Il premio Nobel Frank Wilczek, in un articolo del 2015, sosteneva che tra cento anni il più bravo tra i fisici sarebbe stato una macchina. Cent’anni sono il tempo giusto per una rivoluzione. Nessuno avrebbe saputo anticipare un secolo fa l’emergere della fisica moderna e gli stravolgimenti attivati dai progressi tecnologici. Wilczek arriva alla sua conclusione procedendo con cautela, a passi di “immaginazione disciplinata”, alla ricerca di quel punto nel tempo in cui, in fisica, progresso tecnologico e creazione di conoscenza si incontrano. Consentendo così di trovare connessioni nascoste tra aspetti del mondo che al momento sembrano separate, lavorando quindi “in profondità”. E operando, allo stesso tempo, un ampliamento di capacità, oltre l’aspetto semplicemente sostitutivo o di supporto a ciò che l’uomo può fare. Una dilatazione della sfera del possibile i cui risultati sono ancora da immaginare: l’era dell’intelligenza quantistica. Futuristica o meno, la direzione è quella. Una sinergia inevitabile, certamente necessaria, tra l’IA, nelle sue diverse forme, e la scienza. Con una modalità di collaborazione da definire anche in considerazione dell’urgenza posta dal riorientamento della nostra visione antropocentrica e l’emergere di nuove priorità.
Un rapporto dell’OCSE pubblicato lo scorso giugno dal titolo: “Artificial Intelligence in Science: Overview and Policy Proposals” sottolinea un dato allarmante. Un graduale rallentamento della produttività della scienza, inteso come capacità di produrre risultati, che fa male anche all’economia. Da un lato, nonostante decenni di dati e modelli, la scienza non riesce ancora a fornire risposte a questioni critiche, quali per esempio i meccanismi che regolano il cambiamento ambientale o la causa di malattie legate all’invecchiamento, incluso l’Alzheimer. Dall’altro, come sottolinea il rapporto, ed è preoccupante, “science might be getting harder”.
Innovare, arrivare a scoperte che cambiano il mondo, sarà via via più difficile. Alcune delle ragioni sono state menzionate. Il settore privato investe sempre meno in ricerca di base. C’è un limite economico allo sviluppo delle infrastrutture necessarie. Nuove scoperte avrebbero bisogno di team interdisciplinari estesi, anche se i dati dimostrano sia più facile arrivare a scoperte fondamentali in piccoli team. Gli scienziati sembrano aver raggiunto un picco nella capacità di leggere articoli scientifici. I papers pubblicati ogni anno nelle discipline scientifiche sono torrenziali e – secondo una statistica OCSE – uno scienziato medio non riesce a leggerne più di 250 l’anno.
A questo scenario distopico si aggiunge l’osservazione secondo cui sembra sia sempre più difficile produrre idee. Il rapporto dell’OCSE sottolinea che, analizzando articoli scientifici pubblicati a partire dagli anni Sessanta, si è osservato un calo dei riferimenti a lavori pubblicati nei cinque-dieci anni precedenti, suggerendo una diminuzione di produzione di contributi significativi. Lo stesso accade per i brevetti, che vedono una predominanza di citazioni legate a lavori scientifici lontani nel tempo. E anche nel campo dell’innovazione. Prendiamo il settore farmaceutico: molti degli antibiotici attualmente in uso sono stati scoperti negli anni Cinquanta. E la classe di antibiotici più recenti risale al 1987. Questa è una delle cause della resistenza agli antibiotici, tra i problemi più preoccupanti per la salute pubblica.
I modelli di intelligenza artificiale possono aiutare gli scienziati a generare nuove idee fornendo così elementi di ispirazione e strade da esplorare con varie modalità. Analizzando grandi set di dati, processando letteratura scientifica e ricerche esistenti, identificando modelli, connessioni e potenziali direzioni di ricerca che potrebbero essere state trascurate. Per ora, comunque, l’IA gioca ancora largamente un ruolo di supporto. Il che non vuol dire che non riesca comunque a sorprenderci.
Nel 2009 il team dello scienziato scozzese Ross King ha sviluppato il primo robot che è riuscito a produrre “scienza”. Adam, così si chiamava, è arrivato a realizzare una nuova scoperta scientifica praticamente senza alcun input intellettuale umano, identificando e studiando i geni coinvolti nella sintesi di determinate proteine del lievito Saccharomyces cerevisiae. Tutto questo attraverso l’implementazione dell’intero processo scientifico: formulare ipotesi, progettare ed eseguire esperimenti utilizzando una serie completamente automatizzata di centrifughe, incubatori, pipette e analizzatori di crescita, studiare dati e decidere quali esperimenti eseguire successivamente. Gli esempi di risultati ottenuti da robot di questo tipo sono ormai numerosi.
Ma torniamo a Wilczek, alla fisica e alle sorprese dell’IA. La formulazione delle leggi della fisica nell’accezione moderna, che ha fatto la gloria di Galilei e Newton, consiste nello stabilire relazioni matematiche, dedotte o derivate, che portino all’identificazione di una teoria che spieghi e preveda i fenomeni in modo convincente. Le leggi emergono da processi iterativi che hanno richiesto una conoscenza di nozioni precedenti e la conferma di osservazioni sperimentali. E sono comunque approssimazioni. Non è possibile infatti tener conto di tutti gli aspetti coinvolti in un fenomeno, quali per esempio possibili effetti quantistici o la non-linearità della gravità. Ci si domanda quindi se potranno esserci leggi migliori, derivate da dati sperimentali senza alcuna conoscenza preliminare della fisica. Gli algoritmi evolutivi usati dall’IA potrebbero rappresentare la soluzione ideale per dedurre delle leggi della fisica utilizzando esclusivamente dati sperimentali grezzi.
La rete neurale SciNet, sviluppata qualche anno fa da ricercatori del Politecnico di Zurigo, impara e deduce semplicemente osservando. Come farebbe un fisico. Analizzando pattern nei dati, e risalendo a leggi matematiche per spiegare e anticipare risultati, SciNet è riuscita per esempio a prevedere la posizione futura di Marte e del Sole semplicemente partendo dalle posizioni iniziali viste dalla Terra. Per arrivare a questo risultato, deve aver potuto elaborare, solo su base osservativa, un modello eliocentrico del sistema solare. Un articolo del “MIT Technology Review” intitolava così la notizia: “Who needs Copernicus if you have machine learning?”.
Procedendo in questa direzione, gli ingegneri della Columbia University hanno sviluppato un programma di IA per esaminare i dati video grezzi dell’oscillazione di un pendolo, senza fornire alcuna nozione di fisica o geometria preliminare. Tempo di alcune ore, e la “macchina” aveva elaborato la sua risposta. Rapida, esatta e dal congegno imperscrutabile. Cercando di risalire alle variabili che il programma doveva aver considerato per ottenere il suo risultato, ci si è resi conto che queste erano in numero maggiore rispetto a quelle previste dalla legge della fisica corrispondente. Ma non solo. Dopo molteplici tentativi e indagini, è emerso che alcune delle variabili rimanevano impossibili da identificare. Un mistero. Il tentativo di correlare le variabili con quelle note – velocità angolari e lineari, energia cinetica e potenziale e varie combinazioni di quantità note – non conduceva ai risultati ottenuti. Non è un dilemma da poco. L’identificazione delle variabili giuste è cruciale, e precede la formulazione delle leggi fisiche. Alla luce dei risultati, Hod Lipson, direttore del Creative Machines Lab del dipartimento di Ingegneria meccanica, che aveva contribuito alla ricerca, ha così messo sul tavolo una domanda conseguente: una razza aliena intelligente avrebbe scoperto le nostre stesse leggi fisiche o avrebbe potuto descrivere l’universo in modo diverso? Forse alcuni fenomeni sembrano enigmaticamente complessi perché semplicemente stiamo cercando di capirli usando l’insieme sbagliato di variabili.
Analisi dati, simulazioni, automazione dei processi, elaborazioni statistiche, review e sintesi della letteratura, identificazione di pattern o correlazioni nascoste, formulazione di ipotesi e nuove relazioni. L’utilizzo dell’IA nella scienza è in grande espansione. Ma, come vuole uno dei principi fondamentali della ricerca scientifica, “correlazione non implica causalità”. Per capirne di più entra in gioco anche la capacità di immaginare. Di poter vedere cosa ancora non c’è. Quindi, come ci salviamo da questa crisi delle idee? Si pensi a Copernico. Astronomo sì. Ma anche medico, ecclesiastico, diplomatico, amministratore. Il pantheon dei grandi personaggi, rivoluzionari nella scienza e umanisti nel modo di guardare il mondo, è ricco di storie. È bello pensare sia in questa alchimia, quella scintilla ultima che accende le idee. La scienza da sola, senza la luce che viene dalle discipline umanistiche, non potrebbe dar conto della straordinarietà dell’esperienza umana e di come siamo arrivati fin qui. Umani si diventa.