Grandi Illusioni, dove trovarle. E come smascherarle (forse)

14 marzo 2023

Di Vincenzo Pisani

Riflessioni intorno al saggio di Jonathan Gottschall “Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge”

L’ultimo saggio di Jonathan Gottschall, teorico della letteratura statunitense, restituisce il senso di un’inattesa presa di coscienza che potrebbe emergere nel mezzo di una seduta psicoterapeutica. Quell’ intuizione netta di fatti esterni o interni che gli addetti ai lavori chiamano insight. Oppure, da un altro punto di vista, Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge, edito da Bollati Boringheri nel 2022, può sortire lo stesso effetto dell’ultimo pasto – il più ricco, il più appagante – del condannato alla pena capitale. È questa invero una delle plausibili derive cui può condurre la decostruzione operata dall’autore. Smettete di credere in qualunque cosa fino ad ora abbia tenuto insieme il vostro mondo. Spogliatevi di ogni religione, ideale, convinzione etica e morale. E fatelo senza indugio, incalza Gottschall, perché solo grazie a questo disassemblaggio di qualsivoglia riferimento socioculturale salveremo la civiltà umana. Una necessaria demolizione (Abbau) heideggeriana che nasce dall’assunto secondo il quale le nostre idee e la nostra visione dell’esistenza originano dalle grandi narrazioni di cui siamo inconsapevoli discenti. 
Fin dalla nascita siamo infatti esposti al flusso continuo delle storie: sotto forma di fiabe ai nostri primi passi e attraverso la letteratura, il cinema, la tv, i social media (finanche i pettegolezzi) in età adulta. È un condizionamento connaturato all’umano, sostiene l’autore, poiché l'Homo Fictusl’uomo finzionale, che si costruisce in base all’invenzione narrativa - è il diretto erede dell'Homo Sapiens, proprio perché gran parte della nostra vita è rappresentata dalle storie e dalla capacità di narrare. Non possiamo farne a meno, in ogni epoca storica e latitudine nel mondo. 
A riprova della sua teoria, Gottschall inserisce nel suo saggio uno scatto di Nat Farbman, tratto dal reportage che il fotografo statunitense pubblicò sulla rivista Life nel 1947. L’immagine ritrae una comunità khoisan dell’Africa meridionale. Cattura l’istante in cui un gruppo di bambini e giovani adulti, seduti in circolo, ascoltano rapiti l’uomo anziano al centro della scena - il cantastorie del villaggio - che agita le braccia e deforma il viso in una smorfia di stupore, come per rafforzare la tensione del suo racconto. 
In questa scena, tanto intima quanto universale, è racchiusa l’intera tesi dell’autore. Le storie sono potenti, ci conquistano e ci avvolgono. Le ascoltiamo attoniti, ammirati, indifesi, come mai faremmo di fronte ad un rapporto dettagliato e fattuale di uno scienziato, quand’anche riportasse dati e scenari su un tema che ci riguarda da vicino. La nostra mente, spiega Gottschall, rifacendosi a studi di neuroscienziati, antropologi, psicologi, filosofi e teorici della comunicazione – per crescere emotivamente e cognitivamente, ha bisogno di figurare, immaginare ciò che recepisce nella forma di ascolto, visione o lettura. Una buona storia – che arrivi a noi attraverso la penna di Tolstoj o per mezzo di una produzione seriale televisiva – attiva le nostre cellule neuronali, ci trasporta nell’universo fittizio del narratore, portando inconsapevolmente ad una sospensione dell’incredulità. Al nostro cervello non serve aver conosciuto un alieno o un’epoca storica lontana nel tempo. Ci fidiamo istintivamente del contesto, se il narratore riesce a restituirci le emozioni, i conflitti e le scelte dei personaggi, fino a farci sentire parte dell’azione. 


Quando ci immedesimiamo nelle storie, le nostre cellule neuronali si comportano come se fossimo parte del racconto. È un processo biologico e culturale che esiste fin dalla notte dei tempi: dal cantastorie khoisan, ai podcast che ascoltiamo dal nostro smartphone.  E senza saperlo, noi tutti, come sudditi di un grande impero delle narrazioni, assecondiamo la funzione che è sempre appartenuta alla diffusione del racconto: creare un legame sociale, rafforzare una comune cultura, apprendere. Ma, ed è qui il lato oscuro, gli studi più recenti sulla nostra mente, proverebbero una nostra naturale predilezione per il conflitto e la sua risoluzione in termini piuttosto manichei: noi e loro, amici/nemici, bene/male. Come piccoli soldati giudicanti, tenderemmo a parteggiare per una lettura dei fatti e a difenderla contro ogni evidenza. E questo metro si applicherebbe ad ogni narrazione, persino alle ricostruzioni storiche. Per dirla con le parole dello storico Karl Deutsch “una nazione è un gruppo di persone unito da un errore comune relativo alle proprie origini e da una comune avversione contro i vicini”. 
Il perché di tanto manicheismo, ci spiega Gottschall, deriverebbe dall’innata intolleranza degli umani verso l’inspiegabile. Abbiamo bisogno di ordine, di dare un senso alla nostra esistenza e rispondere, se possibile, ad ogni mistero. Chiarite queste premesse, l’autore applica questa interpretazione al successo delle teorie del complotto, che spaziano dalle leggende sui protocolli di Sion fino alle più recenti conferenze dei terrapiattisti, passando dal falso allunaggio alla congiura degli illuminati. Non possiamo sopportare, in altri termini, la complessità del reale. Il gioco del “noi e loro” è troppo allettante e soddisfacente, ci rassicura e ci consente di sentirci parte di una comunità “che ha capito” e sa “come stanno veramente le cose”. Fin qui, il saggio di Gottschall sembra effettivamente portarci una chiave di lettura affascinante e credibile. Tuttavia, “il lato oscuro” della sua tesi prende forma nel momento in cui, dopo aver passato un immaginario trattore sopra ogni nostra certezza – anche la scienza è narrazione, ci mette in guardia, perché ci aggrappiamo per secoli o decenni ad assunti che ulteriori scoperte finiranno per smentire – l’autore getta un timido seme di speranza, affidandosi ad un generico “senso critico” e alla capacità di “provare empatia”.  Se fossimo nati anche noi nella Germania hitleriana, forse avremmo creduto a quella narrazione. Se ci trovassimo in un determinato contesto sociale e culturale, anche noi potremmo ascoltare il canto delle sirene di qualche militante terrorista, finire per commettere crimini, fare nostre letture estremiste, razziste, disumane. E dunque, suggerisce, dobbiamo metterci nei panni di chi, in qualche latitudine del mondo o epoca storica, crede o ha creduto a ciò che dal nostro punto di vista è socialmente e moralmente inaccettabile. Figlio anche lui della “sua” narrazione, Gottschall conclude con una soluzione pragmatica e relativamente semplice: apriamoci al pluralismo delle fonti, riempiamo i nostri atenei dei più disparati punti di vista, diffidiamo del nostro istintivo manicheismo. La verità, sembra dirci, la troveremo nell’incrocio e nel dialogo in questa congerie di interpretazioni e di storie. 


È sospetto che l’autore non citi mai un saggio del 1979 che, molto prima, aveva già parlato del potere delle grandi narrazioni. "La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard”, più di quarant’anni fa, raccontava il nostro contemporaneo come un’epoca segnata dalla “incredulità nei confronti della metanarrazioni”.  Non esiste più un discorso che sia in grado di porsi al di sopra, una verità ultima cui appellarsi. L’uomo post-moderno ha perso Dio e ha perso anche la scienza, che non è più in grado di indicare in modo indiscutibile che cosa sia il vero e che cosa sia il falso. Il filosofo francese svelava già allora il venir meno delle grandi narrazioni - illuminismo, idealismo, marxismo - che avevano ispirato le teorie rivoluzionarie e le ideologie dal XVIII al XX secolo. Ciò che resta sono criteri di giudizio e di legittimazione di valore locale, non più universale. E nella sua ricerca, Lyotard muove le sue indagini degli ultimi anni verso il ruolo della razionalità pratica e la rivalutazione del "sublime" come categoria critica del reale nelle sue Lezioni sull’analitica del sublime (1991), dove un ruolo cruciale gioca l’estetica. Le riflessioni sull'arte sono sempre state per Lyotard anche di cruciale importanza filosofica. Come spiega il filosofo tedesco Wolfgang Welsch ne La nascita della filosofia postmoderna dallo spirito dell'arte moderna (1999), secondo Lyotard “l'arte tradizionale confidava in una realtà che poteva essere rappresentata, amplificata o addolcita. L'arte moderna, invece, non può più procedere in questo modo. Essa è fondata su un vero nichilismo in quanto ha compreso che la realtà non basterà e che di conseguenza la pittura deve procedere da se stessa, cioè riflessivamente; ciò significa che essa deve porsi alla ricerca delle regole del proprio operare conducendo nuovi esperimenti per determinarle […] Così, se la pittura moderna costruisce un rinnovato riferimento alla realtà lo fa solo per mostrare quanto poco reale sia la realtà”. Welsch sostiene infatti che tutti gli sforzi degli artisti d'avanguardia sono stati governati da una domanda: che cos'è la pittura? Che cosa serve per farla: colore, disegno, prospettiva, canovaccio, composizione, il ricoprire una superficie con del pigmento, un particolare luogo di esposizione, la sua permanenza in un luogo o la sua trasportabilità o, per esempio, l'indipendenza dalla persona dell'artista? Ogni stile pittorico ha tentato di cambiare una di queste costrizioni che sono state conservate come regole di base per trecento anni. In questo modo, la pittura è diventata essenzialmente riflessiva. Ciò ha portato al passaggio da un'estetica del bello a un'estetica del sublime. Come arte riflessiva, quella moderna non è più solo un'impresa dei sensi, ma anche della mente e del pensiero. Essa si oppone espressamente all'essere confinata entro il puro vedere e la pura percezione sensoriale in generale. Ce lo ha mostrato Luis Buñuel nel suo film “Un cane andaluso” nel 1928, mostrando il taglio da parte a parte di un occhio umano: l’arte è il tentativo di mostrare l’irrappresentabile. Un’impresa che non può affidarsi solo alla vista. Ha bisogno della mente, della riflessione, del pensiero. E la creazione artistica diviene un'arte del sublime, che cerca di cogliere l’invisibile, l’irrappresentabile. Quella verità ultima che, per quanto cerchiamo di raggiungere, resta un mistero.  Ed è qui, afferma Welsch, la forza del pensiero di Lyotard: l’arte – soprattutto le sue avanguardie – ci insegna l’anelito alla continua sperimentazione, alla ricerca critica. Secondo Lyotard, gli artisti d'avanguardia “impegnano loro stessi... nel compito dello sperimentare". Il loro sublime è indirizzato all'infinità degli esperimenti plastici ancora da farsi e diviene matrice e forza dominante di una serie interminabile di esperimenti, con potenzialità e realtà effettive. Una visione che va contro il positivismo del reale e tutte le presunzioni di assolutezza. "La questione dell'irrappresentabile” scrive Lyotard “è ai miei occhi... la sola su cui valga la pena scommettere vita e pensiero nel prossimo secolo".
In altre parole, laddove il nostro saggista statunitense svelava le grandi illusioni di cui ci nutriamo attraverso le storie – utopiche o distopie che siano – per poi lasciarci sul ciglio di un precipizio, aggrappati ai fragili appigli di una generica empatia e un altrettanto ambiguo senso critico, forse vale la pena tornare alla Vecchia Europa di Lyotard e affidarci ad una più nobile e alta intuizione. Sperimentazione, pluralità, ricerca continua e costante, senza pregiudizi e senza false certezze. Come artisti d’avanguardia alla ricerca e alla scoperta del sublime.