We are the champions. Ieri, oggi e anche domani. Ferrari presenta la nuova Daytona

21 dicembre 2021

Di Giovanni Vasso

We are the champions. Ieri, oggi e (si spera a Maranello) anche domani. Ferrari presenta la nuova Daytona, il secondo modello del progetto “Icona” che punta a far rivivere, in chiave contemporanea, i più grandi modelli della storia del Cavallino Rampante. 
Cover, dunque. Come accade per la (grande) musica. Oggi va così, anche perché superare certi “classici” è impresa a dir poco disperata. Ma la rivisitazione, la reinterpretazione è sempre personale, moderna e “propria”. La nuova Daytona non è la pedissequa riproduzione di quel gioiello meccanico che celebrò il trionfo, totale e irripetibile, alla 24 Ore americana, a casa del signor Ford. Così come, a proposito di musica, Brian May e Roger Taylor con Adam Lambert front-man non sono stati certo la pedissequa riproduzione né di loro stessi (almeno per May e Taylor) né degli immortali Queen. Non ci sono più Enzo Ferrari e Freddie Mercury. Ma la loro immensa eredità è bene prezioso: da tutelare e conservare, certo. Ma, soprattutto, da coltivare, giorno per giorno. 
Cover, in italiano, può rendersi con copia. Ma se ne banalizzerebbe il senso: meglio “tributo”, come si diceva negli anni ’90. Il senso è quello di rendere omaggio a una storia immortale, di prenderla come punto di riferimento e tentare di portarsela nel futuro. Così nascono i simboli, nascondono grandezze. 
La Ferrari nacque 365 GTB/4. Non sapeva ancora nessuno che sarebbe diventata “Daytona” perché tre Cavallini rampanti (e infuriati) avrebbero occupato primo, secondo e terzo posto alla 24 Ore sul circuito americano del 1967. E lo avrebbero fatto dominando la competizione e riproducendo sul traguardo, a mo’ di delizioso sberleffo, la stessa identica “parata” messa in scena dalla Ford, a Le Mans un anno prima, per celebrare un trionfo per cui la casa statunitense s’era letteralmente svenata.


L’immagine delle tre “Rosse” punzonate 23, 24 e 26 che si tengono come per mano all’arrivo, mentre le sei Ford sono irrimediabilmente attardate e in tribunetta i dirigenti si mangiano il cappello come Rockerduck, è diventata negli anni uno dei simboli più alti e significativi dell’epica sportiva. Un po’ come, dal rock, “We are the Champions” è diventata l’inno sportivo per eccellenza. A prescindere dalla disciplina, dai colori, dalle storie. I Queen cercavano una hit che li riportasse in alto dando loro la possibilità di “dialogare” e coinvolgere il pubblico ai concerti, così come a Maranello cercavano una macchina che restituisse al Cavallino l’orgoglio di tornare a essere i primi al mondo. Entrambi finirono per (ri)scrivere la storia dello sport. 
La nuova Ferrari Daytona SP3, dunque, è un omaggio a quella storia di orgoglio e passione. È sospinta da un motore V12 da 6,5 litri da 840 cavalli. In posizione centrale e posteriore. La potenza è esplosiva: da 0 a 100 in 2,85 secondi, poco più di sette secondi per arrivare da 0 fino a 200 km/h. È capace di raggiungere una velocità pari a 340 km/h. 
Le linee dell’auto promettono prestazioni aerodinamiche passive da pista. Le forme sono moderne, nette e armoniche. La versione moderna di un classico che già aveva, più o meno, scritto una pagina di storia in netto anticipo sui suoi tempi. Perché quelle forme ruvidamente spigolose eppure morbide già disegnate dagli stilisti che s’inventarono quel gioiello della 365 GTB/4, le avevano donato un aspetto che non invecchia col tempo. Una scelta per stare al passo coi tempi finì per dominare le mode. Un po’ come il riff di Another One Bites the Dust.


L’idea degli interni si ispira allo spartano tipico delle corse. In particolare quelle degli anni ’60. Chiaramente è un’ispirazione, in ossequio alla quale spariscono inutili orpelli, i sedili diventano “materassini sellati”. Ma tutte le strumentazioni disponibili sono ovviamente ultramoderne e altamente tecnologiche. Tra le novità corsaiole, l’integrazione dei sedili nel telaio. Che, è naturalmente in fibra di carbonio. Leggerezza e flessibilità. 
Non ci si avvicina a un mito senza il dovuto rispetto. Reinterpretare un classico è impresa ostica. Costringe a fare i conti con la storia. Non solo la propria. Ferrari fa i conti, ogni giorno, con la storia dell’automobilismo e dello sport. Così come, su un altro piano dell’esistente, i Queen fanno i conti con la storia della musica e del costume. Enzo Ferrari e Freddie Mercury non ci sono più. Ma è stato grazie a loro se milioni di persone, a Monza o a Wembley, hanno cantato “We are the Champions”. E l’avrebbero, di sicuro, cantata anche a Daytona se solo la canzone non fosse stata pubblicata solo dieci anni più tardi, nel 1977.
Non semplici cover, dunque. Ma tributi. E tributare il giusto omaggio a chi ha scritto la storia (di tutti) è doveroso.