Un fil di capello

06 marzo 2023

Di Elio Grande

I fantasmi non esistono, i bambini giudiziosi dovrebbero saperlo. Sotto il lenzuolo, a fare innocua paura, ci sono soltanto l’immaginazione ed un papà giocoso. Scopriamo però da adulti che un visore VR indossato quasi a contatto col cervello, proprio investendo l’immaginazione, può suscitare reazioni inaspettate. Quando vogliamo sapere se un’entità è reale o astratta, ha scritto Yuval Noah Harari in “Homo Deus”, è sufficiente chiederci se possa soffrire. Quando il tempio di Zeus è ridotto in cenere, Zeus non soffre. A parte che non soffre neanche la pietra del tempio – ma l’esempio di Harari è ovviamente circoscritto – questo intelligente criterio suggerisce una domanda: in che modo può essere reale, di converso, ciò che fa soffrire? 


Il dolore infatti, aldilà di eventuali difetti di calibrazione degli strumenti, non è sconosciuto al Metaverso, occupando anzi uno spettro piuttosto variegato. Supponiamo di trovarci – non proprio noi, ma il nostro doppio digitale, pure focalizzato in prima persona – nel bel mezzo della battaglia di Waterloo, tra le truppe francesi. Ad un tratto un soldato olandese, ovvero probabilmente un furbo videogiocatore indiano, ci tira una schioppettata sull’avambraccio destro. Al livello più concreto, è tecnicamente possibile indossare un guanto che provochi scosse elettriche misuratamente dolorose in corrispondenza del colpo d’artiglieria. Ma attenzione: stiamo perdendo sangue, inizia a girarci la testa. Il visore inizia a prendersi gioco del nostro cervello, scombinando lo spazio peripersonale: gli alberi attorno si rovesciano, le luci saettano ed il rumore in cuffia è assordante. Un senso di nausea risale repentino dal nostro vero stomaco, e l’angoscia s’impossessa di noi, imprigionati in un corpo digitale che non è il nostro. 
«Nel dolore si comprova la forma», è scritto nel carteggio tra Ernst Jünger e Martin Heidegger in “Oltre la linea”: un’espressione ambivalente che, presa qui a modello, può portarci su due strade. Da un lato, la realtà virtuale può essere (come difatti è) utilizzata a scopo terapeutico, riabilitando un paziente a gestire le proprie fobie. Dall’altro invece, lo spessore della finzione chiamata “Metaverso” potrebbe assottigliarsi. Il dolore è a un tempo una sensazione nota ed un’entità incomprensibile, un taglio su una tela. Il braccio sanguinante del mio avatar non può perciò consistere solo in un atto spontaneo della psiche, ma è una mistura di mente, bulbi oculari, neuroni, transistor, cavi sottomarini etc. Ogni caduta di una macchia rossa sull’NFT “divisa della Grande Armata cod. 2056A” ottempera a caratteristiche tecniche come latenza e frequenze audio-video dei dispositivi. Magari il Metaverso sarà solo consumo e piacere, o magari no: slegate le fila della finzione inizierà forse un gioco di potenze, la virtualità, dove le facce della realtà si avvicendano come le sezioni di un cubo di Rubik. Vero è che la nostra coscienza, un po' ritardataria, si applica ancora allo schermo tessendo le impressioni in lunghi e fantasiosi racconti, dove elementi come morte e traumatici conflitti a fuoco sono facilmente ripetibili. Ma per il futuro non è detta l’ultima parola: dopotutto la coscienza, dicono, è un fil di capello.