La società fuori squadra

10 marzo 2022

Di Aldo Bonomi

Da anni ci interroghiamo sui motivi per i quali viviamo in tempi di fiducia scarsa e di crisi dei meccanismi sociali, economici e politici che ne favoriscono la riproduzione. La scienza triste dell’economia ci ha insegnato a considerare la fiducia una merce fondamentale per oliare il ciclo degli investimenti, riguardino questi la sfera delle istituzioni, delle imprese o dei singoli individui. Ma la fiducia non è solo una merce, è un rapporto sociale. Nei rapporti sociali la fiducia è come l’aria, senza di essa le relazioni soffocano nell’ego, si chiudono in comunità rinserrate, alimentano paure che si proiettano sull’altro da sé facendone un capro espiatorio. 
Viviamo in tempi paradossali in cui abbiamo la sensazione di avere un controllo via via minore sulle nostre condizioni di vita e allo stesso tempo dobbiamo continuamente fidarci di un contesto sempre più complesso che delega la produzione di fiducia a relazioni di natura funzionale mediate e incorporate in dispositivi tecnici pervasivi (pensiamo alle piattaforme digitali), che si alimentano di relazioni umane impoverite. La fiducia non ci caratterizza solo come produttori o consumatori, ma anche come persone e cittadini in un intreccio irriducibile ai singoli ingredienti. Senza fiducia le relazioni personali scivolano verso il basso dei rapporti di forza o verso l’alto del diritto come unico sistema regolatorio, senza fiducia si aprono faglie tra cittadinanza e rappresentanza e si produce separazione tra diritti e doveri. A mio modo di vedere uno dei nodi della questione della fiducia rimanda alla presenza o meno di codici, di soggetti e attori collettivi capaci di “stare in mezzo” tra le contingenze del presente e la proiezione collettiva nel futuro, all’interno della quale si esercita il controllo delle condizioni di vita delle persone, delle imprese, delle istituzioni e dei sistemi socioeconomici. Prima di parlare di futuro occorre tuttavia fare qualche passo indietro e provare a immergerci nella lunga durata della civiltà materiale che ritroviamo nella dimensione territoriale dei processi sociali ed economici. Il territorio non è una semplice espressione dello spazio fisico antropizzato ma è una costruzione sociale, è un processo (pluri)localizzato che si muove grazie alla forza delle relazioni fiduciarie di matrice socioeconomica tra gli attori che vi insistono: imprese, istituzioni locali, associazioni, autonomie funzionali ecc.
A partire dal secondo dopoguerra i grandi dispositivi territorializzati di produzione della fiducia erano sostanzialmente due. La prima, quella egemone, era rappresentata dalla grande fabbrica fordista a base urbana, luogo della produzione di merci e di fiducia nel progresso sociale collettivo, all’interno di una dialettica di classi mediata dallo Stato in funzione redistributiva. La seconda, apparentemente marginale, veniva all’epoca dipinta con i colori crudi del familismo amorale usati da Edward Banfield per descrivere le basi morali delle società arretrate di quelle che oggi chiamiamo aree interne; aree dell’osso in cui la fiducia e la lealtà non andavano oltre i rigidi confini familiari. Ne usciva un racconto di territorio rinserrato, refrattario alla modernità, ripiegato su relazioni e patti fiduciari immutabili, estesi in epoca feudale. 
Successivamente, complice la crisi del fordismo degli anni Settanta, alcuni studiosi, come Giuseppe De Rita, evidenziarono l’insufficienza di una siffatta chiave di lettura dei processi, poiché, da un lato, il fordismo aveva fallito nell’opera di modernizzazione delle cosiddette aree arretrate, dall’altra in queste stesse aree proliferavano sistemi fiduciari di prossimità capaci di generare economie locali tutt’altro che marginali. Era l’Italia delle comunità operose del sommerso, dei sottoscala e della microimpresa proto-distrettuale che aveva al suo interno figure di mediazione della fiducia orientata al bene comunitario come il sindaco, il parroco, il direttore di banca, l’avvocato, il rappresentante dell’associazione di categoria ecc. Erano comunità che mixavano in modo creativo artigianìa e civiltà delle macchine, saperi informali tramandati da bocca a orecchio e codici tecnici apprendibili nelle fiere campionarie o di settore insediate nei centri urbani. In questi territori la fiducia si coltivava più fuori dalle mura dell’impresina che alla catena di montaggio, più sui sagrati nel dopo messa che negli uffici tecnici. 

(Copertina) white yellow monk, Ugo Rondinone, 2020, installazione, in nuns + monks, Sant’Andrea de Scaphis, Roma, 17 settembre-24 ottobre 2020. Foto di Daniele Molajoli Ugo Rondinone, courtesy Sant’Andrea de Scaphis. (Sopra) Mapping the Rust, Michele Borzoni, 2021

Ovviamente questa fenomenologia territoriale non seguiva una geografia casuale, discendeva dal capitale sociale informato dalle virtù civiche che affondavano le radici nella lunga durata dell’epoca dei comuni e delle signorie, dei contratti mezzadrili e delle latterie turnarie, altra cosa dall’asfittica cultura del latifondo e della baronia. Come ci ha ben documentato la scuola distrettualista, non a caso cresciuta in quella parte di Terza Italia “scoperta” da Arnaldo Bagnasco meglio dotata sotto il profilo civico, il passaggio da comunità operose a distretti industriali strutturati avviene all’insegna della “coralità” (Giacomo Beccattini), in un’alchimia sociale in cui l’egoismo degli animal spirits veniva governato e trasformato in propellente collettivo dai citati mediatori sociali locali, secondo logiche comunitarie che mettevano le briglie dell’obbligo di reciprocità all’opportunismo acquisitivo e al free riding del lavoro “in proprio”. Questo sistema ha tenuto sin tanto che il concedere fiducia anche all’interno di regimi di concorrenza o di lotta per il prestigio sociale significava esporsi a un rischio tutto sommato “calcolato” dall’algoritmo comunitario, delineando un modello di sviluppo a trazione territoriale in cui la produzione di fiducia era connaturata alla qualità dei rapporti sociali territorializzati. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta i distretti industriali conoscono una rapida evoluzione in corrispondenza dell’apertura dei mercati a livello globale percorrendo traiettorie e approdando a esiti divergenti a secondo della capacità di verticalizzazione produttiva e di penetrazione mercantile, ma ciò che conta nella fattispecie è che con la globalizzazione non bastano più i meccanismi di riproduzione orizzontale della fiducia che stavano alla base della fase proliferante dei distretti. Per navigare nel mare aperto di mercati sempre più ampi e complessi non basta più avere fiducia nei meccanismi di scambio informale e di prossimità dei saperi, occorre avere fiducia nei saperi formali e codificati nelle scienze che si insegnano nelle università; il merito di credito non si media più attraverso il direttore della banca ma attraverso meccanismi formali di rating; l’etica del lavoro e dell’impresa non è più guidata da valori spirituali bensì dalla fede nei principi di razionalità economica; la localizzazione delle imprese non è legata a un rapporto con l’ente locale ma al posizionamento nelle supply chain; l’associazionismo degli interessi non vive più di delega e di rappresentanza, bensì di servizi e incentivi pubblici.
In sostanza la fiducia, come dicevo in apertura, diventa una funzione incorporata in relazioni funzionali formalizzate, codificate, richiedendo agli operatori economici di compiere un salto culturale complesso, che opera da filtro tra un’avanguardia di imprese che riesce effettivamente a compiere il salto e un corpaccione che entra in difficoltà, traducendo questa difficoltà in rancore e paura, non avendo punti di riferimento dai quali ripartire per riprodurre relazioni che camminano sulla fiducia nel futuro.

The Big Apple, Luciano Romano, 2010, Apple Store, 5th Avenue, New York, stampa a pigmenti archival su carta cotone su diasec+dibond © Studio Trisorio

Questo passaggio si compie inizialmente sottotraccia durante la prima fase inclusiva della globalizzazione, quella del primo decennio del nuovo secolo, in cui le opportunità offerte dall’apertura permettono a molte imprese di procedere quasi in continuità con il passato, laddove quelle più accorte percepiscono la necessità di compiere il salto dal distretto alla piattaforma. Mi riferisco all’ossatura delle circa 5000 medie imprese emerse dai distretti e dai sistemi produttivi che riescono a trascendere la dimensione del locale per collocarsi a un livello di relazioni territoriali fiduciarie a “medio raggio”. Sono queste le imprese che riescono a superare il volgere del vento della globalizzazione da inclusivo a selettivo, sono queste le imprese che innervano quelle che nel libro “Oltre le mura dell’impresa” (DeriveApprodi, 2021) ho chiamato piattaforme produttive urbano regionali quali nuove forme di governo territoriale del rapporto tra i flussi della globalizzazione e le tradizioni produttive dei luoghi e di ciò che rimane dei distretti.
In questo scenario, nel quale le città svolgono un ruolo rilevante di porte dell’economia della conoscenza in rete a base urbana, emerge il triangolo del Lover (acronimo di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) a evocare un nuovo triangolo industriale imperniato su un patto fiduciario tra metropoli e urbano regionale in cui i corpi intermedi della società e delle istituzioni si candidano a svolgere quella funzione, sempre necessaria, di mediazione della fiducia sistemica per andare insieme verso le sfide del presente e del futuro, che si chiamano digitalizzazione (o capitalismo delle piattaforme) e transizione ecologica, che non è solo green economy ma è anche green society. È nella società verde che si genera la fiducia per la transizione possibile, così com’è in un nuovo rapporto tra umano e civiltà delle macchine digitali che si potrà mettere la tecnica al servizio della fiducia collettiva.
Siamo nel salto d’epoca dell’oscillare del pendolo della fiducia tra economia e politica che ne favoriscano la riproduzione nella società innervata da capitale sociale. Da una società con mezzi scarsi ma con fini certi, progresso e benessere, siamo entrati nell’epoca dei mezzi iperabbondanti ma con fini totalmente incerti. Mezzi iperabbondanti della civiltà delle macchine che non innervano automaticamente fiducia nella “società automatica” (Bernard Stiegler) percepita oggi, più come un flusso dall’alto che come un lento processo di civilizzazione dei territori. Che abbiamo tratteggiato come fiducia nel progresso nello schematico racconto dell’oscillare, con battute di arresto nel secolo breve, della fiducia e del suo farsi civiltà materiale nel rapporto tra economie e territori. Ma l’irrompere della crisi ecologica e della pandemia hanno interrotto ancor più delle crisi economiche il pendolo della fiducia.
Come ci insegna Aldo Schiavone chiedendosi nel suo libro intitolato “Progresso”: «Ha ancora senso – e quale mai – parlare di progresso? Il progresso tecnico definisce la forma generale di tutta la storia dell’umano, nell’infinita varietà dei suoi aspetti particolari» ma a proposito di civilizzazione «ciò non vuol dire che la spinta in avanti assicurata da questo avanzamento si trasferisca meccanicamente da un piano all’altro, e che tutto proceda insieme nello stesso tempo». Il cigno nero della pandemia ci ha fatto riscoprire comunità e territorio da cui ripartire per ricostruire fiducia, così come la crisi ecologica ci ha fatto riscoprire la terra come bene comune per una riconversione ecologica. Oggi la questione della fiducia interroga il fare società, quale società per quale futuro? Per far continuare a oscillare il pendolo della fiducia occorre rimettere in mezzo tra economia e politica la società. Non bastano da sole la potenza della tecnica e la politica come regolatore dei flussi a produrre fiducia nel futuro.