Mario Draghi e il Conte di Cavour

Di Paolo Armaroli

05 febbraio 2021

Il sistema dei partiti, o almeno di questi partiti, ci appare al collasso. Questa impressione sembrerebbe confermata da ben tre cartine di tornasole. La prima: l’irresistibile ascesa di Giuseppe Conte. Quando Mattarella lo convocò al Quirinale per conferirgli l’incarico di formare il suo primo governo, gli sembrò un pulcino nella stoffa. Da un punto di vista politico, un uomo senz’arte né parte. Ma questo pulcino nella stoffa, dapprincipio sottovalutato dall’intero arco parlamentare, a poco a poco si è messo in luce fuori dai confini nazionali perché nessuno è profeta in patria. Ha conosciuto i grandi della Terra, si è fatto coraggio e nella seduta del Senato del 20 agosto 2019 si è vendicato di uno dei suoi due carcerieri, Matteo Salvini, rosolandolo ben bene allo spiedo.

È riuscito, diavolo d’un uomo, a dar vita a un nuovo ministero con una maggioranza parlamentare ben diversa dalla prima e ha tenuto in ostaggio i giallorossi che si erano illusi di averne fatto un prigioniero. Il triplice salto mortale non gli è riuscito, ma per un pelo. Perché, con Catullo, la maggioranza è pervenuta alla conclusione che non poteva vivere né senza di lui né con lui. E, per di più, il capo dello Stato non aveva condiviso alcune sue scelte.

La seconda cartina di tornasole: la doppia vittoria di Matteo Renzi, condottiero di un partito che non arriva al tre per cento. Come la nazionale inglese di calcio del dopoguerra, ha sfidato il resto del mondo e i fatti gli hanno dato ragione. Ha preteso la testa del presidente del Consiglio in carica, che lui stesso aveva candidato alla poltrona di Palazzo Chigi ai primi di settembre del 2019 per sbarrare la strada al centrodestra, e quella testa è rotolata su un piatto d’argento. Voleva come successore dell’ex pulcino nella stoppa un nome altisonante come quello di Mario Draghi, l’unico in questo momento in grado di tirarci fuori dalla palude nella quale siamo precipitati. E Mattarella, che pure nella sua agendina ha dovuto sottolineare più volte il nome del senatore di Scandicci con le matite rossa e blu, non ha detto né ai né bai e lo ha accontentato. Anche se non aveva certo bisogno del suggerimento dell’ex sindaco di Firenze.

La terza cartina di tornasole: la mossa solo all’apparenza stupefacente dell’inquilino del Colle. Aveva detto e ridetto che dopo una coalizione di centrodestra e una di centrosinistra, le vie del Quirinale, a differenza di quelle del Signore, sarebbero finite. Perciò non rimaneva che sciogliere le Camere e andare alle elezioni anticipate. Ma così non è stato. Ancora. Mattarella aveva lasciato intendere che mai e poi mai avrebbe dato vita a un governo del Presidente, un governo Palatino, perché non è nelle sue corde. E invece ha seguito le orme di Luigi Einaudi che s’inventò Giuseppe Pella, di Giovanni Gronchi che mandò allo sbaraglio Fernando Tambroni, di Oscar Luigi Scalfaro che nominò prima Carlo Azeglio Ciampi e poi Lamberto Dini, infine di Giorgio Napolitano che optò per Mario Monti subito dopo averlo nominato senatore a vita. E invece è spuntato Draghi dal cilindro di Mattarella. Senza procedere a un secondo giro di consultazioni perché il capo dello Stato avrà pensato – parafrasando Giovanni Giolitti – che dare ascolto a questi partiti non è impossibile, è inutile. E ha fatto tutto questo non per un ghiribizzo ma a tutela della salus rei publicae. Suprema lex.

Facendo violenza al suo carattere, Mattarella si è incamminato – nientemeno! – sulle orme del generale De Gaulle. In sostanza, anche lui ha detto: “La ricreazione è finita”. Il mandato che ha conferito a Draghi è ampio: non gli ha dato i giorni contati. Ma è auspicabile che faccia bene e in fretta. Per riuscire dovrà avere il sesso degli angeli. Dovrà confrontarsi con tutti ma non confondersi con nessuno. Un modello è il Conte di Cavour. In occasione del dibattito parlamentare sul progetto di legge presentato dal governo e composto originariamente di un solo articolo – “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia” – approvato con legge 17 marzo 1861 n. 4671, Cavour non fece mistero di come la pensasse. Nella tornata del Senato del 26 febbraio 1861 il presidente del Consiglio sostenne che un governo ha questo dilemma: o è rimorchiato dall’opinione pubblica – e, aggiungeremmo, dal Parlamento – o ne è rimorchiatore. E, non senza una punta d’orgoglio, aggiunse: “ho sempre creduto dover seguire il secondo; e mi pare che gli eventi abbiano dato ragione a questa mia scelta”. E nella tornata della Camera dei deputati del 14 marzo successivo concesse il bis. Dichiarò: “negli ultimi avvenimenti l’iniziativa fu presa dal Governo del Re”.

Insomma, per dirla con Leopoldo Elia, il governo è o il comitato direttivo o il comitato esecutivo del Parlamento e della stessa opinione pubblica. Se Draghi opterà per il secondo corno del dilemma, sarà costretto a imbarcare diversi nominativi imposti da Sua Maestà La Partitocrazia, dove i fenomeni sono merce rara, e si sottoporrà a una stentata esistenza infarcita di compromessi sempre più al ribasso con questa o quell’altra forza politica. Se invece farà il contrario e tirerà dritto, alla fine del tunnel potremo vedere la luce. A ogni buon conto il presidente incaricato ha un’arma segreta riassunta in un avverbio. Il 3 febbraio, non appena ricevuto l’incarico, dal Palazzo del Quirinale ha dichiarato: “Con grande rispetto mi rivolgerò innanzitutto al Parlamento, espressione della volontà popolare”. Innanzitutto, capite? Dopo di che, è chiaro, non resta che appellarsi al popolo sovrano.