Davide Livermore, il profeta della tecnologia in teatro

29 marzo 2022

Di Massimiliano Lussana

Teoricamente, il teatro è la disciplina meno tecnologica al mondo: testi, a volte millenari, attori, registi, un palcoscenico fatto di assi. Parole, classicità.
Poi, c’è Davide Livermore.
Capace di trasformare il teatro in qualcos’altro, dove la tecnologia è centrale, decisiva, vitale, poetica.
Ecco, fra le mille cose che fa Davide Livermore – l’unico ad avere firmato quattro sant’Ambrogio alla Scala, per di più consecutivi, qualcosa che nemmeno Giorgio Strehler e ho detto Strehler che di prime della Scala se ne intendeva – forse quella più straordinaria è proprio il fatto di aver elaborato una “poetica della tecnologia”, di usare tutti gli strumenti a disposizione per il suo teatro, facendone davvero poesia, innovando senza tradire i testi, anzi elevandoli a potenza.
Mi autodenuncio: sono innamorato di Livermore, del suo lavoro e della sua poetica e, ogni volta che lo vedo all’opera trovo tutto quello che cerco,  che si tratti dell’opera lirica, dalla Carmen cubana ad Attila, dalla Tosca alla Manon Lescaut la cui regia livermoriana sarà in scena ancora questa settimana al Carlo Felice di Genova, per arrivare alla prosa: “Elena” di Euripide, ma anche “Grounded” di George Brant, fino a “Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori” in scena in questi giorni al Modena di Sampierdarena, sempre a Genova e sempre nella stagione del Teatro Nazionale, di cui Livermore è direttore e che fra gli sponsor ha Leonardo, con un progetto mirato sui giovani, perché si può fare poesia anche con la scelta delle sponsorizzazioni e la loro motivazione.
Insomma, Livermore oggi in Italia, e forse nel mondo, è il regista numero uno assoluto.
E, dopo i cavalli e il Torino, l’uso della tecnologia in teatro è la sua passione totale e definitiva, in eterna evoluzione, a caccia delle novità, sempre le penultime, per definizione, tanto da averlo teorizzato in un punto del suo decalogo con cui si è affacciato al ritorno al teatro dopo la pandemia: “Esiste la tecnologia”.

E la tecnologia per Livermore è tutto questo: “Si tratta di usare il Teatro come è sempre stato usato, ovvero come luogo di scoperta e sperimentazione di tecnologia e di tecniche (teknè). Il video, l’amplificazione, l’illuminazione, sono strumenti di crescita e qualità della prassi teatrale. Il futuro non è un obiettivo, ma una realtà, un potenziale del presente. Il confronto sistematico con la tecnologia non serve a stupire o a intrattenere, ma a creare ulteriori possibilità drammaturgiche e di narrazione”.
Sarebbe piaciuto a Leonardo Sinisgalli, Livermore. Primo perché è irresistibile, affascinante e affabulatore su qualsiasi tema dello scibile umano, ma anche perché tutta l’anima del concetto di “Civiltà delle macchine” sta nel suo teatro.
Capace di coniugare la tecnologia e i classici più classici senza che questo suoni azzardato, fuori posto o eccessivo.
Ed è successo ad esempio nell’ultima delle sue quattro prime della Scala (una televisiva, causa pandemia, ma splendida e forse addirittura più emozionante delle altre, che fu il trionfo del talento visionario e tecnologico del regista) con un “Macbeth” ambientato in una realtà distopica che ha fatto storcere il naso a qualche purista.
Ma anche in quell’occasione Livermore ha messo a tacere tutti e le chiacchiere stanno a zero: “La tecnologia in teatro serve per raccontare le storie e in futuro sarà sempre più difficile farne a meno”.  

L’accusa era quella di aver fatto uno spettacolo troppo pensato per Raiuno, ma Livermore ha spiegato che non considerava il suo spettacolo troppo televisivo, sottolineando che "è stato pensato per il teatro", anche se trova giusto aver messo alcuni effetti esclusivamente pensati per il pubblico in tv, come le telecamere che riprendevano dall'alto la scena del sonnambulismo, per "far godere da casa cose che in teatro non si potevano vedere". E qui arriva il bello, il punto centrale della nostra storia: "Verdi avrebbe sfruttato la tecnologia. Il teatro cambia, è fatto dai vivi per i vivi, anche se questo porta a volte lo spettatore fuori dalla sua comfort zone e può farlo arrabbiare".
Da direttore del teatro Nazionale di Genova in questi anni difficili Livermore ha imparato anche a far di conto e spiega anche un particolare interessantissimo: “Le tecnologie ci permettono con costi bassi, non bassissimi ma bassi, cose che un tempo non avremmo nemmeno potuto pensare”.
E così è bello attraversare tutta la poetica di Davide Livermore, attraverso tutti i linguaggi che usa e maneggia come plastilina a plasmare il futuro: partendo dalle mostre come “Fare Luce”, un’installazione sul G8 in cui gli spettatori sul palco inquadravano barcode con i loro smartphone e ottenevano numeri e dati per raccontare Genova 2001 senza giudizi di valore, ma solo fatti, che rendeva il tutto straordinariamente morale, ma non moralista, o “Edipo, io contagio” che bypasso il divieto di fare teatro mettendo gli attori nelle teche di plexiglass, dove la tecnologia basica, il microfono, raccontava la pandemia con le parole di Sofocle con una forza dirompente e definitiva. Un capolavoro.

Oppure, la scelta di dedicare l’intera stagione 2021-2022 del Teatro Nazionale di Genova all’”Umanità va in scena”, con un barcode per raccontare ogni spettacolo, tecnologico persino sui manifesti sparsi per la città.
E poi mi piace ricordare tutti gli echi che trovai in “Elena” di Euripide, con le videoproiezioni che riportavano alla saga di Guerre Stellari di George Lucas con le scritte “In una galassia lontana lontana” e poi sul ledwall i colori di Stanley Kubrick e di Rothko o di Fontana nelle bolle rosse che ribollivano, così come le sfumature ocra e cobalto sul mare.
E poi “Blade Runner” e Ridley Scott, ma anche i colori del tramonto senza speranza e senza fiato di “Apocalipse Now”.
Insomma, la sublimazione della tecnologia che torna in “Lady Macbeth” dove quelle bolle e quei colori tornano nei fondali, con le nuvole quasi di Fabrizio De Andrè – “vanno, vengono, alle volte si fermano” – che sono decisive nel “fare” la scenografia e le scene firmate dallo stesso Livermore e da Lorenzo Russo Rainaldi e i video di D-Wok, che sono una squadra perfetta in questa storia. Con Alberto Mattioli splendidamente ironico e autoironico in altri video in bianco e nero e la sigla che fa molto programma di Mike, Raffa o Corrado anni Settanta e che è contaminazione fra generi, generazioni e strumenti e funziona perfettamente. 

Nulla è scontato e la tecnologia permette anche, in “Elena”, di allagare il palcoscenico e ne usciva un’atmosfera splendidamente gotica capace di ricordare la Gotham City del Batman di Tim Burton, regista geniale e visionario di cui Livermore è la traduzione teatrale, con chicche come il coro greco con l’effetto autotune. 
Oppure, la splendida macchina scenica disegnata da Livermore per “Grounded” che “fa” lo spettacolo insieme alla recitazione di Linda Gennari, qualcosa di talmente bello da non poter essere descritto con un aggettivo; e quella macchina sembra il riassunto della capacità manifatturiera italiana: luce, acciaio, flessibilità.
Ecco, tutto questo torna oggi anche in “Lady Macbeth”, che racconta la storia di un’attrice teatrale dell’Ottocento, non propriamente la più promettente brividi o esaltante delle trame a raccontarla così.
Eppure, anche grazie alla tecnologia, tutto questo dà poesia, fa poesia.
E Davide Livermore è il profeta di tutto questo.