14.10.2022 Luciano Violante

Come curare la democrazia

Le democrazie si sono sviluppate nel mondo durante la guerra fredda tra il 1947, dopo la fine della seconda guerra mondiale, e il 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino.

In quella fase la competizione non riguardò solo lo sviluppo economico, le tecnologie e il sistema militare. Riguardò anche i diritti fondamentali, la libertà religiosa, la giustizia sociale. I sistemi occidentali diffondevano i beni di consumo, vantavano la potenza degli arsenali militari e sostenevano lo Stato di diritto o il welfare. Al centro c’era il modello capitalista. Il sistema sovietico esaltava l’alta tecnologia, la potenza militare e propagandava la libertà dal bisogno, il diritto alla scuola, alla casa, al lavoro. Al centro c’era il modello socialista. Il conflitto fu duro ma non insuperabile: nel 1964, per esempio, nonostante la guerra fredda, venne costruita dalla Fiat una grande fabbrica a Togliattigrad. Cominciò la occidentalizzazione del mondo. Un numero crescente di paesi sposò i valori portati avanti da Stati Uniti ed Europa. I paesi democratici, 44 nel 1977, diventarono 53 nel 1985 e 76 nel 1992.

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La caduta del Muro di Berlino, nel 1989, segnò il trionfo dell’Occidente e del modello capitalistico. Cessato il bipolarismo, le democrazie, sicure di una loro irrefrenabile espansione, diventarono superbe. Si considerarono modelli di governo perfetti, universali e irrinunciabili. La tesi della fine della storia, esposta in un saggio del 1992 di Francis Fukuyama, confermava l’opinione del primato ormai definitivo delle democrazie. Poi Fukuyama si corresse, dopo essere stato smentito dalla storia. Con l’arroganza, cominciò il declino. Abbagliati dal fascino del mercato e dall’utopia di una infinita globalizzazione capace di far progredire tutti dappertutto, la gran parte dei dirigenti politici delle democrazie non si preoccuparono di consolidare i valori che li avevano fatti vincere. In politica interna sacrificarono la giustizia sociale sull’altare dei limiti di bilancio e in politica estera sacrificarono i diritti umani sull’altare della Realpolitik.

Due illusioni sono state i principali fattori di questa trasformazione. Dopo la strage delle Torri Gemelle, nel 2001, il mondo occidentale adottò una idea militarista della promozione della democrazia, che comportava la possibilità della sua esportazione come fosse un bene di consumo, anche attraverso la guerra. Le vicende dell’Iraq e dell’Afghanistan hanno smentito quella idea. Prevalse, inoltre, la convinzione che l’espansione dei mercati avrebbe portato, come ineluttabile conseguenza, l’espansione delle libertà nel mondo. Sulla base di questo presupposto, nel 2001 è stato consentito alla Cina di entrare nel WTO. Anche in questo caso la previsione è stata smentita dai fatti. La Cina è cresciuta sui mercati globali, ha portato il proprio PIL a vette inimmaginabili e ha continuato a soffocare i diritti umani.

La spinta militarista e quella mercantile hanno prosciugato il processo democratico che, da sistema dinamico di civilizzazione delle società, è diventato pura tecnica di governo. Sono stati accantonati i diritti che hanno un costo – cioè quelli sociali – e sono stati riconosciuti, sempre più frequentemente, i diritti che apparentemente non costano, quelli alle libertà individuali, spesso senza una adeguata determinazione delle relative responsabilità.

Nel dibattito pubblico sono emerse formule politicamente corrette, e quindi false. Si usa, per esempio, l’ossimoro “democrazie illiberali”, che ci evita la fastidiosa preoccupazione di essere complici involontari di un’involuzione delle democrazie. Chiamiamo i dittatori “autocrati” termine meno impegnativo di quello più vicino al vero. Chiamiamo “post-verità” la menzogna, il travisamento della realtà. La nuova parola ci dà l’impressione che il falso non sia completamente falso, mentre invece lo è. Aleksandr Dugin, uno dei filosofi ispiratori del pensiero dominante in Russia, ha scritto: «(…) ogni presunta verità è soltanto questione di ciò che si crede. Quindi noi (…) crediamo in quello che diciamo. Questo è l’unico modo di definire la verità».

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Per effetto di questo insieme di fattori, il peso delle democrazie si è ridotto anno dopo anno, nella nostra inconsapevolezza. In una intervista della primavera del 2020 Joe Biden, che sarebbe diventato di lì a poco presidente degli Stati Uniti, citò in termini preoccupati un importante centro di ricerca, Freedom House, che aveva documentato dal 2015 al 2020 ben 22 paesi che erano pienamente liberi, avevano registrato una drammatica perdita di libertà. Due anni dopo, nel 2022, lo stesso centro di ricerca ha confermato il declino che preoccupava Biden; dal 2005 a oggi ben 60 paesi sono meno liberi, mentre solo 25 hanno avuto una crescita democratica. Solo il 20% della popolazione mondiale vive in democrazia; mentre il 38%, la percentuale più alta dopo il 1997, vive in condizioni di totale assenza di libertà. Il 42% vive in regimi parzialmente autoritari. Le democrazie si riducono nel mondo e anche quelle fortemente consolidate, penso agli Stati Uniti, appaiono affette da una preoccupante fragilità e sembra che stiano smarrendo le proprie ragioni fondative.

(In copertina) Senza titolo, Mark Rothko,1969, acrilico su tela, collezione privata. (Sopra) Senza titolo, Giulio Paolini,1986, collage su stampa fotografica a colori, collezione Terrae Motus, Reggia di Caserta

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Un problema strutturale delle democrazie contemporanee, forse il più grave, è costituito dalla crescita delle diseguaglianze. Lo dimostra, da ultimo, uno studio su 50 democrazie, dal 1948 al 2020, pubblicato in Francia nel 2021 (A. Gethin, C. Martinez-Toledano, T. Piketty, “Clivages politiques et inégalités sociales”). I diritti sociali, alla casa, all’istruzione e al lavoro dignitoso e dignitosamente retribuito, sono radicati profondamente nella coscienza dei cittadini ma sono trattati come il residuo di antiche utopie, sia per i loro costi, sia per la carenza di adeguata rappresentanza dei ceti più deboli.

Recupero un esempio tratto da un saggio di Moisés Naím su “Foreign Affairs” di aprile 2022. Un insegnante filippino che vorrebbe progredire nella scala sociale, un autista sottopagato del Michigan, un laureato disoccupato di Parigi, un’operaia italiana con contratto a termine, non hanno nulla in comune, ma nutrono tutti la medesima sfiducia nella possibilità di realizzare il tipo di vita che avevano previsto per sé stessi e per la propria famiglia. Purtroppo la storia del XXI secolo sinora ha deluso le loro aspettative. Le politiche economiche e fiscali dovrebbero porsi l’obiettivo di superare gradualmente questa ingiustizia.

Non è solo un problema di classi dirigenti perché la democrazia ha soprattutto bisogno di cittadini democratici, capaci di adempiere ai propri doveri. Nessuna classe dirigente per quanto capace e illuminata potrà sopperire alle manchevolezze di una società civile egoista, priva di senso del dovere nei confronti della comunità, che non educa i figli, che evade il fisco, che scarica sui concittadini o sulle istituzioni le proprie responsabilità.

La democrazia non è uno status; è un processo permanente, mai octroyé, sempre conquistato, spesso a prezzo della vita; continuamente messo in discussione dalla libertà di critica che i regimi autoritari non conoscono, ma che costituisce una decisiva risorsa intellettuale. Come tutti i processi può avere soste e arretramenti, ma può anche ripartire. L’intrinseca elasticità delle democrazie le rende infatti più capaci rispetto ai regimi dispotici di resistere alle intemperie politiche, di riprendere vigore dopo fasi di difficoltà e di recepire nuove domande. Tuttavia questa virtù diventa fattore di crisi quando le democrazie perdono la capacità di opporsi alle demagogie.

La democrazia non è un prodotto naturale; è frutto della intelligenza e del coraggio umano e perciò ha costantemente bisogno di manutenzione, intelligenza e coraggio. Quando queste doti mancano, si manifestano populismi, razzismi, antisemitismi, diseguaglianze, malattie che possono essere combattute solo con un più forte radicamento del principale valore democratico: la convivenza pacifica tra diversi.

Negli ultimi due decenni, sovrastati dal fluire ininterrotto di notizie vere, verosimili e false tutte apparentemente uguali, imbrigliati dal relativismo e dalla incapacità di riconoscere gerarchie di valori, indotti a distinguerci in base alla identità e non in base alle idee, abbiamo smarrito il senso del passato e del futuro. Scivoliamo tra il progressismo immaginario della cancel culture, che abbatte monumenti e censura Dante, e una sonnolenza democratica, che pavidamente accetta queste e altre idiozie. L’abitudine a vivere perennemente immersi nel presente ha fatto scomparire il sacro dall’orizzonte delle nostre vite. Mircea Eliade aveva sostenuto che il sacro è indissolubilmente legato allo sforzo per dare un significato al mondo. Aggiungerei che il sacro è indissolubilmente legato allo sforzo per dare un senso alla vita, se per sacro intendiamo una presa di coscienza che vada oltre il contingente, oltre l’immediatamente visibile.

C’è un rapporto tra sacro e democrazia; l’uno e l’altra, pur appartenendo a mondi diversi, incorporano uno sguardo sul futuro ed entrambi si allontanano dalle società nelle quali viene a mancare l’idea del futuro. Sino all’avvento del digitale, il sacro dominava il campo dell’immateriale, dell’esistente non tangibile. L’avvento del digitale ha secolarizzato l’immateriale. Siamo passati dal metafisico al metaverso.

Un dubbio è inevitabile. Ci stiamo inconsapevolmente distruggendo con le nostre mani? «In generale – ha scritto René Grousset nel 1946, in “Bilan de l’histoire” – nessuna civiltà è stata distrutta dall’esterno senza essere prima crollata su sé stessa (…) una società, una civiltà si distruggono con le proprie mani quando hanno smesso di comprendere la propria ragion d’essere, quando è diventata loro estranea l’idea dominante attorno alla quale si erano costituite». L’esperienza ci dice che mentre i sistemi autoritari crollano con uno schianto, le democrazie si estinguono con un lamento. Può accadere quindi che le democrazie non si accorgano del processo di esaurimento che le affligge.

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Dopo l’invasione dell’Ucraina sono drammaticamente cambiati il presente e il futuro. La guerra di Putin intende costruire un nuovo ordine mondiale, illiberale, nemico del mondo democratico. Le guerre che l’hanno preceduta, Serbia, Iraq, Afghanistan, Libano, Siria, non riguardavano l’ordine mondiale; perciò le sentivamo estranee. Questa guerra invece, proprio perché ha l’obiettivo di un nuovo ordine mondiale, riguarda direttamente le nostre vite, le tecnologie nelle quali siamo immersi, le risorse energetiche per vivere e per produrre, i diritti.

Ma non basta dare armi agli ucraini e irrobustire i nostri arsenali militari. Non basta sanzionare la Russia. Le mobilitazioni economiche e militari, per difendere un paese aggredito, sono necessarie ma insufficienti. Non abbiamo ancora messo in campo un sistema di valori alternativo a quello propagandato da Putin, che restituisca un credibile primato ai nostri ideali. Non basta allargare la NATO; l’idea esclusivamente militarista della democrazia si è già dimostrata sbagliata. L’avversario ci descrive al mondo come colonialisti, materialistici e decadenti. Noi rispondiamo che è un assassino; ma questo è solo un insulto che, al massimo, compensa quelli che riceviamo.

Il capo della Chiesa ortodossa russa, Kirill, ha spiegato che il conflitto in Ucraina è una “lotta metafisica” contro i paesi che autorizzano il Gay Pride e che perciò sono il regno del male. Anche da noi ci sono ideologie per le quali quelle manifestazioni sono il regno del male: è la libertà di pensiero. Ma noi non stiamo spiegando in modo convincente perché le scelte sessuali fanno parte delle libertà individuali, sino a quando non danneggiano un’altra persona. I valori di una società definiscono le sue ambizioni e i suoi obiettivi morali; danno forza alle scelte individuali e collettive, motivano al sacrificio. John Steinbeck in “La luna è tramontata” distingue tra uomini-gregge che vincono le battaglie e uomini liberi che vincono le guerre. Gli uomini per essere liberi devono avere valori. Lo dimostra la resistenza dell’Ucraina.

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Tra l’equipaggiamento dell’Ottava Armata di Sua Maestà britannica e della Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate 1943 c’era un opuscolo di 116 pagine: “Il Piano Beveridge. La relazione di Sir William Beveridge al Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”. L’opuscolo, destinato all’opinione pubblica italiana, conteneva una sintesi del Rapporto con una chiara indicazione dei valori per i quali quegli eserciti si battevano: giustizia sociale, solidarietà tra le classi, tutela dei diritti dei lavoratori, libertà dal bisogno.

La guerra contro il nazismo si faceva con le armi, ma era sostenuta dalle idee; non da una idea generica e consolatoria di democrazia; ma da un programma di grandi e credibili riforme sociali. La nostra ambizione non può essere solo quella di vincere nella competizione tecnologica o militare o economica. Dobbiamo nutrire l’ambizione di diventare complessivamente egemoni, anche per i valori che siamo capaci di mettere in campo.

Oggi siamo minoranza. La proposta dell’ambasciatore ucraino all’ONU di espellere la Russia dalla Commissione per i diritti umani ha avuto 93 voti favorevoli, 24 contrari e 54 astenuti. La Cina ha votato contro e l’India si è astenuta. In sostanza 78 paesi del mondo, tra i quali quelli che rappresentano la metà della popolazione globale, non hanno condiviso la proposta.

Basta guardare la mappa dei paesi che non applicano le sanzioni economiche contro Mosca: si tratta della maggior parte dei paesi asiatici, del Medio Oriente, dell’Africa e dell’America Latina. Si sono dissociati un membro della NATO, la Turchia, e paesi che godono di eccellenti rapporti con gli Stati Uniti, come Israele e Arabia Saudita. Siamo maggioranza del PIL, ma siamo minoranza tra gli Stati e le popolazioni. Quantitativamente, sembrerebbe che le nostre democrazie siano più isolate di Putin.

Bloodline-Big Family: Four Sisters, Zhang Xiaogang, 1998, olio su tela

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La Russia va presa sul serio. Come la Germania, ha dato capolavori che appartengono all’umanità intera nel campo della letteratura, della musica, della pittura. Ma, a differenza della Germania, nella sua storia non ha mai conosciuto regimi democratici; ha conosciuto solo autoritarismo e disordine. È passata dagli zar a Lenin, poi da Lenin a Stalin. Di seguito Kruscev, Breznev, Andropov, Cernenko. Quindi i tentativi falliti di Gorbaciov, il disordine post-gorbacioviano e infine Putin. La Russia è il più vasto Stato del mondo, circa 18 milioni di chilometri quadrati, gli Stati Uniti ne hanno circa 10, l’UE circa 4; i fusi orari sono 11, negli Stati Uniti 6, nella UE 4.

Le vicende di un popolo segnano la sua coscienza; la mancanza di esperienze democratiche e la consapevolezza di vivere in uno sterminato paese, con una grande drammatica storia, e una indiscutibile disponibilità al sacrificio, ha convinto più volte la maggioranza del popolo russo ad accettare la miscela clerico-autoritaria come ossatura ideologica del comando politico e come condizione per la non disgregazione del paese.

Putin consolida questo convincimento disprezzando le democrazie e contrapponendo una identità russa fondata su categorie morali, la decadenza etica dell’Occidente, e su un mito fondativo del suo paese, quello della Grande Russia, falso ma accattivante. La retorica putiniana diffonde nelle scuole e nella intera società l’idea che la Russia abbia vinto da sola contro il nazismo, e che il nazismo sia stato una creazione dei paesi capitalisti contro l’Unione Sovietica. Questa bugia, che ignora il patto Molotov-Ribbentrop, gli è utile per proporre la favola della Ucraina nazista aiutata dagli stessi paesi capitalisti che ieri, secondo la “sua” storia, aiutarono Hitler.

Questa rilettura del XX secolo ci trova del tutto impreparati. Il pugno di ferro, la propaganda, il nazionalismo, la condanna del dissenso, il misticismo aggressivo sono il cemento che tiene insieme Stato e popolo, che legittima il potere assoluto del capo, previene i rischi della disgregazione, anima l’opposizione alle democrazie e fa di Putin quello che era stato Trump, il leader del conservatorismo bigotto di tutto il mondo. Questa politica non si limita ai proclami. Prevede, per esempio, il sostegno, anche economico, ai partiti conservatori europei contrari all’Unione europea. Hacker russi hanno diffuso disinformazione per manipolare l’opinione pubblica nella elezione di Trump, nella campagna sulla Brexit contro l’Unione europea e in molte vicende politiche di altri paesi democratici, compresa l’Italia.

Una importante ricerca, pubblicata sul numero della rivista “Confronti” del novembre 2021, documenta il ruolo della Russia e della Chiesa ortodossa russa nelle culture wars. Oggi lo scontro tra il conservatorismo tradizionalista e il modernismo liberale non riguarda più i modelli di governo né la giustizia sociale. Investe questioni legate alla sessualità (omosessualità, femminismo, diritti di genere), alla famiglia (definizione di famiglia), alla bioetica (aborto, eutanasia), ai rapporti tra religione e spazio pubblico (esibizione di simboli religiosi). Russia e Chiesa ortodossa russa sono presenti su tutti questi fronti, e sostengono dove possono le posizioni conservatrici. Certo, non tutte le posizioni illiberali sono ispirate da quel paese e da quella chiesa; ma quel paese e quella Chiesa hanno una presenza costante e crescente, anche di tipo finanziario, su tutti i temi del conservatorismo tradizionalista.

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La ritirata delle democrazie dal fronte dei diritti umani e della giustizia sociale, e l’assalto a Capitol Hill, hanno dato a Putin l’impressione di fronteggiare sistemi flaccidi, incapaci di mettere in campo valori, ideali, modelli di vita civile. Chi ha di fronte un avversario agguerrito deve sempre chiedersi quale sia l’ideologia che lo ispira per contrapporgli un sistema alternativo di valori. Non farlo e sottovalutare gli altrui convincimenti significa sopravvalutare sé stessi; è una ingenuità. Perciò occorre contrapporre a Putin una ideologia controegemonica. Non lo stiamo facendo. Nei giorni immediatamente precedenti l’invasione dell’Ucraina, Biden e Macron, sottovalutando Putin, gli proposero una concessione politica, un negoziato sulla “nuova architettura di sicurezza europea”. Naturalmente non ebbero risposta dall’interlocutore, che quell’architettura aveva deciso di costruire in altro modo.

Non sempre abbiamo una percezione immediata dei pericoli. Nel 1923 un grande giornalista, Giulio Debenedetti, intervistò Adolf Hitler per “La Gazzetta del Popolo”, quotidiano di Torino. Hitler gli espose il suo programma: «Distruzione di ogni idea internazionale. Attirare nel nostro movimento le masse operaie. (…) Vogliamo che il potere dello Stato sia affidato a una minoranza onesta e capace. Si immagina lei che io, dittatore, mi lascerò, quando avrò la direzione dello Stato, comandare dal Parlamento e dai così detti rappresentanti del popolo?». Debenedetti concluse: «Non mi pare un dittatore troppo pericoloso». Dieci anni dopo si apriva il lager di Dachau e Giulio Debenedetti era costretto a fuggire in Svizzera.

Kouros, Fabio Viale, 2020, marmo bianco e pigmenti

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Per superare le difficoltà, è necessaria la chiarezza. Nessun problema è stato mai risolto senza essere stato prima capito, nessuna battaglia è stata mai vinta senza aver pagato qualche prezzo. Riconoscere la gravità del problema è un passo avanti; ma devono seguire le azioni. Dobbiamo raccontare storie migliori di noi stessi e su come si possa vivere insieme nonostante le differenze, non disconoscendo le difficoltà, ma impegnandosi a superarle. Le democrazie possono far leva su due fattori che sono loro propri: la capacità di riconoscere le proprie debolezze e la capacità di correggersi.

La prima domanda è: quanti e quali sacrifici siamo disposti a fare, per rendere più forti le nostre democrazie? Ha suscitato reazioni indispettite la domanda di Mario Draghi, da presidente del Consiglio: «Volete la pace o i condizionatori accesi?». Nella sua brutalità, inconsueta per chi la pronunciava, quella espressione poneva il tema dei sacrifici oggi necessari per difendere la nostra democrazia. È sbagliato ridurla a un fatto di cronaca. Ci imbatteremo ancora, temo crudamente, di fronte a quell’alternativa e dalla risposta dipenderà il futuro. È il tema dei doveri. I diritti individuali sono effettivi, al di là delle proclamazioni, solo in una società che adempie ai doveri sociali. È una questione della intera società, delle classi dirigenti e dei cittadini privi di questo tipo di impegni, perché la democrazia è sostenuta non dalle regole ma dai comportamenti. Quando i doveri sociali tacciono, la scena della democrazia è occupata dalla rissa tra ceti, corporazioni, rabbie sociali e dalla silenziosa disgregazione della società.

Aldo Moro, poche settimane prima del suo rapimento, richiamò drammaticamente i parlamentari del suo partito al tema dei doveri: «Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere». Moro non citava i doveri, ma il senso del dovere. Fuoriusciva perciò dal campo giuridico e si collocava sul terreno politico.

Nel mondo giuridico, diritto e dovere sono facce opposte della stessa realtà; nel mondo politico, sono frutti di piante diverse. Il diritto nasce dall’individuo e dalle sue aspirazioni. Il dovere nasce invece dalla comunità, dai legami che tengono insieme persone diverse. Per circa mezzo secolo la società italiana è stata tenuta insieme da comunità politiche fondate su un forte senso di solidarietà: i partiti avevano gravi difetti, tuttavia comunicavano il senso del dovere. Quei partiti si sono spenti perché hanno smarrito la propria funzione storica. Non può quindi stupire il silenzio che avvolge i doveri. Tuttavia una società non può guardare al futuro se non ha il senso del dovere, come aveva detto Moro. Il primo dovere per restituire legittimità alla democrazia è la ricostruzione del rapporto tra le generazioni. Ogni generazione deve trasmettere a quella successiva i principi propri della civiltà alla quale appartiene. Altrimenti la lascia disarmata, priva delle conoscenze necessarie per fronteggiare il presente e costruire la propria vita nel futuro. È perciò cruciale la capacità di dire i no necessari, i no che sono frutto di visione del futuro, di senso di responsabilità, di responsabilità educativa. La questione educativa è strettamente connessa alla questione democratica.

In gran parte del mondo occidentale la scomparsa dei corpi sociali intermedi, la riduzione del ruolo aggregante della religione, una certa deresponsabilizzazione delle famiglie hanno lasciato ai soli insegnanti, dalle elementari alle superiori, il compito formativo prima svolto da famiglie, partiti, sindacati, associazioni di vario genere. Gli insegnanti hanno il compito di trasmettere alle generazioni più giovani, oltre alle nozioni, i valori della nostra società, in modo che non si interrompa il flusso delle conoscenze e delle appartenenze. Ma oggi sono privati dell’autorevolezza necessaria proprio da quella società i cui valori sono chiamati a trasmettere. Ricostituire il ruolo sociale degli insegnanti è la prima pietra di una nuova moderna politica dei doveri. Un nuovo rapporto tra le generazioni, mediato dalla responsabilità delle famiglie e dall’autorevolezza della scuola, ci aiuterebbe in misura significativa nella rianimazione della nostra democrazia.

Non ci sono ricette di per sé risolutive. C’è un cammino lungo davanti a noi e sulla base delle nostre esperienze, dalla lotta per la Liberazione a quella contro il terrorismo, sappiamo che siamo capaci di percorrerlo. Impegniamoci a costruire responsabilmente il futuro, a coltivare la speranza. 

Saranno futuri e speranze diverse, come accade in democrazia, ma impegnarci ci permetterà di uscire dalle paludi del quotidiano. Perché la democrazia non è il barone di Munchuasen, che uscì da una pozza di fango da solo, tirandosi per i capelli.