L'America Latina siamo noi partiti da questo porto

Di Marco Ferrari

30 settembre 2020

L’arrivo doveva assomigliare il più possibile alla partenza. L’ombra del rimpianto spariva così dai volti attoniti di contadini che avevano affrontato l’oceano Atlantico senza mai aver visto il mare prima. Forse il mare stava dentro di loro, un brontolio di umane proteste per ciò che la vita stava ordendo a loro discapito o vantaggio, a seconda dei punti di vista.

A Buenos Aires più di metà dei cittadini porta cognome italiano, a Montevideo su un milione di residenti ben 130.000 hanno passaporto italiano. Per non parlare di San Paolo, la città con il maggior numero di italiani al mondo o del sud del Brasile o del Paraguay, del Venezuela e del Cile. A Buenos Aires gran parte degli italiani sono passati dall’Hotel de los Inmigrantes, un edificio lungo e squadrato, come una caserma di 10.000 metri quadrati, appena discosto dalle rive del fiume, in avenida Antártida Argentina. Oggi, vedendolo, pare dominato dal silenzio della storia. Eppure siamo a due passi dal chiassoso centro cittadino e molto vicini al moderno Porto Madero con ristoranti, locali, multisale cinematografiche e centri di divertimento. L’Hotel de los Inmigrantes una funzione importante continua a svolgerla perché là è conservata una banca dati di circa 4 milioni di registrazioni d’ingressi tra il 1882 e il 1927. Un ufficio a cui si rivolgono coloro che, desiderosi di ricevere il passaporto della nazione di origine, cercano i dati relativi al primo avo che ha toccato terra a Buenos Aires.

C’era un tempo in cui Genova e Buenos Aires erano quasi un’unica città, distanti un oceano di mare. Nello stesso periodo di fine Ottocento i due porti avviarono in contemporanea lavori di ampliamento per reggere il traffico umano tra Italia e Sudamerica, circa 100.000 persone l’anno. Già nel 1895 su 660.000 abitanti di Buenos Aires, 225.000 erano italiani; negli anni Trenta del Novecento gli italiani erano più della metà degli abitanti della metropoli.

Alle latitudini di Buenos Aires il tempo ingloba tutto: le storie dei dannati dei secoli Ottocento e Novecento, le parentele perdute e ritrovate, le utopie di Perón, le speranze dell’umbro Frondizi, i dolori provocati dai generali golpisti e le illusioni distruttive di Menem. «La distanza è atlantica, la memoria è cattiva e vicina» rammenta Ivano Fossati. In quella «strana Europa spostata dall’altra parte dell’oceano», come diceva Borges, può capitare davvero di sentirsi alla rovescia e cioè più italiani che in Italia. Del resto Buenos Aires è la città con il maggior numero di psicologi rispetto alla popolazione poiché i portenos soffrono di una malattia rara, quella della vida deslocada, dello sradicamento e dell’ambiguità, figli di un continente perduto, l’Europa lontana, che ha superato i loro progetti di gloria.

Oggi gli italo-argentini si annidano dappertutto con l’impeto delle passioni italiane, il passo del tango, gli enigmi del dialetto lunfardo, inventato per dribblare la polizia, la flaca dell’attesa di qualcosa che non arriva mai e il gusto del depistaggio, secondo le leggi del loro gioco di carte preferito, il truco. Se il tango è un pensiero triste che si balla, secondo la romantica definizione del tanguero napoletano Enrique Discépolo, il calcio è un pensiero ricco che si pratica, poiché gli italiani hanno inventato grandi club blasonati come quello xeneizes del Boca Juniors, il River Plate, il club Mártires de Chicago de La Paternal, da cui prese le insegne l’Asociatión Argentinos Juniors, e poi El Porvenir, il Chacarita Juniors, che è nato in una biblioteca anarchica e l’Independiente, “los Rojos De Avellaneda”, i cui soci non scordano che le loro maglie identificavano il colore dell’anima dei fondatori e il loro nome non significa altro che “Independientes de la patronal”.

Quella, del resto, finita la guerra, era la quinta potenza al mondo, il miraggio di tanti italiani che sfuggivano alla miseria delle campagne, la metropoli dove si estendeva l’ingegno italiano rappresentato da palazzo Barolo, un edificio nella centralissima avenida de Mayo, che avrebbe dovuto ospitare le spoglie di Dante Alighieri, secondo i disegni dell’architetto Mario Palanti e dell’industriale Luigi Barolo, nativo di Biella. Tutti sogni che dittature e cattivi governi, corruzioni ed errori politici hanno spezzato per sempre lasciando milioni di italiani soltanto con il tarlo della loro identità perduta.

(In copertina) Angolo della celebre via-museo Caminito del barrio La Boca, foto di Neale Cousland, Buenos Aires, 14 febbraio 2009. (Sopra)Le conventillos di Caminito, foto di Thiago Santos, Buenos Aires

Il gemello di palazzo Barolo si chiama palazzo Savio e sta dall’altra parte del Río de la Plata, a Montevideo, una metropoli che si formò come le città italiane da cui partivano “i barchi per la Merica”. La sagoma possente che si individuava in un baluginare di nebbie dopo venti- trenta giorni di traversata poteva benissimo sembrare quella di Napoli, Palermo o Genova. La capitale uruguayana portava addosso proprio gli abiti del primo scalo di avvio, la metropoli ligure. Come la città della Lanterna aveva un porto adagiato con dolcezza nella conca protettiva di un bel promontorio, aveva alle spalle un centro storico di viuzze da intrigante angiporto, poi una grande piazza (Independencia) che assomigliava a piazza della Vittoria (non a caso segnata dalla monumentale scalinata dedicata a Colombo) e quindi una via retta (oggi avenida 8 de Julio) che saliva verso il culmine della città, esattamente come via XX Settembre. Le ramblas sul Río de la Plata, poi, copiavano il sinuoso corso Italia di Genova ricco di eleganti palazzi, stabilimenti, locali notturni e belle spiagge.

Per arricchirla furono invitati, a diverse riprese, maestri architetti e artisti italiani cesellatori di forbite ricchezze urbanistiche e monumentali: Vittorio Meano e Gaetano Moretti per il Palacio Legislativo; Mario Palanti per palazzo Savio inaugurato nel 1928; Carlo Zucchi e il Teatro Solís ideato nel 1841; Luigi Andreoni per l’ospedale italiano Umberto I del 1890; Giovanni Tosi e il progetto dell’Hotel Nacional del 1885; gli scultori carraresi Giuseppe Livi, Carlo Piccoli e Giuseppe Del Vecchio e le loro marmoree statue al cimitero centrale.

Oggi solo le fotografie e i documentari in bianco e nero ci descrivono il cambio d’identità di tanti emigrati italiani: l’arrivo nel chiassoso ma efficiente porto di Montevideo con le banchine di legno stracolme di gente in attesa di un parente, un amico, un carico da tirar giù, un affare da concludere. Poi i controlli della polizia di frontiera che non erano così severi come a Ellis Island o a Porto Madero. Quindi il primo respiro vero, a pieni polmoni, l’impatto con un mondo sconosciuto e diverso ma in fin dei conti non opposto al luogo di partenza. Già nei vicoli della città vecchia si sentiva l’odore della fainà (alla quale è dedicata una festa nazionale in agosto), si mischiavano i dialetti, si vendevano giornali in lingua italiana, nascevano associazioni operaie e anarchiche, si ritrovavano volti conosciuti, sembianze di un’età che si stemperava già nel ricordo. Poi ecco le occasioni di lavoro, l’edilizia, le cave, la campagna, il commercio, la produzione di pasta. Nei quartieri affollati di italiani le case di legno con l’acqua di scolo davanti al patio già lasciavano posto agli edifici in cemento che allungavano la città ai due opposti, da Aguada a nord a Buceo a est sino a Punta Carretas a sud estendendo l’area urbana oltre l’attuale boulevard General Antigas che corre dritto come una freccia delimitando il centro della capitale uruguayana. Con uno sforzo che contemplava il doppio lavoro o il lavoro notturno e persino un’occupazione per le donne e i bambini, gli italiani cominciarono a costruirsi le proprie case. Era un moto d’orgoglio, il senso del riscatto a prevalere sulla rassegnazione. E con uno spirito di solidarietà encomiabile la domenica mattina i parenti, gli amici e i compaesani davano una mano al proprietario nella costruzione del nuovo edificio. In quel lavoro comune ciò che contava era stare insieme, riconoscersi, ritrovarsi con un senso di festa che rimandava alla spensieratezza perduta per causa di guerre, disastri, povertà.

Parli di Montevideo e ti sembra di parlare d’Italia. Qui i primi a sbarcare, in epoca coloniale, furono i genovesi per ovvie opportunità commerciali anche se si erano già affacciati navigatori, esploratori, gesuiti. Jorge Burgues, nato come Giorgio Borghese Posansa a Rapallo nel 1691, fu un proprietario terriero e funzionario del governo coloniale del Rio de la Plata, considerato dai libri di storia «il primo colono civile, rurale e permanente della città San Felipe y Santiago de Montevideo». Il ligure fu sindaco della città sotto dominio spagnolo dal 29 dicembre 1729 e rieletto nel 1741.

L’idea stessa di Uruguay vide gli italiani primeggiare grazie a Giuseppe Garibaldi che è più eroe da queste parti che nella penisola. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento arriva quella che viene definita “immigrazione trasformatrice” che fornisce un’impronta decisiva all’Uruguay moderno considerato a lungo la “Svizzera americana”. Forse più che in Argentina, qui l’identità italo-uruguayana si definisce nei contorni di doppia cittadinanza, bilinguismo, integrazione, intreccio tra culture. Non c’è rottura con la memoria, non c’è sradicamento, non si assiste a una perdita totale delle proprie origini. Quelle resteranno e giungeranno sino a noi. La somiglianza urbana ha un effetto di rilassatezza, tranquillizza gli animi inquieti di chi traghetta l’esistenza da un’altra parte e conferma la capacità di molti italiani, provati dalle guerre, dalla fame, dalle campagne aride e dalle traversie politiche che la resilienza è possibile. Nell’interno si fondavano vere e proprie colonie, come a Paysandú, dove circa il 60% della popolazione è di origine o ascendenza italiana e dove ancora oggi la solidarietà passa da istituzioni come l’Unione e benevolenza, la Scuola italiana, il Gruppo lombardi e la Federazione italiana di Paysandú. A forgiare il nuovo Uruguay ci pensano anonimi commercianti o agricoltori, ma anche figure imprenditoriali come Francesco Piria, figlio di genovesi, creatore e ideatore della cittadina balneare che porta il suo nome, Piriápolis.

Il transatlantico Giulio Cesare usato per le rotte transoceaniche in partenza da Genova, anni Venti

La cultura politica non deve incominciare da zero. Gli italiani alfabetizzati e sindacalizzati (la metà proviene dal nord della penisola) portano ideali, principi e progetti associazionistici. Qui si trasferiscono le grandi ideologie europee, qui anarchici, massoni e libertari trovano casa, si sperimentano novità in materia di servizi sociali, educazione, diritti delle donne, lotta all’analfabetismo (che nel 1957 era soltanto al 9,5%). I presidenti della Repubblica sono in gran parte italo-uruguayani: José Serrato, Gabriel Terra, Alfredo Baldomir Ferrari, Rafael Addiego Bruno, Pedro Alberto Demicheli, Julio María Sanguinetti e anche José “Pepe” Mujica è di madre ligure.

Oggi un terzo della popolazione uruguayana porta cognome italiano. Si calcola che a sbarcare al porto di Montevideo siano stati circa 350.000 italiani, dall’indipendenza agli anni Sessanta del secolo scorso (su un totale di 55 milioni di europei che hanno attraversato l’Atlantico). Gli storici dividono questo flusso in diversi periodi: 1820-60 con lo sbarco di 40-50.000 immigrati (metà lombardi e metà liguri e piemontesi, tutti imbarcati a Genova); 1860-70 con l’arrivo di circa 100.000 italiani, dal nord, dalla Toscana, dal sud ed esuli garibaldini delusi dal nuovo regno; tra fine Ottocento e inizio Novecento con emigrazione di massa di 110.000 persone che vanno a formare il proletariato urbano; dopo la prima guerra mondiale con emigrazione qualificata e politica, soprattutto antifascisti perseguitati dal regime fascista; infine, al termine del secondo conflitto con gente che cercava una nuova vita dopo la distruzione dell’Europa. Con una media di circa 2000 arrivi l’anno, la punta massima si toccò nel 1955 con 3300 sbarchi. Il boom industriale bloccò il flusso migratorio. Quello navale andò avanti sino agli anni Settanta quando gli aerei sostituirono definitivamente i transatlantici.

Il viaggio, all’epoca, durava una ventina di giorni ed era abbastanza confortevole nonostante in terza classe le cuccette fossero ancora piccole e poco distanti una dall’altra. Si partiva da Genova con scali a Cannes, Barcellona, Lisbona, Funchal, Dakar, Rio de Janeiro, Santos e destinazione finale Buenos Aires. I minori di un anno non pagavano il biglietto, sino a 5 anni un quarto del prezzo, da 5 a 10 metà. Ogni passeggero poteva portare con sé 100 chili di bagaglio. I nomi, le insegne e le immagini dei transatlantici ancora si ritrovano nelle case, nei negozietti e nei mercati di Montevideo: Conte Biancamano, Conte Grande, Roma Augustus, Giulio Cesare, Duilio, Conte di Savoia, Andrea Doria sino al Leonardo da Vinci, Michelangelo e Raffaello, l’ultimo gioiello della flotta perduta.

Campo da gioco con murales de La Boca, foto di David Wall, Buenos Aires

Gli umili emigranti si mischiavano, sulla coperta, con attori, cantanti, musicisti e registi che utilizzavano la lussuosa prima classe dei transatlantici come mezzo per spostarsi da un continente all’altro. Qualcuno riuscì persino a strappare un autografo o una foto con Arturo Toscanini, Tazio Nuvolari, Manuel Fangio, Omar Sivori, Salvador Dalí. Ancora si usava distribuire i manuali di viaggio come quello scritto nel 1952 dall’allora procuratore legale italiano a Montevideo Francesco Abati intitolato “Lo que todo emigrante debe saber”.

Il sistema della rete di amici, parenti, compaesani e commercianti resse l’urto della grande migrazione sino al secondo dopoguerra quando finalmente si decise di regolarlo con intese internazionali. L’Italia era uscita dal conflitto bellico stremata con un territorio martoriato e colmo di ferite. Ai danni della guerra si aggiungevano la disoccupazione, le industrie danneggiate, il rientro dei profughi dalle colonie d’Africa e degli istriani in fuga dalla Jugoslavia Le autorità consideravano in 3 milioni e 200.000 la manodopera accedente sul suolo patrio. Così nel 1952 Italia e Uruguay firmarono un accordo di immigrazione per dare soluzione al problema dell’eccedenza di popolazione e allo stesso tempo proteggere nel migliore dei modi la manodopera operante all’esterno della penisola. Si introduce il sistema del contratto individuale di lavoro tramite chiamata con informazione trimestrale oppure del ricongiungimento famigliare. I governi pagavano sino al 25% del passaggio e una assicurazione sul viaggio mentre in Uruguay il lavoratore aveva diritto a quindici giorni di alloggio gratuito. Ad attirare gli italiani erano slogan del tipo: «Ottimo clima, condizioni vantaggiose di commercio, popolazione esclusivamente bianca, una moneta dal valore altissimo». Qui il concetto di tolleranza è sempre stato di casa, a parte il lungo tunnel della dittatura. Il contatto non si è mai interrotto dall’epoca della navigazione a vela a quella dei transatlantici con lo scambio di merci Montevideo-Genova che garantiva all’Italia un saldo attivo nella bilancia commerciale e un sicuro ritorno di rimesse economiche da parte degli emigranti alle famiglie di origine (9 milioni di lire alla fine degli anni Novanta dell’Ottocento). L’insegnamento dell’italiano nelle scuole ha tenuto aperto lo scambio di informazioni con i luoghi di origine, ora rinvigorito dai nuovi sistemi informatici. Alcune istituzioni, come la prestigiosa Scuola italiana di Montevideo, l’Istituto italiano di cultura oltre a Rai International garantiscono oggi l’aggiornamento della cultura italiana in Uruguay contando su un potenziale mercato di circa 200.000 utenti. Il quotidiano in lingua italiana “Gente d’Italia” tiene aperta una finestra sui fatti della penisola. Un piccolo miracolo che resiste in tempo di crisi e di manovre riduttive dello Stato italiano. Ora non si parla più di “Svizzera d’America” e l’Italia, invasa da nuovi emigranti, ha dimenticato di essere stata patria di emigrazione. Così va il mondo.