Scrivere la storia (dell’automobile) per dispetto. Anche gli americani rendono omaggio a Ferruccio Lamborghini e, nelle settimane scorse, l’Automotive Hall of Fame di Deaborn, lo ha inserito nella sua galleria di 757 benemeriti, innovatori, capisaldi, genii e maestri dei motori. Senza di lui, senza la voglia di fargliela vedere a Enzo Ferrari, non avremmo mai avuto quei capolavori (non solo motoristici...) che sono stati, per dirne giusto un paio, la Miura e la Countach.
Diventa leggenda solo una storia eccezionale. Quella di Ferruccio Lamborghini lo è stata. Appassionato di motori, se ne stava benissimo a far trattori, a motorizzare le campagne dell’Italia del dopo guerra e del boom economico, sottraendo quote di mercato sempre più consistenti alla Fiat. Fatturava milioni su milioni con un’azienda personale, una roba oggi incomprensibile dato che, persino per aprirsi un bar, si ricorre alle società, magari unipersonali, di capitali. Ma quella era un’altra schiatta di imprenditori, di capitani d’impresa, di gente abituata a metterci la faccia, coi piedi fasciati dalle scarpe grosse del contadino e saldamente piantati a terra, con la testa (motorizzata da un cervello finissimo) a tessere sogni da rendere reali.
Ferruccio Lamborghini fotografato con una Jarama e un trattore
La storia (o leggenda?) la conoscono tutti. Ferruccio Lamborghini, sconfitto in una gara in salita dagli amici appassionati come lui di corse e motori, fece notare alcuni difetti alla frizione di una Ferrari al Drake e avrebbe consigliato a Enzo Ferrari di sostituirla con una presa dai suoi trattori. Questi, per tutta risposta, gli avrebbe ribattuto in malo modo consigliandosi di occuparsi di trattori, lasciando le macchine a chi ne capiva. O, magari, di farsela da solo l’auto. Non l’avesse mai fatto. Fu una profezia.
Lamborghini, quello schiaffo, se lo legò al dito e decise di investire quello che sarebbe stato il budget pubblicitario della “Trattori” alla nascita della divisione automobilistica. Ne parlò a tavola con la famiglia, la decisione era presa: o tutto o niente. Rischiò del suo e dei suoi. Avrebbe potuto vivere di rendita, si complicò la vita per cancellare l’onta del Drake. Arruolò le migliori intelligenze che riuscì a trovare, ingegneri, meccanici e collaudatori anche giovanissimi. Dallara e Bizzarrini, per dirne giusto un paio. Puntò tutto sull’innovazione e sulla modernità, sull’estro e sull’estremizzazione, con la bellezza quale stella polare. Al Cavallino si contrappose il Toro, e nulla fu più come prima. Il risultato? È la storia dell’auto, impressa a fuoco nell’immaginario collettivo: Miura, Espada, Countach. Giusto per snocciolare alcuni nomi. Se non vi dicono nulla vuol dire che avete vissuto su Marte, senza una televisione né un fumetto: rimediate subito.
La lezione di Ferruccio Lamborghini è quella del coraggio. La storia dell’Automobile non finirà davvero benissimo a causa di una commessa andata male in Bolivia alla Trattori nel 1970. Il governo sudamericano ne aveva ordinato 5mila che rimasero a prendere polvere perché, intanto, ci fu un colpo di Stato che annullò i contratti stilati in precedenza. L’azienda, che aveva raddoppiato i dipendenti, visse un periodo di intensa contrapposizione sindacale. Erano anni durissimi, il preludio a quelli “di piombo”. La crisi costrinse il gruppo a fare cassa e trasformò i rapporti in fabbrica: non si era più una sola, grande, famiglia comunitaria ma due mondi distinti, capitale e lavoro, separati marxisticamente, in lotta tra di loro.
Addio all’auto, prima. Poi Ferruccio, dopo aver sanato la situazione, si ritirò a vita privata. Il mondo nuovo, ideologico e inaffidabile, avido e arrabbiato, aveva invaso rumorosamente il suo, fatto di cose semplici, di parole date da rispettare, di rapporti umani prima che burocratici. L’uomo che scrisse (per dispetto) la storia dell’automobile, il visionario che aveva rivoluzionato il trattore e l’auto sportiva, fu dunque uno sconfitto della Storia. E ciò, beninteso, non vada a scorno, ma a sua maggior gloria.