17.12.2019 Pietrangelo Buttafuoco

Fenomenologia di Fantozzi

Pulcinella è la fame, Pantalone è l’avarizia, Arlecchino è la furbizia mentre Fantozzi – nel solco di Carlo Goldoni – è il posto fisso

Il personaggio creato da Paolo Villaggio ha dunque il suo posticino, e non in ruolo nel pubblico impiego, bensì ragioniere nell’ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica, ovvero l’IRI sotto le divertite spoglie della parodia. La maschera del Ragionier Ugo Fantozzi – lo ricordiamo crocefisso alla parete del lungo corridoio col basco “spagnolin” in testa o appeso come parafulmini al tetto dello stabilimento – si definisce nel suo stesso lavoro, presso l’azienda che sta alla guida dell’inarrivabile boom economico.

Il ragioniere guida un’utilitaria, la Bianchina, ha per capo un Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam, ha per moglie un curioso animale domestico, la signora Pina, ha quindi una bertuccia per figlia, un collega come Filini a far da Polluce essendo lui il Castore della situazione ed è una rotellina del conglomerato industriale italiano. È l’omino stritolato da troppi torchi e siccome non c’è sociologismo che decifri lo scarto esistenziale di quella mostruosa tragedia umana – la sua vita piccola piccola di partite in tivvù, birra fresca e rutto libero – ecco la commedia dell’arte a svelare lo smottamento efferato delle dinamiche sociali.

Così il grande romanzo diventa un fenomeno di massa come neppure a Luciano Bianciardi, con “La vita agra”, riesce perché a Fantozzi – altrimenti detto Fantocci, Bambocci o Bambozzi, tanto è nullità per i colleghi e i dirigenti che non impareranno mai a chiamarlo – tocca in sorte di essere veramente esistito. Tutto ciò al tempo dell’Italia quarta potenza industriale quando Ugo Ragionier Fantozzi ha 400 anni e da ben 92 lavora nella Megaditta. Nel luogo dove nessuno ha un posto, il Ragionier Fantozzi, somma – tanto il destino è per lui funesto – un’esistenza di secoli. Una Cacania di nonnulla sempre e comunque senza qualità. Ancora una volta Kaiserlich und Königlich – al modo di Robert Musil per un acronimo che unisca tutte le amministrazioni di Impero e Regno – ma non al punto, per Fantozzi, di risultare un invisibile.

Si accorge di lui un giovane Paolo Villaggio, non ancora scrittore e neppure attore ma impiegato all’Italsider di Genova. Distaccato poi alla Cosider, incaricato nell’organizzazione di eventi aziendali, Villaggio se lo studia il Fantozzi, ne osserva l’iperbole tutta di disfatta di quella vita da impiegato – le giornate trascorse tra i 18.000 megasuoni e i 18.000 megagradi dell’operosità industriale – e ne fa un eroe del parossismo di venghi, vadi e dichi che è si sa il veni, vidi, vici dei subalterni.

Il Fantozzi diventato aggettivo – “fantozziano” è ormai una locuzione corrente – conosce anche la trasfigurazione per innesto amicale. 

Ancora prima di farne racconti per il settimanale “L’Europeo”, Villaggio racconta le gesta di quel suo strambo collega dell’Italsider a Fabrizio De André, il suo sodale nel tirar tardi con cui ha già scritto la canzone di Carlo Martello e l’Italia che dal 1971 ride con i quattro capitoli (e le quattro stagioni) del Fantozzi diventato libro per Rizzoli, due anni dopo si ritrova ad ascoltare il più individualistico e rivoluzionario disco politico dello chansonnier genovese, “Storia di un impiegato”, ed è lui, sempre lui, l’omino che sfugge alla nuvola che perseguita i dipendenti per controllarli per scoprirsi bombarolo.

Sono gli anni Settanta del secolo scorso, è la stagione dei conflitti, il Ragionier Fantozzi è l’ineluttabilmente tapino sebbene garantito in un welfare che lo incoraggia a socializzare con i suoi pari grado nelle gare aziendali, impalato sulla sua bicicletta che è – va da sé – senza sellino. Un’antologica delle gag, o delle sequenze su cui il genio registico di Luciano Salce ha costruito il capolavoro cinematografico di Fantozzi, almeno in tre ben precisi punti ci fa riflettere sulla trasformazione del lavoro nell’orizzonte antropologico e sociale che arriva ai nostri giorni.

Il welfare aziendale, appunto. In fondo la Coppa Cobram questo vorrebbe essere. Lontana anni luce dagli avanzatissimi programmi per il benessere dei dipendenti che sempre più vanno affermandosi in valore assoluto e come elemento di competitività tra aziende nell’accaparrarsi i migliori talenti sul mercato.

Gli uffici nella gerarchia aziendale, quindi. La grottesca assegnazione delle stanze, dagli squallidi seminterrati in cui sono radunati i travet gogoliani ai piani alti dei potenti Duca Conti con le poltrone in pelle umana si è arrivati agli open space, alle cosiddette work station, ovvero loculi intercambiabili.

Un’idea di azienda, quella di oggi, senza vincoli di orario e posto, dove la distanza prossemica tra vertici aziendali e maestranze tende ad annullarsi. In contrasto stridente con l’acquario in cui nuota Fantozzi insieme ai suoi colleghi per rallegrare i dirigenti: rappresentazione feroce di una contrapposizione sociale tanto radicata allora quanto anacronistica oggi.

E infine la mobilità. Il tragitto casa-lavoro. Fantozzi che insegue l’autobus sulla Tiburtina per restarvi appiccicato/spiaccicato, dopo aver stabilito vari record di caffè/prima colazione/igiene personale. Cosa farebbe il Ragionier Ugo oggi? Potrebbe magari usare un car/bike sharing. O addirittura lavorare da casa, nel benessere digitale di uno smart working iperconnesso. Magari però bloccato dai soliti Rag. Gran. Figl. di. Putt. detentori del 5G e di una connessione wi-fi più spedita.

Perché la grandezza dell’epopea di Fantozzi sta nell’essere universale e senza tempo. Cambia il lavoro, cambiano le metodologie ma restano le esclusioni sociali, forse ancora più subdole perché meno visibili. Tale e quale all’omino di sempre, Fantozzi. Nell’epoca dell’azienda globale e immateriale resta uguale agli omini di domani perché intorno a lui – in ogni determinazione del sociale e delle relazioni – ci sarà sempre una racchia focosa come la Signorina Silvani di cui innamorarsi, un arrogante Geometra Calboni da cui proteggersi, un totalmente miope Ragionier Filini con cui legare per fronteggiare il mobbing inesorabile di una macchina inevitabilmente sadica dalla cui guida – ci sia il Megadirettore galattico o la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare – discenderà solo e soltanto il venghi, vadi e dichi. Stigma e segno del destino elargito – anzi – comminato ai subalterni.