Infosfera, onlife, rivoluzione digitale

Luciano Floridi, professore di Filosofia e Etica dell’informazione presso l’Università di Oxford, ci scorta in un’indagine su un presente che accenna a futuri probabili e auspicabili. E pone gli elementi di un nuovo modo di abitare l’avvenire.

di Ginevra Leganza

28 settembre 2022

Professore, iniziamo dal concetto di infosfera. E partiamo prima di tutto dal suo dark side. L’incommensurabile mole di dati informatici è una risorsa, ma pone delle minacce. Apre le porte alla post-verità: dalle fake news ai troll… Come reagire al lato oscuro dell’informazione?

Vorrei analizzare la questione dal principio. Spesso noi vediamo questi problemi dell’infosfera come problemi ex post, danni che avvengono a valle. E per questa stessa ragione concepiamo delle soluzioni a valle. Prospettiamo rimedi pedagogici per gli utenti. Alla fine il peso ricade sempre sulla paideia: riformare la scuola, formare i cittadini. Ma quello che si perde di vista, in quest’approccio, è che parte della difficoltà sta a monte. È piuttosto una questione di regole: non di paideia ma di nomos. Se le regole tengono pulita l’infosfera, ne consegue una minore difficoltà nel gestire ciò che è disponibile.

Che tipo di regole possono contribuire a non inquinare l’infosfera?

Penso anzitutto a regole soft come accordi industriali e autoregolamentazione. Ma ci sono anche regole dure di legislazione. Io mi auspico interventi sia legislativi sia industriali e di settore. Perché se funzionassero bene questi due elementi a monte, avremmo una vita molto più semplice a valle. Scaricare tutto sugli utenti significa non comprendere il nocciolo del problema.

Nei suoi libri lei parla di quattro rivoluzioni. Prima quella di Copernico, poi venne Darwin e in seguito Freud, per approdare infine alla quarta rivoluzione: quella del digitale.

L’idea delle quattro rivoluzioni non è nuova nella storia della nostra decentralizzazione. In campo cosmologico, la decentralizzazione avviene con la svolta copernicana. Poi, in campo biologico con Darwin e in campo mentale con Freud. Io penso che la quarta rivoluzione ci abbia decentralizzato dall’infosfera, perché i sostegni automatici e l’intelligenza artificiale decentralizzano nella nostra capacità di gestire le informazioni. Ecco, queste quattro rivoluzioni indicano che nel vasto mondo l’uomo non è il festeggiato. Ed è qui che subentra una visione “eccentrica” dell’umanità, una visione particolare verso l’altro e verso noi stessi. Ma anche verso l’ambiente, che dovrebbe essere esaltante per una generazione nuova.  

Quale sarà la quinta rivoluzione? Che nome porterà, secondo lei? Elon Musk potrebbe essere un’ipotesi?

Qualcuno dice che sarà l’intelligenza artificiale. Io non sono d’accordo. Anzi, penso proprio che sia un abbaglio. La quinta rivoluzione, senza rischiare nulla di fantascientifico, potrebbe essere in un messaggio radio dall’universo. Un messaggio che ci decentralizza nuovamente e ci dice che non siamo l’unica forma di vita intelligente. Più che Elon Musk, sarebbe rivoluzionario un extraterrestre che dice: “Hello Earth”. Ci prenderebbe un colpo. Ma questa sì, sarebbe la quinta rivoluzione.

Pensa che in una società secolarizzata l’astrofisica sia un nuovo ponte verso la trascendenza?

Prima di rispondere mi domando: chissà perché pensiamo che la religione stia scemando. È strano. I dati ci dicono tutt’altro. L’anelito al sacro sembrerebbe addirittura in crescita. Miliardi di persone, oggi, si dicono religiose. In verità, sembra esserci un enorme bisogno di trascendenza. Che poi la trascendenza sia qualcosa che noi viviamo “concretamente”, questo rimarrà un dibattito sempre aperto. Però la domanda che mi ponete mi porta a riflettere su un fatto. C’è una forte tendenza a trasformare il concetto di trascendenza in qualcosa di sempre meno spirituale e sempre più concreto. A me piacerebbe che la trascendenza fosse vissuta con slancio spirituale, come qualcosa per cui pensiamo che c’è qualcun altro nell’universo. E a quel punto, pur sapendo di non essere speciali, potremmo sperare che qualcosa avvenga anche quando passiamo dall’altra parte.

Il futuro sembra votato a un approccio spiccatamente ludico. Il fenomeno del gaming e del metaverso suggeriscono questa direzione. La metafora del gioco è molto efficace anche in filosofia. La usa anche lei per suggerire un nuovo modo di pensare. Di cosa parliamo, esattamente?

Pensare in termini ludici significa allontanarsi dal comune ragionamento di un “cervello mammifero”. Al “cervello mammifero” viene naturale pensare che il mondo sia fatto di cose. E poi di relazioni fra le cose. Pensare il mondo a partire dal gioco vuol dire, al contrario, partire dalle relazioni per arrivare alle cose. Immaginiamo che ciascuno di noi sia come una rotonda, un punto dove tutte le strade si incrociano. Ecco, noi non costruiamo prima la rotonda e poi le strade cui collegarla; noi costruiamo le strade, e là dove le strade si incrociano nascono poi le rotonde. Le rotonde sono delle cose reali, concrete. Detto questo, le rotonde sussistono perché ci sono le strade che si incrociano. Che cosa viene prima, le strade o le rotonde? Fuor di metafora: vengono prima le relazioni e poi le cose.

Intende dire che il gioco aiuta a capire meglio la precedenza della relazione?

Sì, è come se ciascuno di noi fosse una goccia d’acqua in una fontana. In realtà quest’idea di filosofia non è nuova, ma non è quella che vediamo più spesso. Benché antichissima. Eraclito, il filosofo che studiamo a scuola, lo esprimeva con la celebre immagine del “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”. L’idea che il mondo sia come un giochino lego sparisce quando le cose si rompono. In quel caso non si devono riparare i mattoncini, ma le relazioni. Mi spiego. Se Romeo e Giulietta non stanno bene insieme non si va a parlare con Romeo o con Giulietta. Ma si va a lavorare sulla loro relazione. Così – dal teatro alla realtà – se la politica non funziona, non sono i partiti, ma sono le relazioni fra i partiti che bisogna riparare. Lo stesso vale nel dualismo cittadini/cittadinanza: viene prima la cittadinanza e poi noi – i cittadini – che partecipiamo. Capite che il mondo sembra molto diverso da questa prospettiva.

La vita è un gioco?

In un certo senso, sì. Ma chiariamoci: ci sono due tipi di giochi. Quelli in cui le regole determinano il gioco, e in genere sono i giochi da scacchiera, dove non esiste la competizione prima delle regole; e quelli, come il tennis e il pallone, dove c’è un’attività preesistente e le regole arrivano per dare una forma. In questo senso, la vita è un gioco molto più simile al calcio e molto diverso dagli scacchi, perché la vita esiste anche senza regole. Quello che noi dovremmo fare – tornando al tema di partenza – è dare una regolata al disordine. Il digitale, per esempio, ha bisogno di molte regole che vincolino il nostro da fare. Senza regole si gioca male e non si capisce se si vince o se si perde.

Tornando al digitale, la parola “onlife” porta il suo copyright. L’ha coniata lei.

Onlife è una parola che ho pensato per rendere un’idea: oggi non si è né online né offline. Ma entrambe le cose al contempo, anche se in momenti e tempi diversi e in modo mescolato. Lo vediamo più che mai nell’attualità, nel conflitto russo-ucraino, dove attacchi cyber e carri armati non viaggiano su binari paralleli, ma sono la stessa cosa.

 A tal proposito, lei scrive di una “società delle mangrovie”.

È sempre utile avere un’immagine. Le mangrovie nascono dove l’acqua dolce del fiume si mescola con l’acqua salata del mare. Sono la vita dell’acqua salmastra. Fiume e mare sono come digitale e analogico. Dove si mescolano queste due realtà, online e offline, prende corpo l’onlife. La nostra è una società delle mangrovie. Sempre più ibrida.



Sappiamo che il digitale non è a costo zero. Nonostante i costi ecologici, come può la tecnologia salvare l’ambiente?

Il digitale non costa zero. Costa tantissimo. Basti pensare a tutta l’energia che necessita. Si ha come l’illusione che sia una panacea gratuita. Ma tutto ha un costo, perché tutto quello che facciamo richiede energia. Ciò detto, può far molto bene all’ambiente. Pensate al passaggio dalla candela alla lampadina e dalla lampadina al led. Il led consuma una frazione di una frazione di una lampadina. E anche il digitale può andare in questa direzione. E la sfida è proprio far bene all’ambiente nonostante gli inevitabili costi. Se il bilancio fra costi e benefici ambientali sarà positivo, avremo fatto un buon lavoro. Se invece sciuperemo l’occasione, le future generazioni non ce lo perdoneranno. Il problema del digitale è da dove viene l’energia.

Da dove dovrebbe venire l’energia, allora?

Posta la premessa di un digitale che faccia bene all’ambiente, è necessario che anche l’energia che lo alimenta sia benefica da questo punto di vista. Altrimenti sarebbe come un’auto elettrica alimentata da energia a carbone. Una presa in giro. Dopo il conflitto russo-ucraino, l’Italia in primis deve recuperare l’opportunità di andare incontro a questa sfida nel Mediterraneo. Pensiamo alle fonti rinnovabili. Abbiamo buona energia che il digitale può utilizzare per far bene all’ambiente.

Tanti vantaggi. Ma il digitale porta con sé anche lo spettro della disoccupazione tecnologica. Come fronteggiarlo?

Lo si fronteggia andando alle radici del fenomeno. Perché la disoccupazione tecnologica fa parte del cosiddetto digital divide, cioè della separazione fra quelli che vincono e quelli che perdono quando la società diventa altamente digitalizzata. A questo punto ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B, col digital divide che apre una ferita profonda nel mondo del lavoro. Il gap di conoscenza e possibilità diventa un problema altamente sociale. Ed è la società che deve occuparsene. A volte, parlando di mondo del lavoro, si ha come il sospetto che sia il mercato a dover risolvere il problema. Ma il mercato deve creare ricchezza, non generare posti di lavoro. Per contro, la società, con le sue regole, permette la creazione di lavoro. Semmai una collaborazione società-mercato potrebbe essere fondamentale.

Disoccupazione, da un lato; occupazione del tempo libero, dall’altro… Un nuovo ostacolo della società digitale.

A tal proposito, vorrei partire da un bellissimo saggio di John Maynard Keynes, scritto a ridosso della guerra. L’economista britannico lo dedica ai nipoti, e spiega che con l’incedere del progresso tecnologico il problema dell’avvenire sarebbe stato proprio quello dell’impiego del tempo libero. Una questione che si ripropone nel Ventunesimo secolo.

Si ripropone in che termini?

Il punto è questo: saremo in grado di godercelo, questo tempo, o lo sprecheremo? Anche oggi si dice che la tecnologia fa risparmiare tempo. Eppure, troppo spesso noi questo tempo lo ammazziamo nella noia, lo sprechiamo. Ecco, io penso che una società avanzata dovrebbe creare un migliore equilibrio fra il tempo impiegato lavorando e le altre attività. Vorrei ricordare che ci sono oltre 6 milioni di volontari in Italia, ovvero 6 milioni di persone che lavorano a un impegno sociale importante, ma senza stipendio. Certo non auspico un futuro in cui saremo tutti volontari e qualcun altro lavorerà per noi. Ma bisogna pensare un ribilanciamento tra vita lavorativa e vita produttiva non solo salariale. In società rettamente orientate si lavora tutti molto di più. E tutti molto meglio. Eppure il lavoro non è solo un impiego in vista di uno stipendio. Lo stipendio dovrebbe essere sganciato dall’impegno dell’individuo. A mio giudizio questa potrebbe essere una buona prospettiva futura sulla quale ingegnarsi, ma bisogna farlo come società.

Lei ritiene che l’inoccupazione porterebbe vantaggi all’ambiente?

Sì, penso che potrebbe avere enormi effetti positivi sull’ambiente e sulla città stessa. Pensiamo solo alla cura della propria famiglia, a quanto ne beneficerebbero bambini e anziani. Una società che pensa molto di più al benessere fisico, mentale, ambientale e un po’ meno alla ricerca del guadagno a tutti i costi, al consumo sfrenato, è una società migliore. Meno consumistica e più dedita alla cura.

Quella che delinea è un’idea di futuro plausibile per l’Italia?

Altroché. Noi siamo fra le dieci società più avanzate del mondo. Abbiamo la possibilità e forse anche il dovere di cominciare a intendere questo futuro come qualcosa di realizzabile. Sono appunto società come la nostra che possono fare da apripista. E non quelle dove persistono problemi di minima sanità, di acqua potabile, di lavoro di tutti i giorni. L’Italia è tra le nazioni più ricche e più avanzate del mondo. Senz’altro tocca a noi.

A proposito di cura, quanto conta la formazione umanistica nel concepire una società non incentrata sul solo guadagno e sul consumo?

Conta molto. Ma ancor più conta immaginare un mondo in cui la formazione umanistica non contrasti con quella tecnologica. Erroneamente si pensa a STEM contro discipline umanistiche: greco vs fisica. Io stesso appartengo a una generazione che è stata formata secondo questi criteri. Ma credo che sia giunto il momento di rifluidificare i saperi. In fondo, musica e matematica vanno a braccetto da Pitagora in poi. Ancor oggi si sente un dibattito che concepisce la mente umana incline a una cosa o a un’altra, e addirittura immagina i saperi disposti in termini di genere. Uomini scientifici e donne umanistiche. Un pensiero falso e obsoleto.

Il futuro esige invece uno spirito leonardesco, rinascimentale?

Direi che gli interessi di un individuo crescono e maturano grazie alla coesistenza di una varietà di ambiti. Del resto, ciascuno di noi ha i propri interessi. E non è necessario avere tutti gli stessi orari, le stesse scuole, le stesse preparazioni. Quanto sarebbe proficuo, invece, sentire e conoscere un po’ di tutto? Dalla filosofia all’economia. Sono convinto che quest’approccio creerebbe non solo più scambio intellettuale, ma anche più scambio umano.

A proposito di scambio umano, come pensare la politica futura? Il sentimento di partecipazione dei cittadini è in declino?

Anche in questo caso possiamo parlare di due tipi di partecipazione. Si può pensare che la partecipazione sia a valle, per cui con un’alzata di mano ci si limita ad accettare o rifiutare una proposta, e in tal caso si tratterebbe di una cattiva partecipazione, con un menu scritto da qualcun altro. E si può pensare a una vera partecipazione, che è a monte e implica discussione e confronto. La vera partecipazione è un co-design: un progetto che si disegna insieme. Anche la democrazia diretta è di due tipi. La prima, quella dell’alzata di mano, è una presa in giro che si riduce a scelte che qualcuno ha già presentato al cittadino. La seconda è quella che discute a monte, ed è preziosa. In questo secondo caso dovremmo davvero usare le tecnologie digitali.

Cosa pensa dell’estensione del diritto di voto ai sedicenni? Lei si è dichiarato a favore dell'estensione...

È chiaro che bisognerebbe fornire ai ragazzi tutti gli strumenti per un voto informato, ma ho più di una ragione per credere che sia una buona idea. La politica oggi soffre di anzianità. La statistica mostra che invecchiando si diventa sempre più conservatori. Un paese come l’Italia, che è sempre più vecchio, diventerà sempre più conservatore. Avrà sempre più a cuore la casa di proprietà e la pensione e sempre meno il lavoro dei giovani, e dunque il futuro. Da questo punto di vista il voto ai sedicenni potrebbe essere uno strumento per un rinnovo demografico. Sono dibattiti che avvengono anche in altri paesi, comunque. Se ne parla molto in Scozia.

Il digitale può fornire gli strumenti di cui parla?

In generale, il digitale può rafforzare molto la democrazia. Ma va usato nel modo giusto, perché va bene se è integrato sin dall’inizio. Come dicevo, va bene per determinare scelte. Non per selezionare opzioni. Chi lo usa per far selezionare opzioni ci sta prendendo in giro, ha già deciso che c’è una maggioranza che deve vincere. Ecco, la vittoria della maggioranza o della minoranza non è democrazia. È letteralmente dittatura della maggioranza. Lo sapevano i padri fondatori degli Stati Uniti d’America. Quando le minoranze non sono protette, allora c’è qualcosa che non funziona. Perché la democrazia non è la vittoria della maggioranza. Piuttosto, è la non perdita della minoranza. Se non si intende questo punto, si concepisce la democrazia come una partita di calcio. Come un gioco dove c’è chi vince e c’è chi perde. Ma non è così: in democrazia non ci possono essere perdenti.

La guerra in Ucraina ha riaperto un antico dibattito che a suo tempo generò divisioni nel Paese. Parliamo dell’energia nucleare, che forse oggi avrebbe garantito maggiore indipendenza dell’Italia da fornitori esteri. Qual è il suo punto di vista sul tema?

Quando ci fu il primo referendum sul nucleare, io ero molto giovane. E non ero favorevole all’eliminazione. Da un punto di vista geopolitico, ma anche ambientale, l’energia atomica sarebbe stata una buona scelta. Ricordo che l’Italia fu tra i primi Paesi a introdurre il nucleare, fu innovatrice nella costruzione di centrali. Ma il passato è passato. Oggi non si può pensare di riprendere quella storia. Gli investimenti che servirebbero e i lunghi tempi di costruzione vanno investiti in nuove frontiere.

Si riferisce alle energie rinnovabili?

Sì. La mia preoccupazione è che, avendo sbagliato una volta, possiamo ripetere l’errore. E in quel caso sbaglieremmo gravemente. Sarebbe uno scherzo del destino se, di nuovo, non facessimo le cose in tempo per poi rimpiangerle quand’è tardi. Se avessimo adottato il nucleare, ora saremmo nella condizione della Francia. Ma non lo siamo. E non si può piangere sul nucleare versato. Noi non dobbiamo guardare al passato. Il nucleare è da Ventesimo secolo. Sulle rinnovabili il nostro Paese, per ragioni tecnologiche e per posizione geografica, è all’avanguardia. Bisogna credere a un’Italia vincente nelle sfide del Ventunesimo secolo. Lasciamo il passato al passato. Tentiamo piuttosto di agguantare il futuro.