Il cielo dei filosofi

14 dicembre 2021
In occasione della partecipazione di Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine alla "Giornata Nazionale dello Spazio" del 16 dicembre, una serie di articoli per sottolineare il contributo dell'arte, della letteratura e della filosofia alla narrazione dello Spazio.

Di Ginevra Leganza

I filosofi lo sanno che tra gli uomini e il cielo vige un rapporto esclusivo. Anthropos, nel suo etimo, racconta l’immagine umana nella peculiarità di volgere gli occhi insù. L’uomo è quell’essere che, a differenza di bestiacce e bestiole, intrattiene con le stelle un legame di privilegio. Ovidio nelle Metamorfosi lo scrive: “Se gli altri animali contemplano a testa bassa la terra, la faccia dell’uomo l’ha alzata, [Iddio] gli ha imposto la vista del cielo, perché levasse lo sguardo spingendolo fino alle stelle”. L’essere logici e politici, eretti bipedi implumi – così ci definisce Aristotele – porta lo sguardo oltre il suolo, a volte brullo, a volte persino infero. Trovarsi su due piedi apre l’occhio all’azzurro ignoto. Il cielo è un segreto che vuole essere cercato nella preghiera, contemplato nel pensiero, analizzato nella scienza, ma è un mare che sempre si ritrae e, in questa sua risacca, si espande… Forse proprio per dar adito a una ricerca continua. La storia della filosofia è in qualche modo la storia stessa del cielo. Non a caso inizia con l’inciampo di Talete, deriso dalla simpatica e sveglia schiavetta tracia. Il saggio di Mileto guarda le stelle, cerca l’origine del cosmo, ma non si avvede d’una pozzanghera. Cade sì, ma il suo cuore e la sua mente si allargano in viaggi galattici. 
Quella fra teoresi e aerospazio è una lunga storia d’amicizia che parte dall’Asia Minore e tocca picchi di bellezza nei simposi attici. Il cielo di Platone racchiude infatti le forme pure, tutte quelle idee filtrate dal Demiurgo e rese quaggiù in forma di cose… Per questo è la sfera celeste il vero palcoscenico dell’opera platonica, così come suggerisce Raffaello nella Filosofica famiglia affrescata in Vaticano. Nella Stanza della Segnatura l’Ateniese, ritratto col volto di Leonardo, punta l’indice verso l’alto, indica il Sommo Bene: gli astri, a cominciare dal sole, altro non sono che dimore di virtù, metafore di tutto quanto siamo chiamati a essere nel mondo. 

La Scuola di Atene, dettaglio

Il meditare non può fare a meno di respirare l’immensità cosmica, e dalla metafisica di Platone alla fisica di Aristotele arriva agli annunci siderei del mondo moderno, con Galileo Galilei e i suoi cannocchiali trasformati in telescopi. C’è un momento in cui la scienza urta il pensiero puro e porta a ripensare l’aerospazio, non più illibato ma denso di attriti muti, sempre in movimento, e così la luna cessa di essere quintessenza – come prescriveva l’autorità di Aristotele – e diventa un oggetto ruvido di crateri… Il cielo si trasforma: dall’esser scrigno di dottrine morali diventa la nuova prateria delle scoperte scientifiche. È così che nei secoli la filosofia muta se stessa, arrivando a considerare la volta celeste come un insolito mare, abbondante di novità, eccitante l’esplorazione. L’epoca moderna è l’anticamera della chiamata agli spazi cosmici. Ne scriverà Carl Schmitt nel 1942, tratteggiando il contorno delle nuove frontiere, non più talattiche o oceaniche, ma appunto aerospaziali. Gli europei civilizzarono il Nuovo Mondo, dice il giurista tedesco, così come il consesso umano si equipaggia ancor oggi nella famelica conquista del cielo. E in questi orizzonti, che si lasciano solcare senza mai esaurire i propri limiti, il pensiero trova un aggancio per riconsiderare l’uomo. Ovvero “colui che guarda insù”. Esser filosofo, in tal senso, vuol dire esser due volte anthropos, due volte uomo. Vuol dire guardare il cielo non una ma due, tre, mille volte ancora: sulle prime per stupirsene; e solo dopo per contemplarlo e stabilire cosa rappresenti oggi. Quest’abisso che non ha smesso di essere il nostro nuovo oceano, la distesa in espansione punteggiata di nuclei smaglianti, di stelle lontane nel tempo… Un mare profondo e irrinunciabile per chi pensa e sa – con Eraclito – che alla fin fine il più insondabile abisso è l’uomo stesso. Perché i filosofi tornano sempre nelle gole dei pensieri propri. Sono intenti a scioglierne i nodi, certo, ma non prima di aver attinto alla calda, generosa luce del cielo.