Formula Uno o formula caos? Tanta tecnologia, tanto business, niente sport. A rischio anche i GP di Monza e Imola

04 aprile 2023

Di Massimo Falcioni

Il troppo stroppia, si sa. Ogni eccesso diventa negativo. Vale da sempre, per tutti e per tutto. Anche nello sport. Anche per la Formula Uno iper tecnologica , show-business per eccellenza ma sempre più business, sempre meno show, sempre meno sport. La domanda, anche dopo quel che è accaduto nell’ultimo Gran Premio d’Australia del 2 aprile 2023, si pone: F1, cosa sei diventata? Dove vai? Il direttore di corsa Wittich, il duro del “niet” che ha persino vietato gli orecchini ai piloti e i festeggiamenti dei meccanici e degli ingegneri dei Team al muretto box, è finito nella bufera dopo la gara-caos di Melbourne. Tutte le squadre con il muso lungo. Persino i piloti, gente che in pista pensa solo ad abbassare il tempo sul giro e a stare davanti agli avversari, si ribellano a questa F1 nell’imbuto del caos. Adesso nel mirino c’è Wittich. Ma dietro c’è altro, c’è di più, c’è la domanda che chiede risposta: cos’è questa Formula Uno che usa le “bandiere rosse” come pretesto per creare spettacolo?

Le tre partenze date a Melbourne, le bandiere rosse, le Safety Car, le polemiche – a guisa della coppa paesana di ruzzola di una sagra emiliana - non sono un caso, “voce dal sen fuggita”. Sono il seguito di una serie di decisioni prese ai piani alti del Circus rombante, di episodi e di fatti tradotti nei box e in pista ufficialmente in nome della sicurezza ma di fatto per alimentare interesse, tenere la gente in ogni continente attaccata alla tv, pro audience pro business. Così la Formula Uno perde la sua identità storico- culturale e smarrisce il suo valore tecnico agonistico: diventa Formula caos. Per capire la filosofia di quel che sta accadendo non serve addentrarsi in dotte e complicate disquisizioni tecniche e tecnologiche su questa F1 che del passato conservano solo le 4 ruote. Tutto ruota attorno allo show tradotto in business. In F1 lo start è il momento di maggior tensione, emozione, interesse che può tradursi in audience, cioè in business? Ecco la moltiplicazione delle partenze da fermo, arrivando a 3, come a Melbourne. Addirittura si è interrotta la gara a due giri dalla fine. Ed era successo la stessa cosa con la prima bandiera rossa, quella seguita all’incidente di Alex Albon. Situazioni che potevano essere gestite con in pista la Safety Car, dando il tempo necessario per rimuovere detriti e auto incidentate. Ma la Safety Car mette in fila tutte le auto, crea il trenino che è solo noia, non interessa nessuno, fa crollare l’audience, delude gli sponsor che minacciano di tagliare il budget. Eccesso di prudenza in nome della sicurezza? Si sfrutta tutto, anche l’incidente, pro audience, cioè pro business. Si confonde l’intrattenimento con lo sport. C’è lucidità in ogni atto immolando lo sport sull’altare del business. Ma, così, quante sono state nelle ultime stagioni le “gare-farsa”? Tradotto in sintesi, si può dire che la F1 si sta sempre più americanizzando alla guisa di quel che sono la 500 Indycar a Indianapolis o la 500 Nascar a Daytona. Gare seguitissime in tv e con le tribune traboccanti di fan nel week-end: fino a 500 mila a Indianpolis, sopra 300 mila a Daytona. La corsa è la “scusa” per passare nell’autodromo-luna park due-tre giorni (e notti) diversi: il fulcro dell’evento non è tanto la corsa ma tutto quello che gli ruota attorno, gli eventi collaterali di ogni tipo, per tutti i gusti, per tutte le età, per tutte le tasche. Quando in pista non c’è più battaglia e la tribuna s’annoia, ecco l’incidente, tutti in piedi a ridar fiato alle trombe, a consumare bevande e cibi, a far girare montagne di dollari. A fine gara, di solito, la maggior parte del pubblico non sa neppure chi ha vinto, su quale auto ha corso, con quali caratteristiche tecniche. Così funziona e così gira la ruota delle corse show-business.

La Formula Uno, una volta solo europea, si è globalizzata, americanizzandosi, o se più garba, adattandosi, come tutto il resto, ai cambiamenti di tutta la società, di (quasi) tutte le società, di (quasi) tutto il mondo. Prima di tutto è business, poi è sport. Vale anche per questa Formula Uno. L’ex patron F1 Bernie Ecclestone disprezzava il web e i social e questo non piaceva al fondo d’investimento di riferimento (CVC) che voleva solo la crescita dei conti in banca. Cambiato il deus ex machina, cambiati musica e suonatori, in una manciata di anni il valore del “pacchetto” azionario della Formula 1 è più che triplicato. Pur nel quasi caos di domenica scorsa a Melbourne, la F1 ha registrato una affluenza di 444.631 spettatori nei quattro giorni all’Albert Park in Australia, record assoluto di presenze in un GP. La Formula Uno è passata da 400 milioni di telespettatori dell’era Ecclestone  a oltre  1 miliardo di telespettatori nel mondo. Il giro d’affari di Liberty Media, proprietaria della Formula1, nel 2022 ha registrato un fatturato pari a 2,4 miliardi di euro, in aumento rispetto ai 2 miliardi del 2021 soprattutto grazie al mercato Usa. Nel 2023 ci sono in calendario 24 round e c’è una lunga fila di Paesi in lista per avere un Gran Premio di Formula Uno. E in Italia, culla del Motorsport e sede della Ferrari simbolo della F1, c’è il rischio che dal 2025 saltino i GP di Monza e Imola. Costi troppo alti. Mancano le infrastrutture. Detto in modo più chiaro, mancano i soldi. Vacilla la volontà politica. L’Italia rischia di ammainare anche questa bandiera.