La nostra felice pazzia

05 giugno 2019

Di Peppino Caldarola

"La nuova Civiltà delle Macchine si inoltrerà nei terreni difficili della ricerca e del dialogo interculturale, avendo alle spalle non un mecenate ma una impresa radicata in questo Paese"

Quando alcuni anni fa Gianni De Gennaro, presidente di Finmeccanica che poi diventerà Leonardo, mi parlò del suo desiderio di far rinascere “Civiltà delle macchine” e mi disse che sarebbe toccato a me dirigerla pensai che fosse una felice pazzia. “Felice” perché era, ed è, un’idea meravigliosa. “Pazzia” perché quella rivista che vollero, e realizzarono, Giuseppe Luraghi e Leonardo Sinisgalli e che quest’ultimo inventò e diresse dal 1953 al 1958 è stata una delle più importanti operazioni culturali del dopoguerra e degli anni della ripresa economica.

Chi si inoltra, o lo ha già fatto, tra gli scritti di Sinisgalli può sentire, a un certo punto, la testa che gli gira. C’è il design, c’è la grande e moderna pubblicità di massa, c’è la ricerca di nomi di marchi famosi, c’è l’intera industria italiana, ci sono tutti gli scienziati italiani, anche Silvio Ceccato che con “Adamo II”, un homunculus cibernetico, inventò quello che potremmo chiamare il primo “semi-robot” e la prima forma di intelligenza artificiale (e la Chiesa, rivelò lo stesso Ceccato, accettò quel nome perché questo Adamo era “secondo” e poi perché agli uomini di fede era noto che Adamo era stato un peccatore). Ma “Civiltà delle macchine” radunò anche il meglio della cultura umanistica, mandò scrittori nelle fabbriche, spinse i bambini a disegnare sul metallo, scoprì nuovi modi di fare poesia più legata all’età in cui la cibernetica iniziava a dominare. Rifare tale straordinaria operazione editoriale è per questo una “felice pazzia”. Io ho la fortuna di non essere uno dei tanti “egomostri” che girano nella vita pubblica italiana e so che mi misuro con un’impresa al di sopra delle mie possibilità ma so, soprattutto, che se si perde il senso del limite si rovina un grande progetto (e se stessi). Per fortuna ho come presidente della Fondazione Leonardo una personalità come Luciano Violante e come vicedirettore di questa rivista Pietrangelo Buttafuoco, una intelligenza rara.

Il grande progetto oggi ha le stesse motivazioni che ebbero Luraghi e Sinisgalli e tutti i grandi innovatori, da Olivetti a Pirelli, che dettero vita a riviste di impresa a forte caratterizzazione culturale. Ed è ciò che ha spinto Gianni De Gennaro e Alessandro Profumo lungo questa strada. Due sono le maggiori motivazioni. La prima è quella di ristabilire un dialogo tra impresa e società, tra impresa e istituzioni, tra impresa e mondi produttori di cultura. Questo approccio è facilitato dal fatto che una grande impresa, e Leonardo è tra le più grandi, produce cultura con quel bagaglio di ricerca scientifica, di immaginazione, di organizzazione del lavoro che sottostà alla sua attività d’industria

La vecchia “Civiltà delle macchine” era edita da Finmeccanica, questa “Civiltà delle Macchine” è edita da una Fondazione che, guidata da Luciano Violante, si inoltrerà nei terreni difficili della ricerca e del dialogo interculturale, avendo alle spalle non un mecenate ma una impresa radicata in questo Paese.

La seconda motivazione è insita nella testata. Oggi dire “macchine” può sembrare troppo poco in epoca di intelligenza artificiale, in cui le macchine spesso non si vedono, eppure ora sentiamo più pressanti i temi del dialogo tra culture che insieme si interrogano sull’etica e sull’umanità.

Non faremo una rivista patinata, niente ricchi premi e cotillon, ma articoli anche lunghi (Sinisgalli lo rivendicava), e immagini stupende spesso regalateci da Telespazio. Siamo una piccola redazione, ma se pensiamo a ciò che è fuori dalle nostre stanze siamo una grandissima redazione, che vuole coinvolgere le intelligenze e i talenti italiani e che vuol dire ai giovani che qui non troveranno risposte ma troveranno tutte le domande anche quelle scritte da loro.

Vorrei far vivere questa rivista nel dialogo con gli studenti delle università e dei licei andando tra di loro a fare insieme quello che noi giornalisti chiamiamo “timone”. Vorrei andare a parlarne in una fabbrica. Vorrei dire a chi non fa né una cosa né l’altra che sogniamo di sospingere l’Italia a rivivere la stagione in cui nacque la vecchia “Civiltà delle macchine” con le sue contraddizioni, i suoi problemi, ma la sua ardente voglia di futuro.

Io non ho i talenti di Sinisgalli. Ho fatto altre scelte anche culturali nella vita e ho, scusate la digressione personale, un senso di reverenza verso quegli intellettuali meridionali che seppero leggere il progresso e si collocarono nel suo punto più alto. Vorrei che il suo esempio mi (e ci) spingesse lassù.