Tempo libero e ozio creativo

Intervista a Domenico De Masi

Di Ginevra Leganza

17 novembre 2022

Come occupare il tempo libero? Come sarà la nostra vita a cavallo tra il 2030 e il 2040? Che spazio avranno l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie? A rispondere è Domenico De Masi, sociologo italiano e professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università degli Studi di Roma "La Sapienza”. De Masi analizza il rapporto giovani-anziani e l'organizzazione della vita attiva fra lavoro e “ozio creativo”. 

Professore, ci racconti una scena di vita quotidiana a cavallo fra gli anni 2030/2040.  
Per fare questo sforzo d’immaginazione dobbiamo anzitutto dare per certo che la guerra in Ucraina non diventi un conflitto nucleare... Nel caso in cui pandemia e guerra fossero solo delle parentesi, le variabili determinanti del nostro futuro sarebbero la tecnologia e l’economia. A questo punto penso che avremo uno sviluppo delle biotecnologie, dell’intelligenza artificiale, dei nuovi materiali e dell’informatica. L’informatica è la tecnologia più prevedibile fra tutte, secondo la legge di Moore. 

Cosa ci dice la legge di Moore?
È la legge del progresso esponenziale. Ci dice che il microprocessore, dentro il nostro telefonino, nel 2030 riuscirà a fare un miliardo e mezzo di operazioni in più. Per quanto riguarda le biotecnologie, possiamo prevedere con abbastanza sicurezza l’allungamento ulteriore della vita: da 700.000 ore attuali passeremo a 720.000 – 750.000 ore nel 2030. L’incremento delle tecnologie, insieme all’aumento della lunghezza della vita, porterà a meno lavoro. In altre parole, adesso lavoriamo un decimo della vita mentre in futuro lavoreremo un dodicesimo della vita. E questo significa che avremo un incremento del tempo libero. 

Cosa vorrà dire?
Beh, le tecnologie consentiranno di mescolare tempo di lavoro e tempo di gioco. Per essere più concreti, una parte del lavoro somiglierà a quello che stiamo facendo in questo momento. Che è quello che io chiamo “ozio creativo”. 

E cosa intende per “ozio creativo”?
È quello stato in cui non si sa se prevale il lavoro (con cui si crea ricchezza), lo studio (con cui si crea conoscenza) o il gioco (con cui si crea allegria). Questa modalità oggi sta diventando la nostra attività primaria. Un pranzo di lavoro o una serata di compleanno è spesso il luogo dove si conclude un affare… E anche il tema dello smart working ci fa riflettere. È curioso che prima della pandemia mezzo milione di persone telelavorasse. Ecco che il 10 marzo del 2020 i telelavoratori erano diventati sette milioni. Questo per dire che sette milioni di persone potevano telelavorare anche prima, ma i capi si opponevano. La motivazione? Una questione arcaica di potere e di repulsione verso le nuove tecnologie. 

Abbiamo paura della tecnologia? 
Qualcuno ha paura. Direi che siamo immersi in una realtà sociale sempre più divisa tra analogici e digitali, dove l’analogico è uno come me, di una certa età, con uno stipendio sicuro, con poca dimestichezza con la tecnologia e l’informatica, con un timore diffuso verso tutto ciò che appare diverso, verso i gay, gli immigrati. L’analogico mitizza il passato come epoca di valori perduti, è diffidente verso i giovani, i quali a loro volta sono spesso dissipatori di patrimoni altrui. 

Il digitale, invece, chi è? 
Il digitale è sostanzialmente l’opposto. Internet ha 52 anni, Instagram ha 11 anni, ognuna di queste ondate crea digitali nuovi rispetto a quelli precedenti. Il digitale è comunque un giovane, spesso precario. Viaggia di più, conosce le lingue, ha un rapporto con la tecnologia, con la sessualità e con il nomadismo molto più familiare. Per dare un’immagine concreta: il digitale si depila. Ma il problema è che ogni organizzazione è piramidale… E oggi al vertice ci sono gli analogici; alla base i digitali. L’analogico al vertice è contrario allo smart working mentre il digitale alla base lo sostiene. Ma queste fasi di ricambio generazionale richiedono sempre una decina d’anni per assestarsi. 

Quando questo assestamento ci sarà, secondo lei, l’ozio creativo produrrà un’umanità più felice?
Questo non si può dire. La felicità è un problema soggettivo, non può essere calcolata o definita. Erano più felici gli ateniesi, i romani o i fiorentini del Rinascimento? Naturalmente la felicità inizia laddove finisce il dolore. Dolore non solo fisico ma anche psicologico, che è meno presente quando disponiamo di comodità. Tutte le ricerche, comunque, ci dicono che il livello di felicità sale fino a un certo livello di reddito. Superato quel livello o resta fermo o si riduce. L’ideale, in tal senso, sarebbe non essere né ricco né povero, essere propenso alle relazioni con gli altri. E quindi alla felicità. Come ci ha dimostrato Freud, esiste una propensione personale al thanatos e all’eros. D’altra parte noi siamo portatori sani di vari tipi di bisogni. Alcuni, come il nutrimento e il riposo, li abbiamo in comune con tutti gli esseri viventi. Altri sono bisogni tipicamente umani. 

Quali sono?
Agnes Heller, grande filosofa ungherese, li definisce bisogni radicali; ovvero quelli che attengono alla radice umana, alla parte più umana di noi. Sono il bisogno di introspezione, il bisogno di stare con noi stessi a meditare sul nostro destino, il bisogno di amicizia, il bisogno di amore, il bisogno di gioco, di convivialità e di bellezza. Questi bisogni si possono soddisfare in modo completamente gratuito e dipendono esclusivamente dall’educazione al gusto. 

L’uomo vive un bisogno di bellezza? 
Beh, io personalmente mi considero il collezionista più ricco del mondo. Siamo a Roma e intorno a me ho Caravaggio, Michelangelo, le Sibille di Raffaello a Santa Maria della Pace. E come non bastasse, non devo preoccuparmi per la loro sicurezza e manutenzione. 

Ma lei parlava di “educazione al gusto”. Allora le domandiamo: alla bellezza come bisogno ci si educa?
Il problema – e qui veniamo all’educazione – è che le tre agenzie di formazione (la famiglia, la scuola e i media) sono centrate esclusivamente sul lavoro. Nonostante il lavoro occupi un dodicesimo della nostra vita, tutto deve essere pensato per il lavoro e non per la bellezza. Una follia, se ci si pensa. Perché, io professore, devo aiutare il mio studente ad essere felice in dodici dodicesimi della vita e non in un dodicesimo della vita. È una mania quella di educare solo al lavoro e non al tempo libero. 


A cosa porta la mancanza di educazione al tempo libero?
Porta a varie possibilità. Una è la depressione. Pensiamo ai manager: auto educati a trascorrere dodici ore al giorno al lavoro, non sanno cosa sia il tempo libero. L’amministratore delegato di una grande banca italiana mi raccontava di come lui si portasse a casa il lavoro anche il sabato e la domenica. Alternativa? Gli veniva l’emicrania perché non sapeva come gestire l’ozio. Ecco, questa è una degenerazione totale. Perché il lunedì in cui tu andrai in pensione, gli dicevo, sarai un estraneo per tutti. Dopo aver riempito la tua vita di potere, non avrai più sudditi perché in famiglia saranno cresciuti in autonomia e non ti obbediranno più. Oltretutto, un tempo si andava in pensione e si moriva poco dopo. Oggi l’aspettativa di vita si è allungata, viviamo venti, trent’anni in più. E questi anni dobbiamo occuparli in qualche modo. Possiamo farlo con la depressione, oppure con la droga o con l’alcolismo. O con la follia vera e propria. 

Ipotesi allarmanti. 
Un’estate mi telefonò un dirigente e mi disse Professore, lei ha proprio ragione. Adesso che sono in pensione, sono distrutto. Non ho avuto il coraggio di dirlo alla mia famiglia. Posso venire ad aiutarla all’Università? Faccio orario da ufficio gratuitamente… Gli dissi sì. Ma dopo tre mesi lo mandai via. Voleva creare un ordine manageriale anche tra i miei collaboratori. E così sarebbe crollata tutta la produttività creativa della cattedra. 


Che ripercussione avrà l’ozio creativo sul sistema politico? 
Dipende dall’intelligenza con cui si vivono le innovazioni. L’umanità non ha sempre guardato al progresso come a un’epoca migliore della precedente. Per molti millenni si è creduto l’opposto. Basti pensare alla mitizzazione dell’età dell’oro. Il concetto di progresso vero e proprio è arrivato con l’Illuminismo. Ad ogni modo, esistono vari filoni. 

Quali?
Pensatori come Giambattista Vico ritengono che la storia umana non realizzi un processo lineare ma si compia in corsi e ricorsi, che non comportano il ripetersi di accadimenti individuali ma il ritorno di analoghe forme storiche. Se in passato ammazzavo con la baionetta una persona per volta, oggi con la bomba atomica ammazzo centinaia di migliaia di persone in pochi secondi. Poi ci sono autori come Comte, che vedono il progresso come un processo continuo. In effetti, la vita media nel corso dei secoli si è sempre allungata, anche se ha avuto delle regressioni, come in Russia dalla caduta del muro di Berlino in poi. E infine c’è chi dal progresso tecnologico è intimorito. Per Heidegger la tecnologia è uno spavento continuo, che ci imprigiona e ci incatena. Sono tante le persone oggi che guardano allo sviluppo tecnologico come alla dissoluzione dell’umano e alla fine dell’emotività. Spesso durante le interviste mi domandano che cosa penso della tragedia del social network… La tragedia! Sono analogici. E sono terrorizzati.

Secondo la diagnosi heideggeriana l’agire tecnico è l’ultimo gradino del progetto occidentale di dominio sulla natura e del suo sfruttamento.  
Io non ho conosciuto Heidegger, anche se mi sarebbe piaciuto. Sono certo che lui non sapesse guidare l’automobile… Se Heidegger avesse saputo gestire la tecnica, non avrebbe avuto paura! Ieri parlavo con un amico che ha recentemente subito una operazione chirurgica molto delicata al cuore. La tecnologia gli ha salvato la vita. Bisogna vedere cosa si prende della tecnologia. 

E a chi dice che siamo schiavi di questi prodotti, lei cosa risponde?
No, non si è schiavi dei prodotti. Si è schiavi della propria ignoranza. 

L’ozio oggi va spesso nella direzione del gioco. Anche del videogioco…  
Ma anche il videogioco è bello. Chi non lo fa pensa sia brutto. Come il sesso. Per chi non lo fa è pornografia… Punti di vista!

Abbiamo parlato di tempo libero in relazione al lavoro. Ma c’è anche un altro tema. In Italia lo sfruttamento del lavoro è una caratteristica cronica del sistema. Qual è la sua posizione riguardo al salario minimo legale e al reddito di cittadinanza? 
Nel 2019, quando è entrato in scena il Reddito di cittadinanza, in Italia c’erano cinque milioni di poveri assoluti. Di questi cinque, un milione lavorava ma guadagnava talmente poco da essere di fatto povero al punto di avere bisogno di un sussidio per sopravvivere; un altro milione di persone avrebbe voluto e potuto lavorare ma non riusciva a trovare un impiego. E non si trattava di laureati ma, in gran parte, di persone prive di titoli di studio. Infine, c’erano tre milioni di persone, la fetta più grande, che non lavorava, era poverissima e non poteva neanche lavorare perché si trattava di minori, invalidi e anziani. Del milione di poveri che poteva lavorare ma non riusciva a farlo, 365.000 hanno trovato lavoro grazie ai navigator. Un buon numero. In Germania circa il 4% della popolazione è disoccupata e si contano 111 mila persone addette ai centri dell’impiego, con una spesa annua di 11 miliardi per mantenerli. In Italia ne spendiamo solo 780 milioni. Siamo ancora lontani e disorganizzati rispetto ad altri paesi europei, abbiamo vecchi computer e banche dati regionali invece che nazionali. Il reddito di cittadinanza è ovunque, in Germania c’è più da più di dieci anni. In Italia è stato criticato da tutti, dalla destra, dalla sinistra e persino dalla chiesa cattolica benché sostituisca quello che nel mondo cattolico era la carità, basandosi sul concetto che chi ha più soldi deve aiutare chi altrimenti morirebbe di fame. 

Un altro tema del presente che forse dice qualcosa del futuro è la cancel culture. Lei cosa ne pensa? 
Tutti subiamo il fascino della cancel culture. Mettiamoci per un attimo nella macchina costruttiva della manipolazione. Immaginiamo che io sia il proprietario della Coca-Cola... Come la costringo a bere Coca-Cola ovunque lei vada? L’opzione migliore è ingaggiare un sicario in ogni bar, dove lei è costretta a ordinare la Coca-cola oppure viene uccisa. Il mio obiettivo è ottenere che lei abbia un sicario nella sua testa che sia efficace come quello vero, ma che mi costi meno. Così invento la manipolazione tecnica. E così so che lei chiederà la Coca-Cola e non la Pepsi-Cola… Come diceva Ivan Illich, noi abbiamo sete di Coca-Cola. Io so che la sua personalità, le sue scelte dipendono da una serie di spicchi. Alcuni sono razionali, come le conoscenze e le abilità, altri sono di carattere emotivo, come le opinioni, i sentimenti, gli atteggiamenti e le emozioni. Io devo cambiare questi sei spicchi in modo che lei ogni volta che va in un bar chieda la Coca-Cola. Devo metterle in testa che la Coca-Cola non fa male, che contiene pochi zuccheri e disseta più di ogni altra cosa. Posso modificare la ragione attraverso appelli emotivi, come la musica, la sensualità, i colori, i movimenti… Il filmato me lo consente! Ma io devo arrivare a farle capire che la Coca- Cola è la bevanda migliore possibile. Scindo la Coca-Cola in una serie di pulsioni. A partire da quella sessuale. 

Ma cosa c’entra la Coca-Cola con la sessualità? 
C’entra. Per esempio, tutta la pubblicità della birra è stata associata al volto di una donna che rimanda all’erotismo orale. Il cavallo è un organo sessuale maschile mentre il mare è un organo sessuale femminile. Io non posso far vedere un amplesso a una persona schiva rispetto a queste cose. Ma se le mostro un cavallo che corre sulle rive del mare, lei non lo sa ma ha visto un atto sessuale. Ecco, questo è un fenomeno da bloccare, ma per farlo devi bloccare il neo-liberismo. E qui arriviamo all’economia.

Parliamo di manipolazione e sessualizzazione. I giovani, oggi, sono particolarmente attenti a certi temi: un esempio è la questione ambientale. Allora le chiedo, Greta Thunberg è un soggetto erotizzante? 
Non è tutto sesso! Greta Thunberg è perfetta proprio perché non suscita desideri di questo genere. Al contrario, genera sentimenti universali piuttosto che soggettivi. Non penso che Sophia Loren sarebbe stata in grado di portare così tanta gente in piazza. Proprio questo suo essere minuta, apparentemente inadeguata ad una missione universale, la rende adatta. È una diva. E il divo è Dio. Dove c’è infatuazione c’è religione. 


Che opinione ha delle nuove generazioni? 
In quarantadue anni di insegnamento, ho sempre trovato le generazioni successive migliori di quelle precedenti. Quando le persone mi parlano dei giovani in termini spregiativi, in realtà hanno il figlio cretino e pensano quindi che tutti i giovani siano cretini. Le nuove generazioni si sono liberate di tutta una serie di tabù. Quando io avevo vent’anni passavo parte della mia giornata a capire come portarmi con l’altro sesso. I giovani hanno risolto il grande tabù relativo all’eros. E sono più colti. 

Eppure si sentono distanti da concetti come nazione, patria, popolo. È un fatto positivo? 
Direi che sono più vicini al concetto di Europa e di mondo. Il concetto di patria è un valore ridotto, utile nelle epoche in cui lo stato nazionale era fondamentale. Oggi non possiamo essere solo patria, dobbiamo essere continente. Dobbiamo sentire come patria il mondo. Questo significa che i poveri non sono solo sotto casa, ma anche in Africa o in Sud-America. Occorre un’altra ottica della solidarietà. 

Qual è il futuro della democrazia rappresentativa? 
La democrazia rappresentativa, per essere possibile, necessita di alcune condizioni proprie del sistema ateniese. Non parliamo certamente di un sistema perfetto: Socrate si è dovuto ammazzare. Durante quell’esperienza, però, il cittadino era incardinato nella gestione della cosa pubblica e quindi co-interessato alla cosa pubblica più che in altri periodi storici. Il parlamento ad Atene contava 23.000 persone. Nella democrazia ateniese i cittadini non eleggevano i rappresentati per votare la legislazione a loro nome, ma votavano essi stessi su proposte e iniziative. Rispetto alla cultura, ad oggi, gli analfabeti sono quasi inesistenti. Ormai il 23% della popolazione è laureata, con picchi del 70% in zone come la Silicon Valley, e probabilmente in qualche anno arriveremo al 100%. Siamo in grado di parlare con un amico che si trova in Brasile senza il minimo sforzo. Man mano che la dimensione culturale e gli strumenti tecnologici ci permetteranno di agire come se fossimo ad Atene, non attuare la democrazia diretta sarebbe un modo per imporre l’oligarchia. Naturalmente non saranno tutti i cittadini. Anche ad Atene su una popolazione avente diritto al voto di 40.000 persone, votavano in 23.000. L’astensionismo al 40% era ammesso, era scontano, non ci si meravigliava. Sono dell’idea che grazie alle tecnologie avremo la possibilità di conoscere momento per momento il parere delle persone.

A cosa ha portato la realtà virtuale? 
Ad un nuovo modo di trasmettere la cultura. Nel corso della nostra civiltà abbiamo aggiunto diversi livelli di interazione e ideazione. La scoperta della scrittura ha messo in comunicazione due individui lontani tra loro. Un fatto rivoluzionario! Dopo 4.300 anni, è arrivata la stampa che ha consentito la divulgazione non più tra due individui, ma tra una moltitudine. La cultura attraversa tre fasi: da pochi a pochi, da pochi a molti e da molti a molti. L’ultimo passaggio lo sperimentiamo adesso con Wikipedia. Chi utilizza Wikipedia? Chi scrive su Wikipedia? Tutti. È un passaggio storico, il passaggio della cultura da molti a molti.

È un tipo di intelligenza collettiva? 
Esattamente. La creatività di gruppo è una sintesi di fantasia che si concretizza. La fantasia crea delle idee, che senza la concretezza rimango solo idee. Pensi alla Cupola di San Pietro. Non consiste solo nell’averla disegnata, ma nell’aver cercato i fondi, trovato i fabbri, i falegnami, i muratori… Quando Michelangelo Buonarroti muore a 90 anni, la cupola non è ancora stata iniziata. Serve concretezza oltre che fantasia. Mentre in America perfezionavano il lavoro esecutivo creando la catena di montaggio, in Europa veniva sperimentato il lavoro creativo di gruppo, piuttosto che quello esecutivo. Questa è stata l’esperienza di Fermi con i ragazzi di Via Panisperna, di Klimt con la secessione viennese, della Bauhaus e così via. Noi abbiamo inventato il gruppo creativo. Basti guardare alla Vienna di inizio secolo, alla Firenze dei Medici, alla Roma felliniana, all’Atene di Socrate…

Jeff Bezos ed Elon Musk sono i “geni” di oggi? 
Nel loro campo, certo. Oggi abbiamo un nuovo tipo di intelligenza. Si può essere geni in ogni settore dell’intelligenza umana. Beethoven e Mozart erano dei geni ma come vicini di casa dovevano essere un incubo.

Musk e Bezos, poi, rappresentano la rivincita di Icaro. Sono slanciati verso lo Spazio.
È la rivincita degli ingeneri. I greci odiavano il concetto di perfezione perché propria del mondo degli dèi, la perfezione esisteva solo nel mondo astrale. Gli uomini che tendevano ad essere perfetti erano blasfemi, volendo imitare gli dèi. Ma chi sono gli uomini che vogliono essere perfetti? Gli ingeneri. Icaro era un ingegnere aeronautico e veniva punito, così come Ulisse che era un ingegnere navale o Prometeo che era un ingegnere metalmeccanico. Tra la civiltà greca e la nostra ci sono stati personaggi come Galileo, Bacone, Newton, Cartesio che hanno ricercato la precisione. Quella precisione che ci consente di sviluppare le scienze e le tecnologie trascurate fino ad allora. Perché ad esempio la scienza greca, scopritrice di fondamentali principi poi applicati trionfalmente dalla fisica moderna, non ha cercato di tradurli in innovazioni tecniche. Secondo Aristotele tutto ciò che era da scoprire per il benessere umano era stato scoperto e bisognava dedicarsi al progresso dello spirito. I greci non incrementarono la tecnologia di una virgola. Come i romani, d’altronde. Queste due civiltà straordinarie portarono avanti il progresso dello spirito in un modo tale per cui ancor oggi dobbiamo fare i conti con figure come Aristotele, Zenone, Parmenide, Platone. Qualche secolo dopo, Francesco Bacone guardava alla filosofia greca come chiacchere di vecchi rimbambiti a giovani squattrinati. Così chiuse tutti i licei classici, incrementò gli istituti tecnici, finanziò le fabbriche, e pose quindi le basi della società destinata a nascere un secolo dopo: la società industriale. Lì inizia la mania della precisione e della velocità che i greci rifiutavano. Noi meridionali siamo ancora imprecisi, lenti e incapaci di organizzarci perché siamo Magna Grecia. Quell’imprinting resta. Non potremmo mai essere veloci e precisi come uno svizzero.