La trappola woke

14 ottobre 2022

Di Federico Rampini

È da 22 anni che ho piantato le radici in America, ne osservo in prima linea molti segnali di declino. In questo arco di tempo cinque anni li ho vissuti a Pechino, ho studiato sul posto l’ascesa della potenza rivale. Nel lungo termine non ho dubbi che il baricentro della storia stia tornando a spostarsi in Asia. È in parte inevitabile e dobbiamo farcene una ragione. È in parte angosciante, finché a Pechino siede un regime autoritario. Ma questi scenari geopolitici di lunga durata non interessano quelli che proclamano “la fine dell’America”, come se un’egemonia militare, economica, finanziaria, tecnologica e culturale si dissolvesse nello spazio di un talkshow. 
Noi europei abbiamo il DNA dell’antiamericanismo. Ex potenze coloniali – Inghilterra, Germania, Francia, e sì anche l’Italia che buon’ultima volle il suo mini-impero africano – hanno subito con livore il proprio declassamento. Per generazioni siamo stati invidiosi degli americani, abbiamo mascherato questa invidia considerandoli presuntuosi e ignoranti, malgrado che le loro classi dirigenti abbiano cooptato i nostri migliori talenti emigrati. Le più grandi famiglie politiche del continente, cioè gli ex fascisti, gli ex comunisti e i cattolici, hanno sempre odiato l’America. Per questo ne hanno previsto la fine cento volte, e fino a ieri hanno avuto torto cento volte. Per questo gli stessi europei che oggi ripetono il ritornello abituale sul tracollo americano, non capiscono la vera natura della crisi attuale. Il suicidio occidentale ci coinvolge tutti, ma non per le ragioni che vengono spesso invocate. Per esempio, c’è una tendenza a sovrastimare la svolta di Trump, come se la sua presidenza fosse il concentrato di ogni perversione – e la possibilità che venga rieletto in futuro la conferma che la democrazia americana soffre di un male incurabile. La certezza con cui diamo tutta la colpa alla parte politica avversa, è uno dei sintomi di una comunità malata. Per una crudele ironia della sorte, proprio quegli europei che più disprezzano l’America, oggi ne stanno importando i peggiori difetti in casa propria: dalla censura politically correct nelle università inglesi all’odio per l’Occidente di Carola Rackete, all’ambientalismo pauperistico e antiscientifico di Greta Thunberg. 

(In copertina) Senza titolo, Franco Angeli, 1967, tecnica mista su cartone intelato, 70×200 cm © Erede Angeli. (Sopra) Half Dollar Bianco Blu, Franco Angeli, 1966, tecnica mista su due tele con velatino, 140×200 cm © Erede Angeli

Ma l’America resta oggi il laboratorio del suicidio occidentale, per una ragione che distingue questa crisi da tutti gli episodi precedenti. Stavolta quei pezzi di cultura radicale che demonizzano e demoliscono ogni valore dell’Occidente, sono cooptati nell’establishment. Mai in passato c’era stato un allineamento così totale tra la cultura antioccidentale e i poteri forti del capitalismo, della cultura, dei media, dell’industria dell’entertainment. L’Europa insegue e cerca di adeguarsi, l’America è all’avanguardia. Black Lives Matter e la colpevolizzazione dei bianchi, l’esaltazione di tutte le minoranze etniche o sessuali, il neopuritanesimo, l’ambientalismo apocalittico, tutti questi movimenti sono sostenuti dai miliardari progressisti e dalle caste privilegiate del capitalismo digitale, dalle élite che siedono nei consigli d’amministrazione, che guidano le università, le case editrici, i media, Hollywood. 
Nell’attuale suicidio dell’Occidente non viene salvato nulla, la furia della distruzione del nostro passato è accecante. L’Occidente-caricatura come viene insegnato oggi nelle università di élite americane, inglesi, e presto europee, è solo una fabbrica di genocidi, una mostruosa fucina di ingiustizie e di sofferenze, che ha soggiogato, sfruttato e violentato l’umanità intera (tutta santa e innocente salvo i bianchi), oltre ad aver dilapidato le risorse naturali del pianeta. Quello che negli anni Sessanta era pensiero alternativo, contro-cultura, oggi è la cultura ufficiale, abbracciata dalle autorità americane per opportunismo. Non siamo solo di fronte a un’operazione estetica con cui l’establishment cambia linguaggio e apparenze per auto-perpetuarsi. Poiché tante forze alternative premono ai nostri confini – le masse di potenziali migranti provenienti da culture diverse; le potenze rivali di Cina e Russia – il suicidio occidentale è il sabotaggio di ogni difesa immunitaria, è la distruzione dei nostri anticorpi. Qual è il tornaconto dell’establishment in questa operazione? Cosa ci guadagna ad abbracciare con fervore la woke culture? La politica identitaria consente di ignorare le vere diseguaglianze di massa. L’establishment è felice di promuovere per cooptazione un’élite di afroamericani (alla Barack e Michelle Obama, tanto per intenderci: con lauree e dottorati a Princeton e Harvard) e disprezza quei bifolchi razzisti degli operai bianchi i cui figli non possono andare all’università. Promuovere l’agenda dei transgender, imporre l’uso di nuovi pronomi neutri o plurali, dà una visibilità enorme allo zero virgola qualcosa per cento della popolazione, e zittisce i “senza laurea” con tutti i loro pregiudizi osceni, i loro bisogni sociali, le diseguaglianze e le ingiustizie sofferte. La demolizione dei valori tradizionali si addice a quella élite che ama definirsi meritocratica per nascondere la società che ha costruito: dietro l’idolatria del talento c’è quella delle “credenziali”, c’è la dittatura dei tecnici e degli esperti, caste autoreferenziali che non hanno conti da rendere, non devono mai rispondere per i disastri compiuti. È un mondo che si riempie la bocca con il rispetto della scienza e degli esperti, ma dove i tecnocrati non hanno mai pagato un prezzo per i tremendi errori commessi: tutta la storia della globalizzazione iniqua, delle crisi finanziarie, è una collezione di errori di cui i “tecnici” al comando non hanno mai fatto ammenda. Il loro sistema si perpetua facendo finta di rinnovarsi, per questo abbraccia nuove regole di cooptazione, che promuovono i VIP delle minoranze “giuste” pur di ricacciare indietro la massa degli impoveriti.

Bandiera americana, Turi Simeti, 1964, tempera su carta, 70×98 cm, collezione privata © Fondazione Archivio Turi Simeti

Le civiltà umane più dinamiche e creative sono state inevitabilmente espansioniste. Si sono allargate per imprimere la loro influenza su un mondo più vasto rispetto alle tribù o alle città da cui provenivano. Qualche volta espandersi ha voluto dire conquistare e colonizzare; altre volte si è tradotto nel proselitismo missionario; altre volte ancora nella curiosità degli esploratori. L’Occidente moderno è stato la prima civiltà autenticamente mondiale e per questo la sua espansione ha toccato ogni angolo del pianeta. Ma gli espansionismi altrui – quello persiano, arabo-islamico, cinese – nelle rispettive età auree avevano avuto caratteristiche simili. Quando invece le civiltà si ripiegano su sé stesse, battono in ritirata, scelgono la rinuncia, allora la decadenza è garantita. La decadenza include degrado morale, edonismo ed egoismo, nonché l’incapacità di sacrificarsi per difendere la civiltà dai suoi nemici esterni. 
Roya Hakakian è donna, iraniana, immigrata: fa parte di categorie santificate nel catechismo politically correct. Questa scrittrice ha saputo dirci la verità su noi stessi nel libro “A Beginner’s Guide to America”. Raccontando il suo percorso di straniera approdata in Occidente, ecco come ha visto la massa dei bianchi poveri negli Stati Uniti, la classe operaia disprezzata dalle élite: «Quelli che sono nati qui sono dimenticati dai propri simili. Gli immigrati spesso hanno chance migliori di successo materiale e spirituale. Quelli nati qui non hanno una storia da raccontarsi se non quella di un fallimento, di un tradimento, di una disperazione». 
La Hakakian si esalta quando ricorda il suo primo impatto con la società americana, appena arrivata dall’Iran. Comincia dalle piccole cose: l’ebbrezza di potersi togliere il velo. Continua con questioni più importanti: l’esperienza del corteggiamento in un mondo dove le donne hanno conquistato tanti diritti, compreso quello di prendere l’iniziativa. Nel costume, nella vita di tutti giorni, respira a pieni polmoni ciò di cui non ci rendiamo più conto. La libertà. Vorrei che sentissimo un centesimo di quel che provano i popoli a cui i nostri valori sono proibiti. Le ragioni per cui l’Occidente merita di essere difeso, oggi le conoscono con più lucidità di noi i giovani di Hong Kong detenuti in carcere per aver preteso dei diritti nati dalle “nostre” rivoluzioni di fine Settecento; quelle ragioni le abbracciano con più vigore gli ucraini che sacrificano la vita pur di essere parte della nostra famiglia, della nostra cultura.