Meccanica quantistica: un miracolo ancestrale, vertigine d’amplessi, danze, baci e voyeurismo nel fluire continuo della vita

07 luglio 2022

Di Alessandra Fassari

Sembra esserci da sempre un'essenza tutta vichiana nel trascorrere degli eventi, corsi e ricorsi che si ripetono con un’andatura perennemente mutevole. Ma, nella convinzione di poter sfoggiare il blasone filosofico del “panta rei” (πάντα ῥεῖ) senza il rischio di inciampare nel solito cliché linguistico, si resta ignari - con buona pace di Lorenzo Valla - di quella semplificazione concettuale attribuibile probabilmente a Cratilo, maestro di Platone. «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento, essa si disperde e si raccoglie, viene e va.» diceva così Eraclito. 
Ed era proprio nel perenne mutare del tutto che il filosofo efesino indagava un fenomeno tralasciandone percorsi e protagonisti o perlomeno coloro che ne sarebbero divenuti tali proprio quando alle soglie del Novecento Max Karl Ernst Ludwig Planck li avrebbe definiti “quanti”. E sono esseri discreti, i quanti, invisibili e muti come l’”H” della loro costante, danzano in gruppi nel fluire luminoso del cosmo, roteando come dervisci in armonia con l’eterno. 
Eppure saltano i quanti, disordinatamente fuori orbita sul palco degli spettacoli osservati da Niels Bohr, o a volte ondeggiano come maree nella mente di Erwin Schrödinger. Una visione onirica per pochi intimi, il balletto dei quanti, impercettibile ai più, apparve evanescente nei secoli a menti lucide e folli, più o meno coscienti, ma tutte -si capisce- chiare in «virtute e canoscenza», alcune illuminate, infine, dalla sacralità di un’isola del mare del Nord. Proprio là dove un giovane Heisenberg ammaliato dalle scogliere e dal dubbio, in lotta contro l’ovvietà e le allergie, ebbe «la sensazione che attraverso la superficie dei fenomeni stavo guardando verso un interno di strana bellezza; mi sentivo stordito al pensiero che ora dovevo investigare questa nuova ricchezza di struttura matematica che la Natura così generosamente dispiegava davanti a me». 


Ebbe a scrivere proprio così nei suoi appunti, come riporta il fisico Carlo Rovelli (Helgoland, Adelphi Edizioni, 2020), e dev’essere stata emozione pura, purissima, eccitazione di vertigine e sentimento, non solo per la scoperta in sè, ma per quella stessa essenza fenomenologica che sarebbe la meccanica quantistica secondo le più avanguardiste teorie della fisica odierna. Una relazione fra amanti, un amplesso inevitabile, un legame aggrovigliato e complesso, un «entanglement» dice Rovelli, un apostrofo rosa avrebbe detto Cyrano. L’essenza delle relazioni amorose com’è quella fra quanti, una delle poche che sembrano funzionare a distanza, e più sono distanti e più si uniscono gli amanti e Shakespeare sembrava saperlo quando scrisse «Con la tua immagine e con il tuo amore, tu benché assente, mi sei ogni ora presente. Perché non puoi allontanarti oltre il confine dei miei pensieri; ed io sono ogni ora con essi, ed essi con te.» 


Ma se, a sentire Einstein, «Tutto è energia e questo è tutto quello che esiste», starebbe qui, nell’energia delle relazioni, il segreto dei quanti innamorati e del tutto? In quel legame che a volte sembra essere ancor più sostanziale degli amanti stessi? In quell’amore per l’amore al di là della persona, considerato un vizio per Denis de Rougemont (“L’amore e l’occidente”) o una ricchezza, per noi oggi, laddove la meccanica quantistica non esisterebbe se non sottoposta ad osservazione? «La teoria non ci dice dove si trovi una qualunque particella di materia quando non la guardiamo. Ci dice solo quale sia la probabilità di trovarla in un punto se la osserviamo.»  scrive ancora Rovelli. Comunque, triangolo voyeuristico o “danza a tre” (nel poeticismo rovelliano) che sia, sembra che in fisica, Alfred Korzybski permettendo, contrariamente alla PNL, “la mappa” faccia il “territorio”, in quanto ogni cosa sembra esistere solo in relazione ad un’altra che la configura in modo a sé stante, nella diversità del tempo e dello spazio, nella soggettività dei punti di vista delle relazioni, tanto quantistiche quanto amorose.
Ed ora, nel sussurro delle riflessioni esistenziali, sarebbe lecito chiedersi cosa ne sarebbe di noi se avessero ragione Schrödinger e il “suo gatto”? Esisteremmo solo momentaneamente come percezione ologrammatica altrui o perennemente bloccati in attesa di un occhio che ci liberi dalla “sovrapposizione”? E se -a maggior ragione- avesse ragione Eraclito, se «tutto viene e va», cosa saremmo noi al di fuori dell’istante d’osservazione? 
Certo «La scienza non può svelare il mistero fondamentale della natura» forse perché «noi stessi siamo parte dell’enigma che stiamo cercando di risolvere», come diceva Planck, o fors’anche perché «la natura ama nascondersi» (fusis filei Kriuptein), come diceva Eraclito? E in amore, si sa: vince chi fugge.