidi; gli uomini sono incredibilmente lenti, inaccurati e intelligenti. L’insieme dei due costituisce una forza incalcolabile” e mai quanto oggi ci rendiamo conto dell’attualità di tale affermazione. Il modo di fare impresa sta cambiando e ciò accade anche per il contributo fornito dall’implementazione tecnologica. Questo è l’insegnamento di Einstein.

Nell’impresa oramai si fa sempre più largo uso di tecnologie digitali di vario tipo tra cui prima di tutto la robotica, ma poi anche l’utilizzo di algoritmi e Intelligenza Artificiale, così come il c.d. “internet delle cose” conosciuto anche come IoT e poi la fruizione libera di Big Data per vari scopi (si pensi a quanto accaduto con la pandemia da Covid19): tutto questo ha imposto un profondo ripensamento dei processi produttivi e delle strutture organizzative aziendale, con conseguente rivisitazione anche degli schemi contrattuali e approcci giuslavoristici classici che hanno governato il mondo del lavoro negli ultimi 50-60 anni.

Industria 4.0, e dunque l’ingresso del digitale nella gestione dell’impresa e dei rapporti di lavoro, oltre ad aver impresso un cambiamento nelle regole imprenditoriali ha sostanzialmente determinato un cambiamento nei rapporti tra dipendenti e datore di lavoro nonché nelle modalità tipiche di svolgimento dell’attività lavorativa; si pensi, ad esempio, che l’esistenza di tecnologie digitali e l’utilizzo massiccio di IA (come avviene per alcuni campi, come per le società di delivery) ha spostato la struttura aziendale da una visione verticalista e gerarchia ad una più di tipo orizzontale, che si esprime anche in base al grado di approvazione della clientela, e sulla quale gli operatori del diritto del lavoro si stanno interrogando dovendo essere necessario un intervento di adeguamento di tutto l’impianto normativo. Si fa fatica a collocare un rider nella subordinazione o nell’alveo dell’autonomia, molto semplicemente perché quegli schemi si sono formati e perfezionati – anche grazie alla stratificazione della giurisprudenza – in un’epoca che ha preceduto l’esistenza stessa dell’Intelligenza Artificiale.


In questa nuova dimensione spesso virtuale, gli uomini (dipendenti) non sono più assegnatari di mansioni, bensì svolgono delle funzioni e rispondono molto più rapidamente al mercato: le c.d. task portano modificare anche il profilo professionale, che deve essere molto flessibile ed in grado di reinventarsi periodicamente anche rimanendo sempre nella stessa azienda.

In molti parlano, a questo proposito, di “agire riflessivo” del lavoratore ovvero di quella capacità – flessibile – di adattarsi ai cambiamenti. In realtà la società digitale sta andando ben oltre, e basterebbe pensare che in molti casi si fa riferimento a soggetti che lavorano, comprano, consumano e, in sintesi, vivono, a distanza, cullati nel silenzioso isolamento delle proprie case e questo a prescindere da regole di quarantena imposte da quale epidemia: è l’hikikomori giapponese, l’isolamento determinato da una presenza forse eccessiva della tecnologica che può portare a una vera e propria realtà distopica. Ancora un esempio può essere chiarificatore: l’utilizzo dello smart working è stato sicuramente utile durante la fase pandemica ma ha avuto due tremende conseguenze ovvero (i) la desertificazione del tessuto commerciale delle città, anche e forse soprattutto di quelle più piccole, (ii) l’allontanamento delle persone dal vivere quotidiano fatto anche di incontri in ufficio, strette di mano e scambi di idee e opinioni.


Si passa in poco tempo dalla nozione di lavoro flessibile a quella di lavoratore flessibile, ma questo deve essere inserito all’interno di un tessuto normativo che va completamente ridisegnato.

Si può e si deve immaginare un futuro delle imprese in cui, pur nel pieno utilizzo delle tecnologie e dell’automazione, lavoratori e clienti non siano invisibili (o celati da chatbot o da scambi di comunicazioni via internet) ma sia comunque centrale il ruolo dei rapporti umani. L’automazione è di aiuto ai direttori del personale, al settore HR in genere, ma non deve sostituirsi in toto agli stessi poiché la disumanizzazione nella gestione del personale porta come conseguenza l’alienazione e, come in alcune recenti sentenze di Cassazione è emerso, anche a forme di discriminazione (l’algoritmo datore di lavoro non riposa, non prova pietà, perdono, rimorso: è programmato e freddamente risponde al suo script).

Le riflessioni sul tema affrontato portano da tempo a evidenziare l’effetto “disruptive” dell’automazione e del digitale ma, al contempo, anche la forza innovatrice nel creare nuovi profili professionali e veri e propri nuovi lavori. Come già detto in altre occasioni, alcuni settori subiranno maggiormente di altri l’effetto dell’automazione, ma il costante monitoraggio sull’impatto che la IA stessa ha sulle professioni consentirà di capire quali nuove prospettive ci sono per il lavoro, adattando l’ordinamento normativo ai cambiamenti.