La voce (digitale) dei morti: il brevetto Microsoft per la "resurrezione" dei cari

Di Andrea Venanzoni

25 gennaio 2021

Il rapporto tra tecnologia e morte è da sempre forte, stringente e a tratti incoffessabile. Nella fumosa e inquieta Inghilterra vittoriana le gioie dell’arte della fotografia vennero sin da subito piegate per realizzare allegorici, e vividi, ritratti in posa di corpi di morticini vestiti a festa. L’invenzione della dagherrotipia scalzò letteralmente la pratica dei dipinti funerari arrivando a consistere di un autentico genere autonomo: quello della fotografia post-mortem.

Genitori agghindati per una festa crudele, disposti ai lati del corpo esanime, vestito anch’esso in maniera elegante, i lineamenti distesi, gli occhi aperti, volto curato per sembrare tragicamente ancora vivo. A questo genere di fotografia, con tutte le sue implicazioni storico-culturali, ha dedicato negli anni scorsi due volumi di studio Mirko Orlando, ‘Ripartire dagli addii: uno studio sulla fotografia post-mortem’ (MJM Editore, 2010) e ‘Fotografia post mortem’ (Castelvecchi, 2013).

Letture essenziali anche per chi decida di confrontarsi con il tema della morte nella società digitale. Perché Internet, sin dalla sua comparsa sulla linea d’orizzonte dell’umanità, si è atteggiato anche quale dispositivo di superamento del limite e di vocazione alla eternità: la Rete non dimentica, si dice spesso, e ciò è tanto più vero nel caso della morte.

Frammenti di esistenza continuano a galleggiare, ovunque, sospesi in un limbo digitale di memorie, ricordi, commenti, partecipazione a discussioni.

Facebook ha affrontato il tema tra il 2015 e il 2019 con un radicale cambio di policy e adottando una strategia piuttosto lineare anche se non esente da controversie: trasformare il profilo del defunto in una sorta di ‘stanza del ricordo’, gestita da un parente o da un amico, oppure consentirne la cancellazione integrale.

Ma la tendenza della tecnica a cercare di vincere il biologico e i suoi limiti sembra essere troppo forte, troppo pervasiva per accontentarsi di soluzioni comunque antropocentriche. Ed è così che dal rutilante mondo delle start-up statunitensi ci giunge un brevetto per poter parlare, per via digitale, con i morti. Morti famosi, come personaggi storici, o parenti morti, mediante un sistema di intelligenza artificiale combinato con un elaborato sistema di riproduzione vocale.

La Microsoft ha presentato il brevetto il primo dicembre 2020; nella sommaria descrizione si legge ‘creazione di un Bot per la riproduzione vocale di specifiche persone’.

In apparenza un claim piuttosto neutro, ma andando a leggere nella relazione illustrativa che appare sul sito dell’ufficio brevetti statunitense ci si rende conto che l’idea mira a ricostruire personalità anche del passato, non solo di valenza e rilevanza storica, ma anche parenti o amici. Una sorta di tavoletta Oujia per conversare coi morti.

Per fare questo però, e la stessa Microsoft sembra ben consapevole dei rischi, è necessario disporre di una mole enorme di dati che affinino e cesellino la personalità digitale che si va a creare: un data-mining virtualmente infinito che scavi tra gli effetti personali del soggetto che andrà ad essere impersonato dal Bot.

Anche qui soccorre una esperienza storica già vissuta, in questo situata sul delicato crinale tra tecnologia ed esoterismo: quello delle voci elettroniche, o psicofonia, ovvero le presunte voci dei morti captate con sensori e apparati tecnici appositamente congegnati, di cui maggiore inventore e sostenitore fu il lettone Kostantin Raudive (suo il volume apparso anche in Italia nel lontano 1974, anno della morte di Raudive e ormai oggetto di collezione ‘Voci dall’Aldilà’).

Anche in quel caso c’era una penetrazione fisica nel dolore dei vivi, dei parenti ancora sconvolti, uno scivolare lento e sinuoso, da Cuore di tenebra, negli ambienti martoriati dal peso del lutto.

Ed in entrambi i casi, tanto in quello della psicofonia quanto in quello del brevetto Microsoft, in questa commistione stordente di alta tecnologia e di credenze mistiche, giunge a nuove vette di significato la frase di Cesare Pavese, ‘ la tua modernità sta tutta nel senso dell’irrazionale’.