15 ottobre 2021
È un ritornello di questi tempi strani che, pur in presenza di una domanda di lavoro crescente e un’alta percentuale di disoccupati, non si trovino lavoratori per le aziende manifatturiere, l’edilizia, per laboratori e uffici che richiedono professionalità adeguate. Si incolpa il reddito di cittadinanza e dall’altra si risponde che sono le paghe ad essere troppo basse. Si chiamano in causa le famiglie che hanno diseducato i propri figli al lavoro, alla fatica e dall’altra si ribatte che no, sono le imprese che hanno svalutato il lavoro rompendo il legame affettivo che un tempo univa fabbrica e lavoratori. Troppe le forme di lavoro precario e l’apprendistato svalutato. Pochi gli investimenti sulle aziende e troppa ricerca del guadagno facile ieri con la speculazione immobiliare e oggi con la finanza.
Poi ci si mette di mezzo anche la globalizzazione, le multinazionali che aprono in territori dove possono approfittare delle facilitazioni previste dai governi salvo poi chiudere licenziando con un whatsapp per rincorrere la concorrenza sleale fatta da altri governi con bassi salari e politiche fiscali anche all’interno della stessa zona euro. Una cosa sembrava certa dopo la crisi del 2007 e del 2011: la manifattura italiana in crisi irreversibile. Lo si vedeva nelle Marche, in Umbria in alcune province della Toscana cioè in quel centro Italia che con le radici ben piantate nel Medioevo ha saputo custodire una secolare rete di laboratori artigiani, piccole e micro imprese familiari. Insomma ormai la manifattura è in mano cinese e c’è poco o niente da fare. Poi arriva la pandemia e si scopre che neanche questo è vero in assoluto, che certo la Cina è ormai la fabbrica del mondo ma ci sono cose che bisogna tornare a fare qui vicino a casa, che è meglio puntare su qualcosa di prossimo senza rimanere appesi a forniture le cui consegne tardano e costano sempre di più.
Ecco che allora le opinioni diverse e conflittuali alla fine convergono su una consapevolezza comune: in Italia il paese del saper fare bene, bello, creativo, abbiamo smesso di formare le persone capaci di fare bene bello e creativo. E stavolta non per cadere nella solita trappola per cui se non è colpa di nessuno è certamente colpa della scuola. No, siamo noi governi nazionali e locali, noi aziende, noi famiglie, noi scuola tutti assieme che abbiamo smesso di dare valore alla formazione tecnica e professionale di dar valore al lavoro fatto per bene. In un paese come l’Italia è come aver bestemmiato in Chiesa. La questione diventa oggetto di dibattito, tutti ne invocano la soluzione, anche la nostra rivista Civiltà delle Macchine dedica al problema un intero numero (n.2/2021) il PNRR prevede risorse da destinare. Insomma se ne parla molto. Ma io sono ormai poco paziente con le chiacchiere e i grandi piani. Mi piacciono le esperienze soprattutto se prima nascono e solo dopo vista la bontà dell’idea e la concreta realizzazione diventano pensiero e attirano risorse.
Dopo la bella esperienza di Ca’ Tron (ne ho scritto nel citato numero della rivista) mi viene incontro qualcosa di diametralmente diverso ma che sento convergente nello spirito. Un progetto cui agganciare il mio bisogno di esperienze concrete e una realtà che ha voglia di camminare con le sue gambe come la bicicletta di Vasco. E pensare che tutto nasce da una crisi e dagli occhi di uno studente che mettendo un cubo di ferro dentro ad un altro vince una borsa di studio! Bene allora si va, è ancora l’alba e per arrivare ad Arezzo ci vogliono due ore e quaranta. Intanto tenete a mente: un alba, un gancio, un cubo, una bicicletta. (continua)