Tre novità nella formazione del Governo

Di Paolo Armaroli

15 febbraio 2021

La formazione del governo Draghi presenta diverse novità, tutte di un certo rilievo. La prima riguarda il Quirinale. Dopo la fallita esplorazione del presidente della Camera Roberto Fico, il 2 febbraio Sergio Mattarella esclude per il momento il ricorso a elezioni anticipate e rivolge un appello a tutte le forze politiche perché conferiscano la fiducia a un governo “di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Come dire: è il Parlamento che concede la fiducia al governo, ma sarò io in assoluta solitudine, senza ulteriori consultazioni, a decidere a chi affidarne l’incarico. E appena il giorno dopo, 3 febbraio, l’inquilino del Quirinale fa uscire Mario Draghi dal proprio cilindro. Come Giove partorì Minerva dalla propria testa.

Abbiamo non solo un governo del Presidente, come sono stati i ministeri Pella, Tambroni, Ciampi, Dini, Monti. Ma ci ritroviamo in sostanza un potere esecutivo bicefalo come l’aquila bicipite. Con due teste: quella di Mattarella e quella di Draghi. Come accade nella Francia della Quinta Repubblica. La fisarmonica del Colle, per usare la bella espressione di Giuliano Amato, si è dilatata a dismisura non a caso. Perché questi sono tempi eccezionali e Mattarella si è visto costretto a indossare i panni del presidente interventista suo malgrado. Facendo violenza alla propria indole.

La seconda novità concerne la Costituzione. Dopo tempo immemorabile si è registrato un ritorno alla lettera e allo spirito della Legge fondamentale della Repubblica. Una eco, ma con tutt’altro spirito, del Torniamo allo Statuto di Sidney Sonnino, pubblicato sulla Nuova Antologia del 1° gennaio 1897. Non era scontato, dopo che nel corso dell’esplorazione di Fico i partiti pretesero di fare tutto da soli: programma e squadra di governo. Con tanti saluti al prossimo presidente incaricato, fosse Giuseppe Conte o qualsiasi altro. Per una volta tanto è stato fatto cantare a dovere il famoso articolo 92, finora violato più della vecchia di Voltaire. Che recita: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Così come di sicuro Draghi si avvarrà del successivo articolo 95. Sarà lui a dirigere la politica generale del governo senza essere comandato a bacchetta, come un qualsiasi re Travicello, da Sua Maestà la Partitocrazia.

La terza novità riguarda il cosiddetto manuale Cencelli, che per decenni è stato più compulsato delle celeberrime Istituzioni di diritto pubblico di Costantino Mortati. Cencelli, chi era costui? Un funzionario della Dc famoso per mettere a ogni formazione del governo sul bilancino del farmacista partiti e correnti di partito, misurarne il peso e spartire le spoglie. Tant’è che Forattini in una vignetta immaginò un socialista che irrompe nella stanza di Bettino Craxi per dirgli: “I colonnelli hanno fatto un colpo di Stato”. E l’altro: “E a noi quanti ne toccano?”. Il predetto manuale non è del tutto scomparso ma ha avuto una provvidenziale evoluzione. Una volta erano i partiti a imporre i propri uomini al presidente incaricato. Mentre Draghi, tra silenzi e poche parole degne della Sibilla cumana, ha ascoltato tutti ma poi ha fatto di testa sua. D’intesa, si capisce, con il capo dello Stato.

Non è finita. Come chiedeva Mattarella, adesso abbiamo un governo di alto profilo che non si identifica in nessuna formula politica. La verità è che Draghi si confronta con tutti ma non si confonde con nessuno. Si obietterà che Massimiliano Cencelli cacciato dalla stanza dei bottoni è rientrato dalla finestra. Perché i rappresentanti dei partiti sono quasi il doppio dei tecnici. Ma, per cominciare, questi ultimi – per usare il lessico delle istituzioni britanniche – costituiscono un “inner Cabinet”, un gabinetto ristretto, di assoluta fiducia dell’inquilino di Palazzo Chigi. E i rappresentanti dei partiti sono stati scelti con oculatezza da Draghi. E a ragion veduta. Di continuo avvalendosi della saggezza del capo dello Stato. Del resto, non se ne sarebbe potuto fare a meno. Perché, piaccia o no, la nostra è una forma di governo parlamentare caratterizzata dal rapporto fiduciario tra potere esecutivo e legislativo. Perciò l’immissione di politici, ma con giudizio, rappresenterà per Palazzo Chigi un elisir di lunga vita.