20.06.2022 Carlo Frappi

Gazprom, Rosneft e gli altri nell’era di Putin

L'ampia disponibilità di idrocarburi ha garantito alla Russia di Putin una rinnovata legittimità interna ed internazionale, fondando gran parte della sua influenza e potere sulla gestione strategica del settore energetico

Difficile sopravvalutare il peso che l’ampia disponibilità di idrocarburi ha rivestito, nel corso dell’ultimo ventennio, per il prepotente ritorno sullo scenario internazionale della Federazione Russa. Di una Russia putiniana che – coerentemente con la logica che guida l’azione di un Petrostato – ha fondato sullo sfruttamento del comparto energetico una significativa porzione della propria legittimità interna e internazionale. Senza timore di enfatizzare eccessivamente il ruolo giocato dal comparto energetico nella storia recente del paese, si può infatti affermare che esso abbia svolto un ruolo pivotale e caratterizzante per la ricetta putiniana volta a restituire alla Russia quel ruolo significativo e quell’elevato rango nel Sistema Internazionale che la dissoluzione sovietica prima e il disastroso decennio eltsiniano sembravano aver sottratto a essa. Il pragmatico utilizzo delle risorse naturali, come rivendicato dalla stessa Strategia di Sicurezza Nazionale del 2009, ha dunque «ampliato le possibilità per la Federazione Russa di rafforzare la propria influenza nell’area internazionale». In ciò, l’elemento interno e quello esterno – ovverosia il peso avuto dalla gestione del comparto nell’evoluzione politico-istituzionale interna e la sua valorizzazione nell’ambito della politica estera – sono difficilmente scindibili.

Dal punto di vista interno, oltre a favorire il rilancio di un’economia uscita disastrata dalla crisi del 1998 e ad assicurare nella prima decade del secolo rilevanti tassi di crescita, il comparto energetico ha giocato un ruolo decisivo nel processo di centralizzazione e verticalizzazione della gestione del potere e della macchina statale. Il comparto è assurto, per questa via, a terreno privilegiato di scontro con la famiglia eltsiniana, con quelle oligarchie politico-economiche che avevano beneficiato delle privatizzazioni selvagge degli anni Novanta e finito per rappresentare centri di potere alternativi allo Stato, inficiandone una coerente azione interna e internazionale. Celebre, in questo senso, l’offensiva giudiziaria al colosso energetico Yukos – e al suo presidente, Mikhail Khodorkovsky – che ha portato allo smantellamento della compagnia e alla sua acquisizione da parte di attori statali vicini al Cremlino, quali Gazprom e Rosneft.

La guerra alla famiglia eltsiniana è così proceduta di pari passo con l’estensione del controllo statale al settore energetico che, a sua volta, ha costituito lo strumento privilegiato attraverso il quale il Cremlino ha teso a imbrigliare la libertà d’azione degli investitori esteri, controllandone di fatto le attività. Se, da una parte, la Russia non poteva far a meno di investimenti e know how stranieri, dall’altra, la centralità dello sviluppo del comparto per la ricetta di governo e di politica estera putiniana imponeva di limitarne l’autonomia, attraverso una serie di prerogative che vanno dalla supervisione degli accordi alla normativa statale, dalla partecipazione di imprese di Stato al controllo delle reti di trasporto.

All’oligarchia di potere eltsiniana, Vladimir Putin ha sostituito una cerchia di fedeli collaboratori e consiglieri, che d’allora hanno contribuito in tempi e modalità differenti alla formulazione e attuazione della politica dell’energia: da Dmitrij Medvedev all’AD di Gazprom, Alexei Miller, dall’AD di Rosneft, Igor Sechin, fino a Vladislav Surkov, già al vertice di Transnefteprodukt e consigliere presidenziale fino al suo allontanamento nel 2020.

(Copertina) Disegni preparatori del progetto The Fallen Chandelier, Ilya & Emilia Kabakov, 1997 Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli. (Sopra) Black Circle, Kazimir Severinovič Malevič, 1923 ca., olio su tela

La salda presa esercitata all’interno sulla macchina energetica ha permesso al Cremlino di sfruttare appieno, sul versante esterno, la notevole crescita fatta registrare della domanda – e dei prezzi – degli idrocarburi nella prima decade del secolo. Ciò è valso in particolar modo nel delicato settore del gas naturale, le cui rigide caratteristiche di commercializzazione – richiedendo maggior programmazione e vincolando nel lungo periodo fornitori, paesi di transito e consumatori con accordi eminentemente bilaterali – ne fanno risorsa più politicamente sensibile rispetto al petrolio. Gazprom, detentore di un monopolio sulle esportazioni russe via tubo, ha così progressivamente incrementato i volumi esportati e le quote detenute nei mercati europei. E questo, di converso, si è tradotto in un significativo aumento del potere negoziale russo nei confronti dei paesi importatori, rispetto ai quali Mosca ha potuto far valere le accresciute ragioni di scambio attraverso modalità differenti a seconda del differenziale di potere detenuto. Con potenze minori, e specialmente nello spazio post-sovietico, la leva energetica è stata utilizzata in maniera più spregiudicata. Come rimarcato da una procedura antitrust avviata dalle autorità europee nel 2012 e chiusa transattivamente nel 2018, Gazprom ha ostacolato la concorrenza e attuato strategie abusive in questi mercati, mantenendoli isolati gli uni dagli altri, adottando una politica dei prezzi sleale e subordinando le forniture all’assunzione di impegni di altra natura. Al contempo, e nei confronti dei più rilevanti attori sullo scacchiere europeo – dalla Germania all’Italia, passando per la Turchia – Mosca, facendo leva sul principio dell’interdipendenza tra esportatori e importatori, ha elevato la cooperazione energetica a spina dorsale di partenariati bilaterali strategici.
Per questa via, il Cremlino ha potuto perseguire efficaci strategie di sicurezza energetica, che per un paese esportatore si traducono nella sicurezza della domanda – ovverosia nella garanzia di ininterrotto accesso ai mercati di volumi di energia sufficientemente ampi e a prezzi adeguati alle necessità della propria politica di spesa. Così, nella prospettiva di contrastare la cosiddetta tirannia della distanza tra giacimenti e mercati e, soprattutto, di ridimensionare la vulnerabilità associata al transito attraverso Stati terzi, non necessariamente allineati – se non apertamente ostili – al Cremlino e/o indisponibili a cedere alla Russia il controllo delle reti di trasmissione, la Russia ha così promosso una serie di infrastrutture sottomarine coerenti con il rafforzamento dei partenariati bilaterali con i propri interlocutori privilegiati europei. È a questa logica – riconducibile, se si vuole, anche alla più tradizionale strategia di divide et impera – che si inserisce la realizzazione dei gasdotti Nord Stream I e II nel Baltico o Blue Stream e TurkStream nel Mar Nero.

D’altra parte, in maniera uguale e contraria rispetto a quanto accade per uno importatore, la sicurezza energetica di un paese esportatore è anche sinonimo di diversificazione. L’eccessiva dipendenza da un numero limitato di mercati rappresenta cioè una fonte di vulnerabilità, tanto più se i clienti dai cui mercati si dipende – come nel caso della Russia nei rapporti con l’Unione europea – adottano politiche espressamente rivolte a limitarne le quote di mercato. Alla offensiva normativa dell’UE volta a ridimensionare la vulnerabilità associata alla dipendenza dalle forniture russe di gas il Cremlino ha fatto dunque fronte con una strategia di diversificazione valutabile su tre piani distinti e paralleli: delle strategie di commercializzazione, dei vettori di esportazione e dei mercati di sbocco. Dalla prima prospettiva, Gazprom ha adottato forme contrattuali più flessibili e in linea con la normativa europea, che hanno peraltro permesso al gas naturale russo di rimanere più competitivo rispetto alla concorrenza – anzitutto del GNL statunitense. Al contempo, assicurando ad altri produttori la possibilità di esportare gas in forma liquefatta, il Cremlino ha promosso lo sviluppo del settore del GNL. Avviate nel 2009, le esportazioni attraverso navi metaniere sono giunte a coprire nel 2020 circa un sesto delle esportazioni. L’avvio delle esportazioni di gas liquefatto è stato, peraltro, uno dei pilastri anche per la diversificazione dei mercati, avendo aperto alla Russia la strada verso i più profittevoli mercati asiatico-orientali. Il terzo vettore della diversificazione è stato d’altra parte perseguito risolutamente anche attraverso infrastrutture terrestri dirette verso la Cina. A partire dal 2019, e sulla base di un contratto di fornitura trentennale, il gas russo ha iniziato a fluire lungo il gasdotto Power of Siberia, che a piena capacità potrà trasportare dal 2025 un volume di metano pari a circa il 15% delle esportazioni totali russe del 2020 – mentre Mosca e Pechino hanno già avviato colloqui per un suo possibile raddoppio entro la fine del decennio.

Sebbene ancora incompiuta, la strategia di diversificazione del Cremlino e di emancipazione dalla dipendenza dai mercati europei – che nel 2020 assorbivano ancora il 78% delle esportazioni dalla Russia – diventa oggi elemento cruciale per affrontare le ricadute della profonda crisi nelle relazioni con i partner europei messa in moto dall’aggressione all’Ucraina. Mentre, infatti, il principio dell’interdipendenza – o, se si vuole, della mutua dipendenza – tra esportatore russo e importatori europei ha mostrato un elevato grado di resilienza alla crisi, quest’ultima ha nondimeno dimostrato come la mera logica di mercato di incontro tra domanda e offerta non possa essere perseguita in un vuoto di considerazioni strategiche. 

Considerazioni, queste ultime, che conducono oggi i consumatori europei sulla strada di una più risoluta politica di riduzione della presa di Mosca sui mercati continentali.