Il “data retention” e la risposta italiana alla Corte di giustizia europea

21 ottobre 2021

Di Serena Ricci

La materia della conservazione e acquisizione di dati “esterni” generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica, ( “data retention”), è da diversi anni oggetto di studio da parte della legislazione e della giurisprudenza dell’Unione Europea e ha provocato il recente intervento della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione con la sentenza del 2 marzo 2021 nel caso H.K. Nel nostro ordinamento, per quanto riguarda gli effetti al proprio interno delle sentenze della Corte di giustizia, vige il principio del “primato del diritto dell’Unione”, legittimato dall'art. 11 Cost., secondo cui l'Italia “consente(...) alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. La Corte Costituzionale ha poi ribadito l’efficacia immediata nell’ordinamento italiano delle statuizioni della Corte di giustizia delle Comunità europee nella sentenza n.284 del 13 luglio 2007. Quanto deciso dalla Corte di giustizia nella sentenza H.K, era tuttavia incompatibile con la disciplina prevista in Italia dall’art. 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice Privacy), non prevedendo l’accesso ai dati circoscritto a reati gravi e al controllo preventivo da parte di un giudice o di una autorità amministrativa indipendente. E’ dunque intervenuto il decreto-legge n. 132 del 2021, all’esame della Camera dei deputati in questi giorni, che, all'articolo 1, circoscrive l’acquisizione dei dati di traffico telefonico e telematico, quali data, ora, luogo, numero del chiamante e del ricevente, ubicazione dell’intestatario dell’utenza etc., finalizzandola al perseguimento di gravi forme di criminalità o di minacce alla sicurezza pubblica, rispetto a fattispecie gravi, elencate e determinate come fattispecie tipiche.


I sostenitori dell’applicazione in via analogica della normativa sulle intercettazioni a quella dell’acquisizione dei “dati esterni” delle comunicazioni, hanno dovuto mettere a confronto la prima con la pronuncia della Corte di giustizia poiché i principi sottesi dalla sentenza riguardano i limiti del diritto alla riservatezza, che concerne anche le intercettazioni. Tuttavia l’analogia non è scontata dal momento che non tutte le fattispecie penali previste dall’art. 266 c.p.p., per le quali è consentita l’intercettazione, possono ritenersi “forme gravi di criminalità” oppure “gravi minacce alla sicurezza pubblica” requisiti che autorizzerebbero l’accesso ai dati, senza dimenticare che l’art. 15 della Costituzione, nel tutelare la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, le considera diritti inviolabili e limitabili soltanto “per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”, stabilendo una riserva assoluta di legge. È inoltre fondamentale che non sia più il pubblico ministero ad acquisire i dati, dal momento che deve essere un soggetto diverso da chi istruisce il procedimento penale, e diventa necessaria la valutazione da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente relativamente alla richiesta di acquisizione.


Ad ogni attore il proprio ruolo: chi chiede di svolgere l’attività di acquisizione e di inserirsi in una attività processuale che può limitare il diritto alla privacy di un cittadino (pubblico ministero) e il giudice che, rispetto a questa richiesta dell'accusa o di chi svolge l'indagine, risponde attraverso un vaglio che è un vaglio di garanzia. In particolare, in via dettagliata, l'accesso per fini penali a un insieme di dati di comunicazioni elettroniche relative al traffico o anche all'ubicazione del soggetto che permettono di trarre precise conclusioni sulla vita privata, può essere autorizzato soltanto allo scopo di lottare contro gravi forme di criminalità o di prevenire gravi minacce alla sicurezza pubblica. A fronte di reati meno gravi l’acquisizione dei dati di traffico è possibile ma subordinata al requisito della “gravità” della minaccia, della molestia o del disturbo.

Rimane infine  il problema della disciplina transitoria: come tutelare i diritti individuali dei singoli cittadini lesi fino ad oggi a causa di un’ingerenza nella sfera personale e nella loro vita privata ? la nuova disciplina dovrebbe essere applicata dal giudice anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza del 2 marzo scorso proprio nell’ottica di una tutela dell’interesse collettivo alla repressione dei reati che non calpesti i diritti fondamentali della persona umana.