Isole di marginalità al tempo della connessione.

Intervista a Anna Finocchiaro, Presidente dell’Associazione Italiadecide

Di Anna Giurickovic Dato

17 novembre 2022

La vita digitale non è altro che la vita, in un mondo talmente connesso da non permettere più di tracciare una linea di confine tra reale e virtuale. Fisico e immateriale non si negano, ma si completano, si integrano in ogni ambito dell’esistenza, la tecnologia cambia il modo di vivere la scuola, il lavoro, permea di sé ogni ambito, dalla sanità all’urbanistica, dall’informazione alla politica, influenza la vita sociale e lo stesso modo di pensare. Persino la connessione, però, è in grado di sconnettere, costruendo solitudini invisibili e isole di marginalità. Anna Finocchiaro, già Ministro e oggi Presidente dell’Associazione Italiadecide, racconta dei dissesti prodotti dall’innovazione tecnologica, portatrice di nuovi diritti, ma anche di nuovi oneri e disuguaglianze. Ne viene fuori una fotografia con il suo negativo: da un lato una società iniqua, disaggregata, disintermediata, dove si è perso il senso della comunità, dall’altro la società che possiamo costruire mentre progettiamo il futuro.

Se lei avesse sedici anni che lavoro vorrebbe fare? 
Se potessi tornare indietro, comincerei con quella che sta diventando la mia passione, la formazione e l’educazione. Trovo che sia un’attività non solo utile, ma anche estremamente ricca, ti dà più di quanto tu non riesca a dare. Oggi mi occupo di formazione di insegnanti, di giovani amministratori, di laureati e anche di studenti delle scuole superiori. Devo dire che è estremamente divertente, oltre che gratificante, perché consente di stabilire nessi diretti e di capire mondi a cui credevo di non avere più accesso. Con i ragazzi, adesso, stiamo trattando il tema della transizione ambientale, infatti hanno lavorato sulla mostra di Sebastião Salgado che si è tenuta al Maxi tra ottobre 2021 e aprile 2022. Quello che è venuto fuori è straordinario, ho imparato moltissimo. Avere la percezione del mondo vissuta attraverso la loro esperienza di vita e i loro occhi, che sicuramente non sono quelli di una donna di sessantasette anni, è stato gratificante. Che dire? Loro erano contenti e io più di loro.

A proposito di formazione, che opinione ha dell’alternanza scuola-lavoro? 
L’alternanza scuola-lavoro è gestita malissimo. Spesso, in Italia, molte questioni vengono affrontate con intenti nobilissimi e poi si riducono a un mero adempimento burocratico. Penso alla valutazione delle performance della Pubblica Amministrazione, ai piani anti corruzione, buoni propositi che, alla fine, si traducono in fascicoli pieni di carte… Lo stesso avviene con l’alternanza scuola-lavoro: se viene vissuta come un momento obbligatorio, anziché come parte del percorso di formazione, diviene problematica. Si potrebbe pensare a un obiettivo minimo, l’alternanza come un momento che educa all’abitudine al lavoro, all’opportunità di essere inserito in un’organizzazione, a intrattenere e preservare relazioni con le persone che lavorano nella stessa organizzazione, a essere soggetto a orari, a regole, a prescrizioni. Fosse anche soltanto questo, ovvero il valore complessivo dello stare in un luogo di lavoro, sarebbe già un’ottima cosa, invece mi pare che non sia sempre così. Non dipende solo dalle scuole. Spesso le scuole si trovano ad affrontare temi, percorsi formativi, questioni per le quali non sono attrezzate. Si perde quella che dovrebbe essere la qualità dell’esperienza al fine della formazione dei ragazzi. Invece, quando è fatta bene, funziona e soprattutto struttura la formazione dei giovani.

Se è vero che in futuro si lavorerà di meno, la scuola dovrebbe educare al buon uso del tempo libero?
La scuola dovrebbe, soprattutto, suscitare curiosità e attivarne il germe nei ragazzi. Perché poi è la curiosità che porta a utilizzare il tempo libero in maniera creativa e arricchente. Io non credo che si debba strutturare il tempo libero, una disciplina dell’utilizzo del tempo libero mi terrorizza. La mia generazione si preparava alla genitorialità leggendo biblioteche intere. Era il tempo in cui si pensava che i bambini dovessero essere sempre impegnati, praticare attività sportiva, apprendere più lingue, l’inglese, il francese, il tedesco, e anche la pittura, gli scacchi, la ceramica e così via. Ho sempre pensato che sia un bene che i bambini abbiano uno spazio di noia. La noia è l’anticamera della contemplazione e la contemplazione è l’anticamera della curiosità, della riflessione. Trovo che la noia, che è tra l’altro un ottimo veicolo verso la lettura, costituisca una componente essenziale del tempo infantile.

C’è il rischio che la noia porti all’utilizzo compulsivo di uno smartphone piuttosto che alla lettura di un libro… 
Sono dell’opinione che i telefoni vadano consegnati ai propri figli in età avanzata. Sono strumenti che servono per comunicare e le persone con cui vogliono comunicare i bambini sono, solitamente, a portata di mano. Credo che debba esistere un tempo in cui le cose te le devi andare a cercare, prima di trovarle su Wikipedia.

Come immagina la vita quotidiana fra dieci, vent’anni? 
Dipende da come lo lasciamo trascorrere questo tempo… Se lo lasciamo rotolare o se ne prendiamo possesso. La nostra società sarà segnata da nuove disparità, il tempo della vita si allungherà moltissimo. In realtà si allunga il tempo della vecchiaia e non quello della vita, che è cosa ben diversa. In un mondo in cui l’aggiornamento delle conoscenze tecnologiche è indispensabile, non solo per lavorare e studiare, ma anche per vivere, il divario tecnologico costituirà un ostacolo per molti. Penso allo SPID, alla consultazione della propria posizione sul sito dell’INPS. Penso che tra venti, trent’anni una popolazione prevalentemente anziana, sicuramente indietro nell’aggiornamento tecnologico e incapace di inseguire la continua innovazione, rimarrà tagliata fuori da una società totalmente forgiata dalla tecnologia. Una parte importante della comunità non sarà in grado di partecipare attivamente alla società né di utilizzare pienamente il proprio tempo, la propria vita, le proprie possibilità di comunicazione, di interrelazione, addirittura non saprà godere del proprio benessere, perché non sarà in grado di utilizzare gli strumenti tecnologici. Il mondo del lavoro cambierà radicalmente, anche se continueranno a esserci lavori che non possono essere investiti dall’innovazione tecnologica.


L’innovazione tecnologica è in grado di ridurre, ma anche di aumentare le disuguaglianze; è portatrice di nuovi diritti, ma anche di nuovi oneri; è in grado di creare lavoro come di distruggerlo. Quale modello di società stiamo costruendo mentre progettiamo il futuro? 
Il rischio è che si sfoci in una società dove una porzione della popolazione non ha gli strumenti per partecipare pienamente alla vita collettiva, né per raggiungere obiettivi di qualità della vita, perché rimane esclusa dalla tecnologia che tutto pervade. Per non parlare del lavoro povero, di scarsa qualità, dove si può essere facilmente sostituiti, rispetto al lavoro importante, riccamente retribuito, che richiede competenze specifiche… Queste condizioni porteranno a una società disarticolata.  
Sono dell’idea che sia necessario inventare mestieri che connettano tutto, che siano in grado di utilizzare la capacità tecnologica dei giovani e di renderla disponibile ai più anziani, colmando il digital divide, così da tessere una trama culturale e umana che sia in grado di comprendere tutti, di consentire a ciascuno la piena partecipazione alla vita della comunità e il godimento di uno stato di benessere che sia capace di includere anche la parte della popolazione che il progresso tecnologico tende a escludere. Corriamo il rischio di vivere in un mondo diviso tra il lavoro degli ultimi e il lavoro spesso sconnesso dall’idea di comunità, quello che la tecnologia libera da condizionamenti spazio-temporali, che può essere svolto sul pizzo di una montagna, fuori da ogni tipo di relazione. 
Sarà un mondo complicato, che rischia di spezzarsi. Quanto più pensiamo che il mondo del futuro sarà connesso, quanto più non pensiamo che questa connessione lascerà isole di marginalità, che sono poi isole di disuguaglianza. Di questo bisognerà occuparsi.

Un concetto importante, dunque, potrebbe essere quello di “cura”, intesa come attenzione ad affrontare ed evitare tutti i processi di esclusione, sperequazione e marginalizzazione che la società tecnologica produce…
Ha colto il punto. Noi teniamo una scuola di formazione – per insegnanti e per gli studenti di istituti superiori – sui temi dell’educazione civica, della conoscenza della Costituzione, della transizione digitale e di quella ecologica. L’anno prossimo affronteremo proprio il tema della “cura”. 
Si tratta di un tema che da sempre è declinato al femminile, quando si dice “cura” si pensa al lavoro di cura familiare. Sono dell’idea, invece, che la società abbia bisogno della cura in un senso più ampio, ai fini della partecipazione collettiva, della costruzione di comunità organiche, perché ciascuno possa condurre una vita libera e dignitosa. Il bisogno di cura deve essere assunto come compito pubblico, attraverso l’educazione, la connessione, la trasmissione del sapere tra maestri e studenti. 
Forse questo schema si capovolgerà e, in futuro, i giovani potranno insegnare molto di più ai propri maestri di quanto non potesse mai accadere in passato.

Il PNRR, laddove si occupa della dimensione urbanistica, tiene necessariamente conto del rapporto tra tempo libero e città. Si parla di smart city (città intelligenti) e di u-city (città ubique): le città del prossimo futuro dovranno essere funzionali ed efficienti sotto più profili, dalla connessione alla gestione del traffico, ai trasporti, alle scuole attrezzate, agli spazi ricreativi…
Più che spazi ricreativi, veri e propri co-housing! Può accadere, a un certo punto della vita, di non avere più la possibilità di permanere nella propria residenza da soli, senza l’assistenza di nessuno, e quindi si è costretti ad andare a vivere in una casa di ricovero. È in tale frangente che il co-housing si rivela uno strumento essere estremamente utile. Penso a luoghi nei quali ciascuno ha le proprie abitazioni, servizi comuni, relazioni all’interno e all’esterno della propria comunità. Queste residenze potrebbero diventare sede di iniziative, attività, diffusione di sapere, e cura, anche bidirezionale: non solo la cura indirizzata alle persone che abitano il co-housing, ma anche l’aiuto che queste stesse persone possono riversare all’esterno, nel proprio quartiere e nella propria comunità, costruendo un circolo virtuoso.

Oltre a imparare a co-abitare, dovremmo imparare la reciproca cura. Si tratta di una cura relazionale o istituzionale? Chi la insegna, chi la somministra, chi la garantisce: la scuola?
Proviamo a immaginare un luogo di scambio gratuito, dove cinque o dieci quindicenni tengono aperto tre ore al giorno per spiegare agli anziani del quartiere come avere lo SPID, perché hanno ricevuto una multa o i motivi per cui non riescono a ottenere un certificato. Secondo me sarebbe una cosa utilissima. Oltre alle relazioni che possono nascere tra anziani e giovani, un importante ruolo potrebbe essere svolto dall’istituzione di forme di educazione permanenti che varino dalla materia finanziaria a quella ambientale a quella digitale. Dovrebbero essere forme di educazione alternative e posteriori o parallele alla scuola, capaci di colmare la distanza che fisiologicamente separa alcune persone dalle altre, lasciando fuori i fragili e i marginali e generando isole di solitudine.

L’innovazione tecnologica porterà un benessere equamente diffuso o allargherà le distanze sociali? Penso, in particolare, alle opportunità e ai rischi legati all’intelligenza artificiale…
Se sei padrone di te stesso e non hai paure, se sei in grado di valutare i rischi e i benefici, nonché le gerarchie degli interessi, allora l’intelligenza artificiale è uno strumento utile: in questo caso, infatti, è possibile delegare, poiché tanto si è compreso il meccanismo che sta alla base della delega.
Non tutti, però, siamo capaci di interfacciarci con l’innovazione tecnologica senza paura; penso ai più anziani, spesso soli, spesso insicuri e timorosi che qualcuno possa approfittarsi della loro debolezza… È brutto aver camminato su un terreno solido per tutta la vita, essersi sentiti pienamente padroni di sé stessi e poi perdere tutto. Ebbene, in questo caso non so quanto l’intelligenza artificiale possa aiutare. Sarebbe necessario e preferibile integrarla con i legami di cui parlavamo poc’anzi, con quella rispondenza nell’umano.


Il digitale è la dimensione del presente e del futuro. È un’opportunità e una barriera, una soluzione e un problema, si integra nella quotidianità di ciascuno – al punto che, ormai, confondiamo la vita materiale da quella immateriale – e pervade le relazioni, il pensiero, la politica. Il rapporto anziano-giovane è sempre stato caratterizzato dalla relazione maestro-discepolo, ma oggi questo rapporto è lasco; allo stesso tempo, si è impoverito il livello di dibattito pubblico, la semplificazione ha man mano tolto spazio alla complessità: anche in questi processi ha giocato un ruolo il digitale, spazio che rifugge da ogni tipo di intermediazione.
Sono dell’idea che i padri e i maestri debbano essere contestati perché il mondo si muove attraverso questa rottura. Quello che mi preoccupa della disintermediazione è proprio il fatto che spariscano le soggettività collettive dove si può criticare il maestro e essere allo stesso tempo parte integrante di una comunità, dove i legami rimangono saldi, dove è possibile inseguire un’aspirazione, un sogno, come quello di una società più giusta, e dove è possibile affermare valori nuovi e nuovi diritti. 
I luoghi virtuali non esercitano lo stesso impatto sugli individui: difficilmente da relazioni e spazi virtuali può venire fuori un pensiero articolato, che sia capace di tenere conto non solo dell’ultimo interlocutore con il quale ci si è irritati o con il quale si è convenuti… Non sono, questi, luoghi adatti a far prosperare pensieri complessi, figli di ragionamenti complessi. L’intermediazione che nasce dalle piattaforme, infatti, non è in grado di costruire davvero tali pensieri e ragionamenti.

Il problema nasce dalle lacune della regolamentazione in materia o è strutturale, poiché insito nella natura dei nuovi media?
Il problema è la struttura. Il rapporto dialogico, se è fra due persone o tra un numero limitato di persone, può anche essere retto dallo strumento digitale. Quando, però, occorre tenere conto degli interessi di tutti, di una comunità, delle disuguaglianze che può produrre una decisione piuttosto che un’altra, della coerenza della decisione rispetto a un sistema di valori riconosciuti e condivisi, della differenza di genere, ecc., la forza dello strumento digitale viene meno.
Una piattaforma digitale obbliga ciascuno a circoscrivere il proprio ragionamento e a produrre un pensiero lineare, apertamente esplicito e certamente chiaro ma che, proprio per come è strutturato, rinuncia alla complessità del bilanciamento degli interessi nell’assunzione della decisione. Con questo, ovviamente, non intendo negare l’utilità delle piattaforme, attraverso le quali è possibile vedere come la pensa la gente e capire gli orientamenti su una questione.

Se l’info-mediazione non è una soluzione perché parziale per definizione, dall’altra parte i sindacati e i partiti sono corpi in profonda crisi. Quali saranno i corpi intermedi del prossimo futuro? 
Credo che assisteremo al rilancio delle comunità, nel senso che le comunità si articoleranno rispetto ai beni comuni, alla tutela di un determinato territorio, del patrimonio naturale, culturale e archeologico, di un particolare sapere e così via. Tutto questo tornerà a creare luoghi di condivisione. Non i partiti e i sindacati, quindi, come li abbiamo conosciuti. 
In ogni caso, penso che la politica sia la più alta delle attività umane, da qualche parte ritornerà, in qualche modo, in qualche forma.

Proprio i giovani stanno dimostrando, oggi, una volontà di partecipazione alle scelte che riguardano il loro futuro; a partire dall’attivismo in associazioni ecologiche e per i diritti civili, che negli ultimi anni è aumentato proprio tra le fasce giovanili. Come sta cambiando il rapporto fra giovani e politica?
Mi ha dato una risposta già con la domanda. Ragazzi che agiscono dal basso, che si mobilitano per grandi questioni globali. La questione ambientale affascina molti giovani, ed è giusto che sia così, è il loro mondo, il mondo che abiteranno le generazioni future. L’aderenza al territorio, da una parte, e l’impegno in grandi questioni, dall’altra, ci dicono quanto l’orizzonte globale sia imprescindibile per la politica di oggi. Lo vediamo anche affrontando la questione della guerra in Ucraina. 
Da una parte c’è il mondo intero, dall’altra c’è l’appartenenza a un determinato territorio. Particolare e universale camminano insieme, si scontrano e si incontrano in un legame di mutua reciprocità.