10.05.2023 Anna Giurickovic Dato

Giocando si impara. Il Gaming a scuola

Marco Vigelini è un esperto di formazione su metodologie didattiche digitali, ha ideato la Lega Scolastica Esports e ha introdotto, per primo in Italia, l’utilizzo del videogioco Minecraft come strumento didattico all’interno delle scuole.

La sua sfida non è quella di sostituire il tempo dello studio con il tempo ludico ma, al contrario, di sfruttare le potenzialità di ingaggio tipiche dei videogiochi per formare i giovani e trasmettere loro le competenze necessarie ad affrontare il prossimo futuro. È stato nominato tre i dieci migliori educatori Minecraft al mondo, è l’unico formatore certificato Minecraft in Italia e qui racconta la sua visione, sfatando anche qualche pregiudizio.

Credits: Unsplash

Con la sua società, Maker Camp, organizza eventi e contest per giovani studenti e porta la formazione “gamificata” nelle scuole. Da dove è partito? Com’è nato il suo interesse per il gioco?

Sono sempre stato un giocatore o, piuttosto, un curioso dei videogiochi, ma la cosa che a un certo punto mi ha entusiasmato è stato vedere come un gioco come Minecraft fosse ricco di elementi educativi. Ci giocai, all’epoca, con mia figlia che frequentava la seconda elementare e da quel momento mi sono reso conto delle potenzialità infinite del gioco. Per questa ragione ho deciso di portarlo nelle scuole italiane, di utilizzarlo come strumento per coinvolgere gli studenti. Era un videogioco, ma nascondeva molto altro…

Quali sono gli elementi educativi di cui parla?

Mi sono innamorato di Minecraft per due aspetti: uno è che è creatività allo stato puro; l’altro, è che rappresenta uno strumento universale, inclusivo, che non si presta a nessuna discriminazione, a partire da quella di genere. Se prima ero riuscito a portare a scuola diversi strumenti tecnologici – e parlo di robotica, di stampa 3D – in Minecraft ho visto un unico strumento molto più completo… L’arte, che probabilmente è un elemento comune a qualunque tipo di linguaggio, attraverso il gioco è creata dagli studenti, che smettono di ricoprire il mero ruolo di “fruitori” e diventano i “fautori”: in sostanza, si tratta di ribaltare la logica messa a disposizione dalle scuole, introducendo nei luoghi di insegnamento un linguaggio innovativo, quello, appunto, dei videogiochi, che è estremamente efficace per ingaggiare i ragazzi e permettere loro di esprimersi. In questo modo, attraverso l’applicazione di questo linguaggio all’apprendimento, non solo si riescono a insegnare e impartire molte competenze, ma si può arginare il fenomeno della dispersione scolastica. Se, alla fine delle lezioni, il desiderio del ragazzo è comunque quello di tornare a casa e videogiocare, noi gli chiediamo di giocare a scuola, di vivere il videogioco in un contesto differente, non solitario, ma aggregativo e collaborativo. Gli studenti non apprendono solo informazioni e competenze, ma anche skills umane e relazionali.

I videogiochi, comunque, soffrono ancora di uno stigma sociale. Si è trovato e si trova davanti a molti pregiudizi mentre cerca di incentivare i giovani a utilizzare i videogames?

Sì, falsi pregiudizi, sfatati da molte ricerche. Per questo trascorro parte del mio tempo a informare, a fare divulgazione. L’obiezione principale che viene posta è che il gioco sia una perdita di tempo, nulla di serio. Come si può sostenere una cosa del genere in un mondo dove il gaming ricopre, ormai, una posizione così centrale? Pensiamo, per esempio, al PNRR: per la prima missione, dedicata alla digitalizzazione, all’innovazione e alla cultura, sono stanziati meno di cinquanta miliardi. Meno di cinquanta miliardi per digitalizzare tutta l’Italia… Per rendere meglio le proporzioni: solo Microsoft ha acquisito una società di videogiochi, Activision Blizzard, per ben sessantadue miliardi, eccolo il valore dei videogiochi. E ancora, basterebbe pensare che dal 2008 il settore musicale e quello cinematografico messi insieme non arrivano a eguagliare neanche un terzo del settore dei videogiochi. D’altra parte, nei videogiochi sono presenti musica, regia, sceneggiatura… E come si spiega che, nel 2016, Shinzō Abe, ex Primo ministro del Giappone, andò a ritirare la torcia olimpica a Rio de Janeiro, in uno stadio pieno e in mondovisione, travestito da Super Mario? Com’è possibile che un Primo ministro vada in giro vestito da personaggio di un videogioco? Immagina Mario Draghi o Giorgia Meloni andare in giro vestiti da gondolieri veneziani o da gladiatori? Ecco: il Giappone non solo è la patria dei videogiochi, ma è anche la terza potenza economica al mondo… I videogiochi esistono dal 1974 e sono qui per rimanerci, rappresentano un settore in enorme crescita e, tra quindici o vent’anni, non sappiamo quanto si sarà espanso il loro ruolo nelle nostre vite, dato che già si parla di metaverso…

A proposito di metaverso, crede che sia un mondo inverosimile, del tutto ipotetico, oppure il prossimo futuro?

Credo che il metaverso sia una scommessa, a oggi, molto azzardata, ancora primordiale. Parlo senza pregiudizio, né scetticismo, perché ho addirittura comprato un terreno digitale e, chiaramente, spererei nello sviluppo del metaverso, quantomeno perché il mio investimento dia i suoi frutti. Sarei felice di usarlo per fini educativi, portandovi i ragazzi, permettendo loro di esibire le proprie creazioni. Se e quando il metaverso sarà una possibilità reale, spero diventerà, prima di tutto, un’opportunità educativa per i ragazzi.

Il gaming, e in generale le piattaforme online, racchiudono opportunità, ma anche rischi. Anche chi non nega le centralità dei videogiochi, non può non porsi il problema della sicurezza dei minori, della protezione dei loro diritti. Come risponde alle obiezioni, per esempio, dei genitori degli studenti?

Penso che i minori siano sempre i più esposti, in ogni contesto. Ogni qual volta offriamo loro degli strumenti, dobbiamo accompagnarli, seguirli, non lasciarli da soli. Nessuno darebbe le chiavi di un’automobile senza freno a un bambino. Quello che io vedo sono genitori spaventati, ma privi di competenze in merito, troppo impegnati dalla vita moderna per avere quel tempo sufficiente da dedicare alle nuove tecnologie. Tuttavia, la tecnologia ha un piccolo difetto: non si ferma ad aspettare chi è impegnato, ma va avanti. E mentre va avanti, noi non possiamo restare indietro rispetto ai nostri ragazzi che, invece, apprendono con una certa facilità a utilizzare i nuovi strumenti. Bisogna pensare al videogioco come a un qualsiasi gioco, ma con un forte ingaggio, che può renderlo la chiave per l’apprendimento dei nostri figli. Dobbiamo essere capaci di ribaltare le logiche del gaming e sfruttarle per far leva sulle cose che ci interessano. Per fare cultura, per esempio.

Si discute molto dello status giuridico che si dovrebbe dare alla violenza “virtuale”: se il mio avatar desse un pugno all’avatar di un mio compagno di gioco, l’atto violento avrebbe conseguenze nel mondo fisico?

Esistono diverse ricerche sull’argomento: alcune ritengono non via sia alcun nesso tra videogiochi violenti e la violenza del soggetto che ha videogiocato; altre, affermano che i videogiochi violenti abbiano la capacità, paradossalmente, di ridurre la violenza del mondo. Il binomio videogioco/violenza è denigratorio rispetto alle potenzialità del gaming. Sulla base della mia esperienza – che, ovviamente, non ha la forza di alcuna ricerca – credo di poter dire che i bambini che non hanno mai videogiocato non si sappiano controllare quanto i ragazzi che, invece, videogiocano; questi ultimi hanno affinato la capacità di gestire l’attrito, sono più abituati a mediare. Le faccio un esempio concreto per spiegarle come il videogioco, anche qualora presenti scenari “virtualmente” pericolosi, possa produrre proprio l’effetto contrario, innescare la prudenza: con Minecraft abbiamo ricreato alcuni scenari di rischio per la Protezione Civile, abbiamo mostrato ai ragazzi delle situazioni pericolose, com’è pericoloso mettersi a guardare un fiume che cresce o approssimarsi a una montagna poco prima di una valanga. Vivendo quell’esperienza, il personaggio virtuale spesso muore e chi gioca comprende di aver sbagliato qualcosa, che non sarebbe dovuto andare verso la montagna dove si stava creando la nube, che avrebbe dovuto evitare la nevicata o la tempesta. Ecco, grazie alla ricostruzione di tali scene riusciamo a veicolare determinati aspetti. Attraverso lo strumento “gioco”, riusciamo a trasmettere, in reazione a un pericolo virtuale, anche una maggiore prudenza, competenze specifiche, un sapere reale che potrebbe essere anche utile nella vita.

A livello professionale, si parla di e-sport, gare tra videogiocatori che vengono trattati come veri e propri sportivi, hanno un proprio coach, un nutrizionista, una squadra di appartenenza. Eppure sono seduti di fronte a un computer. Qual è la differenza tra gioco e sport?

Correre è uno sport, ma anche giocare a freccette lo è, come sono sport gli scacchi, il Bridge, il Polo. Esiste addirittura una federazione che distingue gli sport fisici da quelli di intelletto, oppure quelli che prevedono l’uso di animali da quelli che prevedono l’uso di macchine. Anche tradizionalmente lo sport è identificato con lo sforzo fisico e/o con l’abilità. Il dizionario fa riferimento, indistintamente, a un’attività che impegni capacità fisiche o psichiche. E poi, basta pensare che il Comitato Olimpico Internazionale porterà alle Olimpiadi di Parigi, nel 2024, ben otto videogiochi competitivi. È vero, chi videogioca è seduto su una sedia, ma deve affrontare sfide estremamente complesse. In ogni caso, il nerd che sta dietro alla tastiera fino alle quattro del mattino – tipico di un certo immaginario – non è di certo il nostro tipo di giocatore: noi, il videogioco lo portiamo a scuola, lo rendiamo un momento non solo competitivo, ma anche di apprendimento, relazionale, attivo. Noi vogliamo evitare che i ragazzi videogiochino da soli, a casa, e li spingiamo, invece, a unirsi in gruppi, a interagire e collaborare, costruendo team di diverse sezioni, scuole, regioni d’Italia.

Per alcuni, giocare con noi ha significato persino emanciparsi: abbiamo un team dell’Isola della Maddalena, l’isola nell’isola, ragazzi isolati per definizione, che non sono mai usciti da lì. Grazie al progetto si ritrovano, d’improvviso, a interagire con coetanei di tutta Italia e anche americani. Spero si qualifichino e possano venire a Roma per il grande evento finale.