17.12.2019 Giovanni De Gennaro

Aerospazio, Difesa e Sicurezza. Orgoglio italiano

Alla fine del II millennio a. C., in Egitto, il tessitore Hapù pubblica in un papiro un annuncio di ricerca di uno schiavo fuggito offrendo una taglia. Con l’occasione scrive questa frase: «Il negozio del tessitore Hapù, dove si tessono le più belle tele di tutta Tebe, secondo il gusto di ciascuno»

Questa è – presumibilmente – la prima forma di comunicazione di impresa in cui l’imprenditore dimostra conoscenza del prodotto, attenzione al target, capacità di sintesi e sfruttamento del canale in chiave moderna. Hapù, insomma, addita il ricercato ma nel frattempo comunica la speciale qualità della propria bottega. La comunicazione è una relazione le cui regole sono rimaste immutate per lungo tempo, salvo poi conoscere una vera e propria rivoluzione nel corso degli ultimi venti anni. Da Hapù ai praecones romani – quei banditori pubblici che inserivano informazioni pubblicitarie tra gli editti – fino a “Carosello” o agli uffici stampa, il passo concettuale è breve perché la comunicazione si consolida come primaria leva di business per trasmettere all’esterno un’immagine positiva di un’azienda.

Più affascinante è invece il percorso della Pubblica amministrazione dove l’Italia ha sperimentato un processo virtuoso in cui istituzioni e accademia hanno avuto la lungimiranza e la velocità esecutiva che hanno consentito alla PA di transitare verso le nuove forme di comunicazione. Il concetto chiave della comunicazione istituzionale, nei suoi propositi di trasparenza totale è l’accountability. La trasparenza – in questo scenario – costituisce un principio cardine, di natura morale, sociale e culturale e non solo giuridica.

Con l’affermazione dei media digitali, l’evoluzione lineare della comunicazione diventa esponenziale e la dinamica della conversazione diventa puntiforme. Tanto l’impresa quanto le istituzioni sono costrette ad adattarsi a un sistema aperto ed elastico rivolto a una molteplicità di interlocutori. Sono 35 milioni le persone attive sulle piattaforme social in Italia, di cui 31 milioni quelle che accedono da un dispositivo mobile. Sui social network si trascorre in media un tempo superiore alle due ore al giorno. Questi numeri rappresentano in modo chiaro la pervasività della comunicazione dei nostri tempi, definita dall’acronimo ATAWAD (Any Time, Any Where, Any Device). Come osserva lo storico del cinema Gianni Canova, anche lo sguardo è cambiato. «L’uomo digitalizzato – chino sul display – ha rinunciato alla visione d’insieme e ha sviluppato invece l’occhiuta attenzione del cecchino».

Distratti, veloci e infedeli. Questo sono oggi gli utenti dei social network. Veloci nel farsi opinioni e infedeli verso i prodotti anche perché possono compararne i prezzi in tempo reale. Evidenti sono le ricadute sulla comunicazione di impresa. Costituisce allora elemento di salvaguardia il posizionamento chiaro del brand coerente con l’identità profonda di un’azienda. Il brand è il significante e il significato dell’azienda, la promessa raccontata agli stakeholders che agisce da collegamento verso l’esterno e da collante tra i dipendenti. La narrazione diventa l’invincibile strategia. Gli stakeholders tutti, dal cliente all’investitore, anche in assenza di competenze tecniche, per scegliere avranno una guida sicura: il brand.

Il mondo dell’impresa però è estremamente diversificato. Alcune attività imprenditoriali, per loro natura, interagiscono con i cittadini offrendo beni di prima necessità e quindi di funzione pubblica: sono le aziende del settore energetico e quelle che gestiscono beni primari, come l’acqua o i trasporti. In un quadro così articolato va a inserirsi l’ulteriore specificità di un settore industriale che è un unicum: l’industria dell’aerospazio e della difesa, un settore industriale che ha come clienti governi e istituzioni e che opera in un mercato oligopolistico caratterizzato da dinamiche internazionali che influenzano fortemente il business. Un settore, questo, su cui insiste talora un pregiudizio negativo di parte dell’opinione pubblica. Aerospazio, difesa e sicurezza, per troppo tempo, sono stati relegati nell’immaginario collettivo solo allo stretto ambito dell’industria militare, tanto da farli considerare quasi come un male necessario e talvolta come un business da contrastare.

Ma resta sempre valido il monito di Niccolò Machiavelli: «[…] il Principe non ha scelta perché le armi o se le fabbrica o è costretto ad acquistarle».2 Per sua natura la sicurezza è il pane di consumo quotidiano della collettività. Produce la libertà dalla paura, uno dei presupposti del contratto tra Stato e cittadino, ma se dalla fine della seconda guerra mondiale abbiamo considerato la sicurezza come un qualcosa di garantito (pensiamo agli Stati Uniti nel contesto della NATO) e di cui ci si poteva in fondo disinteressare perché le minacce erano remote e non immanenti, oggi la situazione internazionale è cambiata. La sicurezza è diventata, infatti, un bene che si consuma quotidianamente e va quindi prodotto, con costi elevatissimi – e senza che nessuno sia più disposto a metterla a disposizione gratuitamente – perché siamo chiamati ad affrontare minacce ibride e asimmetriche, mentre tornano a presentarsi gli spettri di minacce convenzionali ad alta intensità. Nella realtà le industrie della sicurezza sono ancora percepite come qualcosa che si fa, ma non si dice e che occorre ingentilire con “piroette lessicali”.

In paesi come gli Stati Uniti le aziende che si occupano di difesa comunicano senza reticenze e con orgoglio il proprio ruolo. Così accade in Russia, in Cina e in molte nuove potenze, dalla Corea del Sud all’India. La situazione cambia in Europa. Se in paesi come Regno Unito o Francia – e anche in Svezia – le aziende del settore non si auto-vincolano nella comunicazione, in Germania invece, e in Italia ancor di più, c’è un atteggiamento critico che lambisce talora anche le stesse Forze armate.

Un recente studio congiunto dell’Istituto Affari Internazionali e dell’Università di Siena evidenzia come l’opinione pubblica abbia un atteggiamento di favore verso le Forze armate solo per missioni che non sono tipicamente di loro specifica competenza. Come nelle mobilitazioni di emergenza per le catastrofi naturali. Il valore intrinseco dell’industria dell’aerospazio e della difesa per l’intero sistema paese non è noto all’opinione pubblica. E le aziende del settore devono rivendicare senza reticenze il proprio ruolo nel contesto nazionale.

È, infatti, un segmento industriale in cui l’Italia occupa la nona posizione, preceduta – nella classifica mondiale – solo da Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Germania, Francia, India, Russia e Giappone. Nel nostro paese aerospazio, difesa e sicurezza valgono 13,5 miliardi di euro, di cui 9 miliardi derivanti dall’export. L’Italia è il quinto paese al mondo per export cumulato nel decennio 2007-16, pari a 23 miliardi di dollari. Gli occupati diretti sono oltre 45.000, ma salgono a 160.000 se si considerano anche gli occupati indiretti e dell’indotto. Un comparto fondamentale che si traduce in occupazione qualificata, in esportazioni ad alto contenuto tecnologico, in elevata intensità di conoscenza e di ricerca con contributi diretti, indiretti e indotti per le economie territoriali dell’intero sistema paese.

Secondo recenti studi (Ambrosetti 2018, Prometeia 2015-17), globalmente, il settore aerospazio, difesa e sicurezza vale 925 miliardi di euro di fatturato annuo (406 miliardi nei soli Stati Uniti, 230 in Europa, 88 in Cina e oltre 21 in Russia). È un comparto inoltre che ha resistito bene anche nei periodi di crisi. Rispetto a una crescita media annua negativa (–0,01%) dell’industria nel suo complesso, l’aerospazio, difesa e sicurezza sono cresciuti del 5,5% negli ultimi dieci anni. E lo stesso può dirsi del numero di dipendenti, aumentati del 2,7%, contro il –1,4% della manifattura complessiva.

Avere una propria industria dell’aerospazio e della difesa significa per l’Italia non dover dipendere necessariamente dalla tecnologia e dai prodotti stranieri e dalla disponibilità di altri paesi. L’Italia possiede buona parte di quelle competenze tecnologiche distintive che le permettono di sedere nel salotto buono dei “grandi”. Ed è un fatto che l’industria dell’aerospazio e della difesa è un presupposto della sovranità e misura il peso sul proscenio. Nessun altro settore indirizza le scelte di procurement in relazione alla politica estera o di sicurezza. A ciò si aggiunge che la capacità di trasformare la tecnologia in prodotti di più ampio consumo è il connotato distintivo di questa industria, tanto da diventare un fattore rilevante anche nello sviluppo sociale.

Produrre alta tecnologia però costa molto. È quindi una naturale conseguenza che gli investimenti nel settore dell’aerospazio e della difesa siano necessariamente pubblici. I cicli di investimento in un settore a così alta intensità di tecnologia hanno una durata tale da essere sostenibili solo nei piani di investimento pluriennali propri di uno Stato e, in particolare, di quelle aree della PA in cui vi è capacità di visione geopolitica.

Il prodotto dell’industria della difesa vive nella storia degli uomini. A Galileo Galilei interessava osservare la Luna e i pianeti, ma trovò i finanziamenti necessari per lo sviluppo del cannocchiale solo offrendolo al Doge di Venezia come potente strumento militare. Il più grande degli inventori, Archimede – con la sua lente sul mare di Siracusa e con la leva che solleva il mondo –, fu in realtà un grande stratega.

Che internet derivi da reti di comunicazione industriali/militari è cosa nota. I sistemi di navigazione satellitare ci accompagnano in auto come sul nostro telefonino. E se l’Europa ha un suo sistema di posizionamento e navigazione satellitare è grazie al sistema europeo “Galileo”. Le biciclette in carbonio, le protesi mediche in materiali avanzatissimi derivano da tecnologie sviluppate da e per l’industria aerospaziale e militare. Le nuove automobili private che troviamo sul mercato sono zeppe di soluzioni che, dopo magari decenni, arrivano ai consumatori migliorandone la vita: radar, sensori infrarosso, materiali compositi, leghe metalliche leggere e resistenti. Tutto ciò non è esattamente percepito dal grande pubblico. È un ruolo delicato quello dell’industria della sicurezza, che necessita di racconto per “comunicare” ciò che l’Italia realizza con questa sua industria: i sistemi ad alta tecnologia destinati alla protezione del paese.

C’è una società di telecomunicazioni a capitale svizzero che per la propria pubblicità utilizza il mito delle Frecce tricolori. Nulla osta. È il mercato. Ma la flotta delle Frecce tricolori è composta oggi dagli aerei Aermacchi MB-339 e domani dagli M345 di Leonardo! E molti, che pur ammirano le acrobazie e le esibizioni di quell’orgoglio nazionale che sono le Frecce, non sanno che quegli aerei che regalano loro intense emozioni, nell’essere l’esito che salda insieme il genio di Leonardo da Vinci, Galileo Galilei e Guglielmo Marconi, sono anche il risultato di una collaborazione virtuosa tra industria e aeronautica militare.

Così come il tricolore fa da livrea agli aerei delle Frecce, abbiamo deciso che in tutti gli stabilimenti italiani di Leonardo sventolerà il tricolore, a significare concretamente che coloro che lì lavorano sono, con orgoglio, al servizio del loro paese e della sicurezza dell’Italia. Anche questa è comunicazione istituzionale e di impresa.