Il supereroe si evolve

14 ottobre 2022

Di Nicola Mirenzi

Da quando sono nati, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, i supereroi hanno sempre rispecchiato le ambizioni, i valori, la cultura della nazione americana, proiettando nel mondo le minacce che gli Stati Uniti avevano di fronte, nonché i suoi principi e il suo potere: entrambi, questi ultimi, concepiti come universali, validi per l’intero genere umano. Il primo a nascere, nel 1938, è stato Superman. I suoi creatori, Joe Shuster e Jerry Siegel, erano due ragazzi ebrei bullizzati. Tant’è che Superman ha funzionato – secondo il racconto di entrambi – anche come una rivalsa esistenziale: fantasie di pieni poteri contro i soprusi. Eppure è difficile immaginare che avrebbe venduto un milione di copie, al suo solo apparire, se non avesse interpretato anche qualcos’altro, oltre il maltrattamento dei suoi ideatori. 
Nel numero 17 dell’estate 1942, Superman appare sulla copertina dell’albo a fumetti tenendo per la collottola Adolf Hitler con la mano destra e l’imperatore giapponese Hirohito con la mano sinistra: i due nemici degli Alleati, sbaragliati dalla forza dell’eroe americano. Dall’inizio della seconda guerra mondiale era cominciata una fusione tra le sceneggiature delle storie a fumetti di Superman e la missione americana nel mondo. I nazisti apparivano sempre più spesso nelle storie come gli antagonisti del bene, l’incarnazione dei cattivi contro i quali l’eroe deve combattere, in una lotta tra la barbarie e la giustizia, l’orrore e la civiltà, raffigurando il senso della missione americana nel mondo (a lettori che, a volte, coincidevano con i soldati stessi, come raccontano diverse foto dal fronte che si trovano negli archivi, anche online). I cultori della materia supereroica chiamano questa stagione “età dell’oro”, poiché oltre a Superman nacquero diversi altri personaggi, tra i quali la più compiuta incarnazione patriottica degli Stati Uniti, che è Captain America.

(In copertina) Andy Warhol e Nico posano come Robin e Batman, 1967. Foto di Frank Bez. (Sopra) This is not a love song 1, Adrian Tranquilli, 2005.Foto di Giuseppe Avallone

Captain America, nella vita, è Steve Rogers, un uomo piuttosto debole. Scartato dal servizio militare, viene scelto dall’esercito americano per essere sottoposto a un test creato dal governo per forgiare un soldato formidabile. Attraverso l’iniezione di un siero, Steve Rogers si trasforma in un super soldato, Captain America, appunto: il simbolo degli Stati Uniti fin nei risvolti più minuziosi. La sua storia incarna, metaforicamente, anche il modo in cui l’America pensava sé stessa: una nazione tutt’altro che marziale, anzi riluttante alla guerra, chiamata a entrare nel conflitto mondiale per il dovere di “fare la cosa giusta”, ossia salvare il mondo dalla minaccia nazista. 
Si potrebbe ripercorrere l’intera storia occidentale recente attraverso l’evoluzione e la nascita dei supereroi, giacché i cambiamenti più significativi dei decenni che abbiamo alle spalle si riflettono immediatamente nelle loro storie: così, quando si alza la cortina di ferro, e inizia la guerra fredda, nasce Iron Man, l’eroe dell’anticomunismo; quando incombe la minaccia nucleare, e l’incubo dei cataclismi resi possibili dai progressi della scienza, emerge una serie di personaggi mutanti, l’Incredibile Hulk, X-Men, l’Uomo Ragno. Ma qui importa osservare, piuttosto, come i supereroi – e, alcuni, in particolare –, mentre intrattenevano milioni di persone con le loro avventure mirabolanti, soddisfacevano appieno anche tutt’e tre le caratteristiche che il politologo Joseph Nye individuava per definire il soft power: la capacità di attrarre gli altri attraverso la cultura, il potere di diffondere i propri valori, la forza di legittimare una linea politica. 
Dopo che gli estremisti islamici di al-Qaeda hanno abbattuto le Torri gemelle a New York, l’11 settembre del 2001, i supereroi sono rinati nell’immaginario occidentale, dopo anni in cui il loro ruolo si era appannato. Più che nel fumetto, è nel cinema che la ferita americana viene elaborata, mitizzata, sfidata e sconfitta. Film come la saga degli “Avengers” raccontano una minaccia vitale posta all’umanità (non all’America soltanto), talmente drammatica da rendere necessaria la discesa in campo di una coalizione di supereroi (nello specifico, quasi tutti i personaggi della Marvel). La lotta è tragica: è contro il male, la tirannia, per la giustizia e la libertà.

This is not a love song 16, Adrian Tranquilli, 2010. Foto di Studio Adrian Tranquilli

Sostiene lo studioso Richard Reynolds, nel suo “SuperHeroes. A Modern Mythology”, che i supereroi sono diventati dei miti contemporanei, al modo in cui lo erano nell’antica Grecia le divinità dell’Olimpo. E la psicoanalisi ha insegnato che non c’è mito che non porti con sé anche un’ambivalenza, un lato oscuro, l’ombra che si accompagna alla luce. Così, dopo la guerra in Iraq, nel 2016, esce al cinema “Batman v Superman: Dawn of Justice”. Al supereroe animato dall’imperativo del bene, incapace però di riconoscere i danni collaterali dei propri (Superman), si contrappone un supereroe di ambizioni meno salvifiche (a Batman basta fermare il male, anziché sconfiggerlo definitivamente), dotato di poteri meno super, ma più realistici, in grado perciò di misurare la forza e adattarla pragmaticamente al contenimento delle minacce, non alla loro eliminazione. Siamo nel pieno di una messa in scena del dramma dell’interventismo americano nel mondo, laddove la missione di esportare la democrazia nel pianeta – il bene laicizzato – si scontra con le conseguenze tragiche dell’uso della forza, com’è l’uccidere nell’intenzione di liberare l’altro. La tragedia della potenza morale.
La lacerazione è così forte che ritorna anche in “Captain America: Civil War”, uscito sempre nello stesso anno. La notizia è che oggi, nello scenario dell’immaginazione occidentale, appare impetuosamente l’epica della normalità. Superman, nella serie “Superman & Lois”, in onda su Italia 1 dopo che in America è apparsa su HBO, viene rappresentato come un uomo ordinario: un marito, un padre. In un’altra serie di successo, “The Boys”, i supereroi vengono addirittura combattuti, la loro forza trattata come criminale, perciò perseguita come un delitto. È come se anche nella fantasia si volesse normalizzare l’eccezionalismo americano, se non metterlo chiaramente sotto accusa. 

This is not a love song 3, Adrian Tranquilli, 2005.Foto di Giuseppe Avallone

Ma cos’è l’America, cos’è l’Occidente, senza la propria missione universale? Nell’ultima interpretazione cinematografica di Batman, uscita nella primavera di quest’anno e diretta da Matt Reeves – “The Batman” –, lo scenario che appare è desolante: le istituzioni di Gotham City sono decrepite, imbrattate dalla corruzione e dal malaffare. L’antagonista di Batman, un omicida seriale enigmatico ed enigmista, le vuole ripulire, aizzando la rivolta violenta, usando i social network per smascherare il lordume delle classi dirigenti e incitando la folla a spazzarle via, in scene che ricordano l’assalto a Capitol Hill. Batman percorre l’intero film lacerato, alla ricerca del proprio posto nel mondo, mentre in tutte le altre interpretazioni del mito batmaniano la sua missione era presentata come un dato naturale e indiscutibile. Lo smarrimento esistenziale che prova quest’ultimo Batman – negli anni divenuto il personaggio più capace di essere rivestito di significati politici – è stato accostato al disorientamento che provano gli Stati Uniti e l’Occidente di fronte a un mondo in cui i rapporti di forza sono cambiati completamente. E solo alla fine del film Batman troverà il suo scopo, il senso della propria missione. Una conquista che – dalla seconda guerra mondiale a oggi – nessun supereroe prima di lui ha dovuto mai raggiungere.

(Nella scheda) Andy Warhol e Nico posano come Robin e Batman, 1967. Foto di Frank Bez