Cento anni per un'anima

12 dicembre 2022

Di Vincenzo Filosa

Secondo un’antica credenza giapponese, quando barattoli, contenitori e strumenti di vario genere raggiungono i cento anni di servizio presso una famiglia acquisiscono un’anima, diventano tsukumogami. Per questo motivo, in molte dimore era usanza approfittare delle pulizie di fine anno per disfarsi degli attrezzi giunti al novantanovesimo anno di utilizzo. Abbandonati dai loro proprietari, gli utensili spettro si aggirano per le strade e i vicoli di tutto il Giappone ormai da secoli e ci ricordano dell’intenso legame che unisce i giapponesi a tutte le cose, quelle che si trovano in natura quanto quelle partorite dall’ingegno umano. A incuriosire, in primo luogo, è la complessa componente spirituale che caratterizza questo rapporto. La riverenza e l’estrema attenzione con cui il popolo del Sol Levante è solito interagire con utensili e arnesi risale ai tempi antichi: vengono in mente quelle professioni artigianali rispettate al punto da assurgere allo status di “mestieri-culto”. Lo scultore Toshio Odate ci ricorda, in un saggio del 1991, che «per un artigiano (…), gli strumenti non sono semplici cose ma possiedono un’anima», evidenziando quanto nel rapporto profondo che unisce i giapponesi agli utensili influisca in maniera determinante il rispetto con cui da sempre considerano alcune professioni artigianali. Ma la natura “umana” degli tsukumogami e in generale la qualità spirituale attribuita a ogni cosa in natura, deriva principalmente dalla sovrapposizione ideologica tra lo shintoismo giapponese e gli insegnamenti delle dottrine buddiste giunte successivamente nel paese del Sol Levante. Le antiche credenze animiste ponevano al centro del culto i Kami, entità divine che si manifestano spontaneamente nel mondo terreno e dimorano nei luoghi della natura, ma anche nei prodotti dell’ingegno umano: spade e specchi in primo luogo, poi giare, sandali, ombrelli e altri oggetti di vario genere. Il concetto di pensiero illuminato originario buddista sostiene che ogni essere, sia esso animato e inanimato, racchiude in sé la conoscenza del Buddha e per questo può, anzi deve, essere trattato con il massimo riguardo.

Qui e a seguire: Tsukumogami, Marco Dapino, 2017, Tokyo

La percezione di una natura “animata” da parte della popolazione giapponese è ben documentata in ambito letterario. Esemplare, in questo senso, sono i ritratti spiritosi e immaginifici dello “Tsukumogami ki” (Cronache degli tsukumogami), libretto d’accompagnamento scritto da monaci buddisti in epoca Muromachi (1336-1573) che racconta le avventure di una variegata gang di tsukumogami. Parliamo di spiriti maliziosi, mossi da cattive intenzioni: accecati dal rancore verso i vecchi padroni, rapiscono uomini e animali di cui poi si cibano e spendono le loro giornate a bere e a giocare d’azzardo. È anche vero, però, che alcuni di essi sarebbero capaci di redimere la loro natura malvagia per raggiungere l’illuminazione e, di conseguenza, lo stato di Buddha attraverso gli insegnamenti della dottrina buddista esoterica Shingon. Questa favola umoristica di intento didascalico dipinge i suoi personaggi donando loro una complessa caratterizzazione che rispecchia il sofisticato tormento emotivo in genere attribuito a esseri umani o altre creature senzienti.
Sebbene sia innegabile che il panorama spirituale giapponese contemporaneo abbia subito trasformazioni considerevoli, l’intenso legame che unisce uomini e cose è ancora profondo e assume contorni sempre più sfaccettati. Nell’immediato dopoguerra, l’ascesa della nuova cultura popolare ha rappresentato un terreno fertile su cui ridisegnare i confini della percezione che gli uomini hanno degli oggetti con cui interagiscono. Dopo un periodo di “assenza forzata” favorito dal governo giapponese, shintoismo e buddismo hanno ritrovato il loro posto nell’ambito del dibattito spirituale. A partire dagli anni Sessanta, per esempio, sulle pagine delle riviste manga più diffuse tra i ragazzi si verifica un ritorno all’animismo partendo dal recupero di creature e leggende della tradizione giapponese operato da un gruppo di abili mangaka capitanato dal leggendario Shigeru Mizuki. Le illustrazioni maestose raccolte nella sua “Enciclopedia degli Yokai” rivitalizzano e aggiornano l’immaginario di creature e oggetti animati proprie del folklore giapponese, lo catapultano nel paesaggio metropolitano dell’epoca e lo imprimono a fuoco nelle menti delle nuove generazioni, gettando le fondamenta per il successo interplanetario dell’impero del fantastico giapponese contemporaneo: ombrelli birichini, teneri grovigli di capelli emersi da docce poco pulite, pagine sparse che si librano danzando nell’aria come stormi di passeri, sono soltanto alcuni dei nuovi tsukumogami nati dalla contaminazione tra le antiche credenze e la nuova sensibilità figlia del processo di modernizzazione messo in atto nell’immediato dopoguerra.


Allo stesso tempo, il dilagante successo della letteratura scritta e sequenziale di genere fantascientifico dà corpo a una nuova forma ibrida di robotica umanizzata e prefigura inediti, incredibili scenari nella storia del rapporto tra l’uomo e le cose. Al contrario di quanto accaduto in Occidente, dove l’associazione tra automi e sintezoidi è da sempre accompagnata a visioni distopiche di un futuro privo di umanità, la comparsa dei robot di Karel Čapek in Giappone ispira la creazione di macchine senzienti caratterizzate da una spiccata sensibilità: da “Tetsujin 28” a “Neon Genesis Evangelion”, i mecha sono prima di tutto difensori dell’umanità; nel classico “Galaxy Express 999”, un ragazzino intravede nell’unione tra uomo e macchina la soluzione ai suoi tormenti; “Tetsuwan Atom”, il Pinocchio cibernetico di Osamu Tezuka, ha ispirato centinaia di scienziati e ingegneri cresciuti leggendo le sue avventure tra gli anni Sessanta e Ottanta spingendoli a riconoscere un’anima alle macchine che aiutano a ingegnerizzare. In un saggio del 1982, il designer Masamoto Yamaguchi racconta della “casa di riposo” per vecchi elettrodomestici istituita nel centro di design industriale di Tokyo, in cui vecchi bollitori di riso trascorrono gli anni del tramonto in compagnia di macchine da cucire in disuso e altri utensili. Yamaguchi arriva addirittura a suggerire riti funebri in onore di anni di meritevole servizio per ispirare le future generazioni di macchine e gadget, richiamando alla mente un’usanza ancora oggi praticata secondo cui effetti personali e utensili di vario genere vengono portati in templi designati così che riposino per sempre in pace.


E come spesso accade in Giappone, l’immaginazione fa presto largo alla realtà: nel 2002, il tempio Banshō-ji di Nagoya celebra il primo rito funebre per computer, un pasokon kuyo ripreso in diretta televisiva; nel 2014 un nuovo servizio digitale inizia a offrire “Rohottoso”, cerimonie funebri per robot; nel gennaio dell'anno successivo presso il tempio buddista Kōfuku-ji di Isumi, si tengono i funerali di diciannove AIBO, animali domestici automatizzati prodotti da Sony. Ancora una volta, il buddismo si dimostra una dottrina capace di adeguarsi ai tempi e gioca un ruolo fondamentale nella dinamica che regola la percezione delle cose da parte dei giapponesi. Il teologo Fabio Rambelli sostiene che, secondo la sofisticata filosofia materialista sviluppata in ambito buddista, il reame terreno non è più un ostacolo alla ricerca di salvezza tramite illuminazione, ma produce altresì una dimensione in cui l’uomo può dare forma ai suoi concetti più profondi e religiosi.
Mentre il governo giapponese punta ingenti somme di denaro nella conversione “robotica” della società e della famiglia giapponese con iniziative visionarie come il progetto Innovation 25, ideato nella speranza di sopperire alla mancanza di manodopera senza ricorrere a manovalanza straniera, superare il calo di nascite e assistere al meglio una popolazione sempre più anziana, pare di assistere alla chiusura di un cerchio: le famiglie giapponesi che un tempo erano solite disfarsi di recipienti e strumenti per paura che da un momento all’altro prendessero vita, iniziano adesso ad abbracciare l’idea di convivere serenamente con presenze immaginarie reminiscenti di un lontano passato e compagni di casa completamente automatizzati per superare una crescente solitudine.