F1, Monza da record. La festa “rossa” dei trecento mila spettatori ma non è tutto oro quel che luccica

12 settembre 2022

Di Massimo Falcioni

Con i 336.647 biglietti venduti a Monza per il Gran Premio d’Italia Formula 1  del 9-10-11 settembre 2022 è stato battuto ogni precedente record di presenze per una gara di auto su circuito. La marea rossa ha dimostrato ancora una volta l’appeal del grande pubblico verso la pista italiana che ha festeggiato con questa presenza record di appassionati i 100 anni dalla sua costruzione. Solo in occasione della mitica “Mille Miglia”, la corsa automobilistica stradale in linea (per Enzo Ferrari: “La corsa più bella del mondo”) disputata in 24 edizioni tra il 1927 e il 1957, il pubblico era ancor più numeroso partecipando (gratis) a bordo strada all’evento sportivo italiano più famoso al mondo. Monza gode. E gode la F1. Anche se resta l’amaro in bocca per il “pasticcio” FIA per una gara chiusa con davanti la “safety car”. Un fatto che dimostra ancora una volta che non è tutto oro quel che luccica sia rispetto all’autodromo e sia rispetto alla Formula Uno, in particolare in riferimento alla presenza dei piloti italiani nel massimo campionato dell’automobilismo mondiale. Visti i grandi risultati, anche sul piano economico, di questa edizione del centenario, pare impossibile che il grande impianto brianzolo viva in un perenne stato di “precarietà”. Stavolta c’è stato anche il sequestro dell’”area eventi” dell’autodromo  fatto eseguire dalla Procura di Monza ad agosto per violazioni di norme urbanistiche (all’interno del Parco di Monza vigono rigide imposizioni sul rispetto paesaggistico) e confermato dal tribunale del Riesame alla vigilia del Gran Premio. Ma questi sono dettagli che fanno capire come il mondo non più rombante (i motori turbo+elettrico nuova generazione ronzano come mosconi o fischiano come treni) ma economicamente dorato della F1 regga su strutture tutt’altro che solide e quanto, non solo in Italia, il campionato goda di questo straordinario appeal grazie soprattutto alla presenza e al ruolo della Ferrari. Cosa sarebbe oggi la Formula Uno senza i bolidi del Cavallino sempre protagonisti anche se da troppo tempo la Casa di Maranello non riesce a far suo il titolo mondiale? In particolare, cosa sarebbe l’automobilismo italiano senza i bolidi del Cavallino rampante? L’epopea sin dai primi anni del ‘900 dei grandi Marchi “tricolori” quali Isotta Fraschini, Chiribiri, Diatto, Nazzaro, Itala, Cisitalia, Fiat, Alfa Romeo, Bugatti, Maserati e poi della Auto Avio Costruzioni fondata da Enzo Ferrari nel 1939 e progenitrice della Casa di Maranello e di decine di altri Marchi protagonisti nei vari campionati nazionali e internazionali sino alla fine del secolo scorso, è solo nei ricordi. Così come nei ricordi sono i grandi campioni italiani, da prima e dopo Nuvolari fin tutto il 900.


Oggi in F1, dopo il passaggio del giovane pugliese Antonio Giovinazzi in Formula E, non c’è più neppure un pilota italiano. Se questa non è decadenza “tricolore” nell’automobilismo, che cos’è? I nostri ragazzi, dal kart alle formule minori, ci sono e fra questi non mancano promettenti “giovani leoni”. Ma l’automobilismo non è il calcio pieno di squadre ovunque o dove un test in un campetto non si rifiuta a nessuno e non è il tennis dove una racchetta usata la si trova sempre, gratis. L’automobilismo è sport di alte tecnologie, costoso e ad alto rischio come nessun altro: sport di poteri forti, dove oltre ai super Team contano i super sponsor, cioè le aziende capaci di grandi investimenti, con spesso dietro la politica che ci mette lo zampino. Giovinazzi è stato sostituito quest’anno all’Alfa Romeo da Zhou Guanyu,  il primo pilota cinese a correre in Formula 1, importante per il suo paese e ancor di più per la Casa del biscione che così ha un suo biglietto da visita per la “via della seta”, base della produzione “green”, l’elettrificazione delle auto di serie. Senza dimenticare, poi, che il giovane Zhou porta in dote  al team Sauber  - si dice -qualcosa come 30 milioni di euro di sponsor. Chi ha difeso Giovinazzi, unica bandiera tricolore in Formula Uno? Nessuno. “Giovinazzi – ha scritto su Autosprint Mario Donnini – è stato eiettato fuori dalla F1 in modo non bello, non equo e non rispondente a criteri di meritocrazia e ai valori espressi in pista. E questo per lo sport italiano, per gli appassionati di casa nostra e per la stessa F1 tutta, è un danno immenso”. Vero. Ma qui l’analisi porta lontano, nel cuore stesso della Formula Uno odierna intesa come parata show-business, con corse che oramai hanno poco a che fare con l’automobilismo dei “giorni del coraggio” di Tazio Nuvolari e anche dei tempi di “cappa e spada” di Niki Lauda, Ayrton Senna, Michael Schumacher o dell’epopea della “Febbre Villeneuve”: corse oggi più simili al wrestling americano. Dagli inizi del dopoguerra, e non solo in Italia, la Ferrari ha fatto (e fa) da volano per tutto il Made in Italy, in particolare per tutto il settore auto e per l’automobilismo racing spingendo, oltre che sul piano dell’immagine, su tutto quel che girava e gira attorno a quel mondo. Così l’onda lunga del Cavallino rampante ha alimentato direttamente e indirettamente anche il vivaio dei nostri piloti e ha favorito la moltiplicazione di piccole e medie imprese, vanto del Made in Italy. Quell’onda lunga si sta afflosciando perché l’Italia, anche nel motorsport, ha perso colpi nel rapporto tra investimenti e visione strategica. Manca il “manico”, cioè l’indirizzo politico con l’eccezione positiva della “Motor valley” (Terra dei motori) dell’Emilia Romagna. I 336 mila e passa spettatori di Monza e i milioni di aficionados davanti alla tv in tutti i continenti confermano l’appeal della Formula Uno e del Motorsport iridato in generale.


Da li si può ripartire. Da lì si deve ripartire. Stando con i piedi per terra. Cercando di capire che fine hanno fatto le categorie “minori”, l’automobilismo di base radice e alimentatore delle passioni popolari, cercando di vedere dove sono – perché ci sono - le crepe di questa Formula Uno del politically correct e dei regolamenti astrusi, sempre più ibrida, che punta a contenere i costi (ma di fatto spendendo sempre più), a ridurre il sound dei bolidi ridotti ad astronavi guidate da Houston e a contenere i rischi per piloti e pubblico spostando la lotta dalla pista al box, imponendo al “gregge” l’allineamento dietro la Safety car, portando la F1 su circuiti devastati (anche Monza ha avuto il suo restyling non privo di eccessi) fatti per corse senz’anima, diventate gimkane per miliardari su treni a 4 ruote ipertecnologici da 350 all’ora, con il paddok vietato alla gente comune, posti dorati per Vip. Davvero i 336 mila di Monza pagano (profumatamente) il biglietto per vedere un “time penalty”, un “unsafe release”, un “impeding”, attratti dal Drs, per ascoltare questi sound castrati? I padroni del vapore conoscono qual è lo stato della fiera di questo automobilismo. Così si annunciano cambiamenti, con una F1 “nuova” dal 2026. Una classe regina dell’automobilismo sempre più improntata – si dice - allo show, anche se le scelte della FIA non paiono in tal senso prive di contraddizioni. Si va verso la ulteriore riduzione dei consumi, usando benzina sintetica (i cosiddetti e-Fuel di derivazione chimica e non fossile) per dimostrare che i motori a combustione interna hanno un ruolo attivo nella transizione ecologica e che l’elettrico non può essere l’unica soluzione anche se per le nuove power unit quasi il 50% della potenza sarà elettrico. Si utilizzeranno sempre propulsori turbo a combustione interna (ICE) da 1,6 litri con 6 cilindri a V con bancate di 90°, cambiando però la ripartizione della potenza tra quella generata dalla combustione e quella derivata dall’unità elettrica: 400 kW (544 CV) per l’ICE, 350 kW (476 CV) per l’ERS dai 120 kW (163 CV) delle attuali power unit. Insomma, al di là delle parole, nei fatti la F1 2026 sarà sempre più dipendente dagli elettroni: ciò per favorire, si dice, i progressi sul campo dell’elettrificazione, con l’esperienza usata in F 1 da passare sulle auto di serie. C’è poi, anche per i nuovi motori, l’imposizione del “budget cup” (l’obiettivo è di abbattere i costi fino al 50%!) nonché la standardizzazione di tante componenti, con il rischio di frenare ricerca e sviluppo. Su questa ennesima svolta annunciata, anche a Maranello, c’è scetticismo. Il rischio è di intaccare l’essenza della F1, da sempre vetrina tecnologica all’avanguardia e fonte di show reale, non virtuale, dove anche il rischio in pista è componente non secondaria del gioco. Intanto a Monza c’è stato il pienone di gente arrivata da ogni contrada per seguire, in particolare, la voce della Rossa, per tutti un flauto magico. E’ la memoria che non muore. Non solo. Per tanti italiani, una vittoria Ferrari, anche solo una presenza competitiva, va oltre i confini dello sport: significa la speranza di una rinascita per l’Italia. Anche per questo, o forse soprattutto per questo, la gente ha invaso Monza.