La società dell'accesso. Come siamo diventati ostaggio delle non cose

21 novembre 2022

Di Francesco Subiaco

Nella società dell'informazione perpetua, gli esseri umani vivono il lungo inverno dell'oblio e della perdita. Una stagione in cui l'umanità, sopraffatta dall'opulenza dell'informatizzazione del reale, è caduta, da una parte nell'oblio prodotto dall'eccesso di notizie e di dati, dall'altra nella perdita di contatto con la cose e con il mondo materiale. In questo contesto sia la memoria sia gli oggetti vengono sempre di più sostituiti da paradisi virtuali, stimoli estremi, esperienze digitali che offrono una via di fuga da una realtà insensata e anestetizzata, verso reami immateriali. Tale prognosi è il centro dell'ultimo straordinario saggio di Byung Chul Han, "Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale"(Einaudi), che ha come tema principale la fuga dalla realtà e dall'ordine materiale prodotta dalle "undinge", ovvero le esperienze e le informazioni, che hanno trasformato le società occidentali da civiltà del possesso a civiltà dell'accesso, causando una mutazione antropologica nell'uomo del villaggio globale più incisiva e drastica di quella prodotta dal consumismo e dalle rivoluzioni industriali. Le non cose non sono oggetti materiali, mezzi, talismani o cianfrusaglie che gli uomini trasformano in feticci, ma sono più che altro degli "infomi", ovvero degli agenti anonimi e immateriali che elaborano e trasmettono informazioni, racchiudono e veicolano esperienze. Sono non cose i social, che diffondono informazioni tra utenti anonimi il cui fondamento non è il possesso di un bene, ma la visibilità che essi riescono a veicolare, ad esempio, ma anche la stampante 3d o gli smartphone. Le non cose sono, quindi, degli strumenti digitali che dematerializzano l'ordine materiale e terrestre della realtà, basato sulle cose, in una comunicazione tra profili immateriali, fondata su interazioni, sostituendo ad un rapporto soggetto-oggetto, una correlazione di dati e informazioni. Un cambiamento ontologico che, come sottolinea Han nel suo saggio, trasforma il Dasein heideggeriano, l'esserci concreto e terrestre, in un Inforg floridiano, un comunicare astratto e virtuale, che porta l'uomo a non abitare più la propria terra, ma essere una monade che si identifica nei dati e nelle esperienze a cui ha accesso ("l'ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo"). Scrive infatti il filosofo sudcoreano nel suo saggio:
"Non abitiamo piú la terra e il cielo, bensí Google Earth e il cloud. Il mondo si fa sempre piú inafferrabile, nuvoloso e spettrale. Niente è più attendibile e vincolante, nulla offre piú appigli". 


In questo scenario, l'uomo non è più oppresso da uno stato autoritario e tirannico che lo guida e plasma, bensì è fagocitato da una società totalitaria in cui l'individuo si confonde nel "mare della fertilità" dell'informazione perpetua e dell'alienazione dalle cose, perdendo la propria identità in nome di un paradiso immateriale, in cui non esiste autorità, ma in cui domina la sorveglianza. L'uomo senza legami, senza memoria, non è più il consumatore che si realizza nei propri acquisti e si riconosce nei propri oggetti, ma diventa un agente anonimo che si nutre ormai solo di stimoli, di esperienze, di informazioni, di "non cose" in sostanza, che lo relegano a vivere una esistenza vittima di svaghi eccessivi e fughe verso mondi immersivi, come i social, in cui annientarsi e cercare una identità effimera. Luoghi immateriali che lo alienano per sempre da tutto ciò che è ordinario, familiare, terrestre, che lo lega all'esistenza e forma in esso dei radicamenti, proiettandolo, invece, ad una esistenza orientata esclusivamente verso rappresentazioni artificiali ed economicistiche della realtà, trasformandolo in un utente, un follower, un contatto.


Una mutazione antropologica che porta l'uomo occidentale a cambiare drasticamente il paradigma della propria "civilità", che non si fonda più sulla relazione con l'oggetto, con il feticismo delle merci, ed in sostanza con il possesso, ma che ora si basa sulla scoperta e sulla condivisione di informazioni, sulla ricerca di esperienze, che prefigurano una società dell'accesso, passando dall'economia delle cose alla sharing economy, come ha sottolineato Jeremy Rifkin. L'accesso come fondamento della società, definisce una visione della vita orientata all'esperenzialità, che non ha più come centro il lavoro o la ricchezza, in quanto mezzo di possesso, ma la visibilità e lo svago, generando una società non più liquida, ma aereiforme ed evanescente, che delinea una nuova fase della morale moderna in cui i legami, la comunità, i valori umanistici vengono o aboliti o surrogati dal marketing e dalla pubblicità, diffondendo il dominio dell'immateriale, per cui le cose non hanno smesso di essere merci, ma le merci hanno smesso di essere solo cose. L'utente della società delle non cose è quindi alla continua ricerca di esperienze nuove, di identità radicali, che possano sopperire la propria mancanza di radicamenti. Il neoconsumismo di cui è vittima è quindi una esigenza spirituale di ricerca del sé dove, ribaltando Fromm, si cerca il primato dell'essere rispetto a quello dell'avere. Questo suo essere però non è un esserci, in quanto esso è immateriale e virtuale, e quindi è un suo surrogato, che si nutre di mitoidi e non di miti, di identità effimere contro identità profonde. L'uomo descritto da Byung Chul Han è un apolide che vive un rapporto irreale ed occasionale con il mondo, cullato dalle illusioni di un consumismo che non è più un materialismo, se forse lo è mai stato, ma uno spiritualismo surrogato, uno spiritismo tecnico, capace solo di creare emozioni di accompagnamento, distrazioni che non educano l'uomo a vivere, ma a funzionare. Contro questa deriva Han invoca un ritorno al silenzio, al reale, al numinoso, sostituendo al design l'arte, al marketing il mito, alla community la comunità. Un ritorno alla realtà, alle piccole cose di pessimo gusto, alle ierofanie di un santuario, alla tenerezza di un rapporto ordinario, contro i surrogati estremi di una vita anestetizzata e omologata che non salva l'uomo dalla sua solitudine, ma lo droga contro essa, rendendolo completamente dipendente delle proprie illusioni. L'unico antidoto contro questa desolazione esistenziale è tornare ai rapporti reali, al sacro, "è il silenzio a salvare" scrive Han nel finale del libro, poiché solo ciò che è comune realizza quello che lo straordinario promette.