Elettori ed eletti

Di Paolo Armaroli

Quando il cane si morde la coda

01 marzo 2021

Nella nomina dei ministri e, soprattutto dei sottosegretari, Mario Draghi s’è dovuto vedersela con i partiti. E, a onor del vero, non tutto è filato liscio come l’olio. In stretta intesa con il capo dello Stato, il presidente del Consiglio i ministri, tutto sommato, se li è scelti lui. Ma si è visto costretto a fare i conti con i desiderata della variopinta maggioranza parlamentare. Il metro di giudizio, perciò, non è stato solo quello della competenza. Basta esaminare i curricula dei ministri di provenienza partitica per rendersene conto. E poi non è cambiato il vezzo di usare i ministri come palline di un flipper: ieri a capo di un ministero, oggi di un altro e domani chissà.

A tal proposito ricordo un duetto di tanti anni fa tra Giorgio Almirante e Giulio Andreotti. Rivolgendosi all’altro, quest’ultimo obiettava: “L’onorevole Almirante, basandosi sulla competenza, vorrebbe alla Salute un medico, agli Interni un prefetto, alla Difesa un generale e così via. Non sono d’accordo. Più che esperto in un ramo, un uomo di governo deve conoscere la macchina dello Stato, avere esperienza e soppesare i personaggi con i quali entra in contatto”. Ammettiamo pure che il divo Giulio avesse ragione. Ma oggi come oggi chi conosce davvero la macchina dello Stato, chi può vantare una lunga esperienza ministeriale, chi sa prendere le misure a chi gli sta di fronte? Restando ad Andreotti, un amico gli domandò perché mai non sostituiva da ministro gli alti papaveri del dicastero. E lui di rimando: “Non ce n’è bisogno perché presto si adeguano”. Già, ma adesso il rapporto si è rovesciato. Sono i burocrati a fare il bello e il cattivo tempo e ad adeguarsi sono sovente i ministri.

Con i sottosegretari, poi, è stato peggio che andar di notte. In definitiva Draghi ha lasciato mano libera ai partiti ponendo una sola condizione: la competenza. Condizione che in svariati casi è andata a farsi benedire. Tant’è che le gaffe dei nostri eroi (si fa per dire) hanno messo di buonumore gl’italiani alle prese con il Coronavirus. Presumo per carità di patria, sul Corriere della Sera del 28 febbraio Aldo Grasso si è limitato a due soli esempi tra i tanti: il leghista Rossano Sasso, sottosegretario all’Istruzione, attribuisce a Dante una frase di Topolino, e il pentastellato Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri, confonde la Libia con il Libano. Quando si dice gli uomini giusti al posto giusto.

Viene alla mente Ettore Petrolini. Contestato dal loggione da uno screanzato durante un suo spettacolo, Petrolini gli dice: “Io non ce l’ho con te ma con quello che ti sta accanto perché ancora non ti ha buttato di sotto”. Se la classe politica è quella che è non è colpa del destino cinico e baro ma di noi cittadini che li abbiamo scelti. Più che rifarcela con i governanti, dovremmo fare noi per primi atto di contrizione. Se non fosse che in Italia – parola del solito Andreotti – il predetto atto si manifesta battendo il pugno sul petto altrui.

Giorgio Almirante (MSI), Giorgio Vecchietti (Moderatore) e Giulio Andreotti (DC) Tribuna Politica, 1971

A questo punto la parola spetta di diritto a uno dei più autorevoli giuspubblicisti di casa nostra. E precisamente a Sabino Cassese, autore di un libro piccolo, formato poco più che tascabile e 108 pagine in tutto a caratteri piuttosto grandi, che è tutt’altro che un piccolo libro. S’intitola Una volta il futuro era migliore, è pubblicato da Solferino e in appena una settimana ha già avuto ben tre edizioni. Ma perché tirare in ballo Cassese? Per il semplice motivo che nei tre capitoli in cui si articola il libro – “Le Luci”, “Le ombre” e “Motivi di speranza” – ci fornisce da par suo la chiave del rebus.

Una volta noi italiani eravamo mal messi sotto tutti i punti di vista. Ma, almeno, ci consolava il fatto che il futuro sarebbe stato migliore. Mentre adesso stiamo di gran lunga meglio ma parecchie ombre ci si parano davanti. Ombre che Cassese enumera nei paragrafi del secondo capitolo: l’Italia cammina, gli altri Paesi corrono; il livello di istruzione è basso; la competenza della classe dirigente è limitata e la disaffezione per la politica crescente; la vita politica è in crisi; la qualità delle istituzioni è insufficiente; siamo più visi nella folla che comunità.

Non avrebbe potuto dire meglio, Cassese. Non mi era mai capitato di leggere il libro di un giurista zeppo di numeri. Nonché di riferimenti bibliografici così puntuali e di citazioni che fanno riflettere. Il giudice emerito della Corte costituzionale, della quale in un saggio birichino ha scoperto gli altarini, dice le cose come stanno senza tanti giri di parole. Scrive: “L’epidemia dell’ignoranza non produce effetti soltanto sulla società. Essa mina anche la democrazia, che ha bisogno del rapporto esperti-cittadini”. E ancora: “Il basso livello di istruzione della società italiana si riflette nella classe dirigente”. Ma così finisce che il cane si morde la coda. Ci si muove in un circolo vizioso e non se ne esce. Stando così le cose, il futuro ci appare sempre meno roseo. Anche perché solo gli statisti guardano alle future generazioni, mentre i politicanti, mai così abbondanti, si preoccupano solo delle prossime elezioni. Parola di Alcide De Gasperi. Perciò più che guidare l’opinione pubblica sono eterodiretti. Dicono sempre di sì, come si fa con i pazzi, per compiacere e sollecitare un voto in più.

Con il passaggio da Conte a Draghi le cose stanno a poco a poco cambiando. Ma il tempo stringe e la il governo al massimo durerà fino alla fine della legislatura, nella primavera del 2023. Se non addirittura fino alla elezione del nuovo presidente della Repubblica, entro il 3 febbraio dell’anno prossimo. Quando Draghi potrebbe succedere a Mattarella sul Colle più alto.