L’Emirato, i nuovi talebani e i timori di Cina e Russia

01 settembre 2021

Di Augusto Rubei

La caduta di Kabul è stata paragonata a quella di Saigon nel ’75, un confronto tutto sommato improprio se si analizza il contesto storico di riferimento e se si considerano gli effetti che la nascita del nuovo Emirato Islamico dell’Afghanistan potrà avere su Mosca e Pechino sotto il profilo della loro sicurezza interna. Prima di tracciare qualsiasi previsione è opportuno focalizzarsi su ciò che l’Emirato islamico è già stato, guardando a quanto i talebani fecero nel 1996 quando, per la prima volta, salirono al potere, imponendo una visione integralista e distorta dell’Islam, dure costrizioni nei confronti delle donne e il bando di ogni attività ludica. La domanda che oggi tutto il mondo si sta ponendo è la seguente: sono davvero cambiati i talebani? È presto per dirlo. Fino adesso hanno dimostrato di saper combattere (non era un mistero), hanno riconquistato il Paese passo dopo passo, ma ora dovranno mostrarsi capaci di governarlo. Per questo motivo, il movimento continua a dispensare messaggi distensivi alla popolazione, tanto che il loro portavoce ha annunciato che l’Emirato si impegnerà per i diritti delle donne nel quadro della sharia, che però significa dire esattamente l’opposto. C’è chi parla di un grande consenso del popolo afghano nei loro confronti, ma se è così perché nelle stesse ore in cui il movimento offriva garanzie, concedendo amnistie e presunte aperture, migliaia di afghani continuavano ad affollare l’aeroporto di Kabul con la speranza di fuggire definitivamente dalla loro terra? Il grado di scettiscismo interno è alto, figurarsi quello esterno. Sono di dominio pubblico gli interessi convergenti tra il movimento talebano e al Qaeda, evidenziati anche da un report delle Nazioni Unite, nonché gli affari e gli scambi mai pubblicamente ammessi tra il movimento e i miliziani dell’Isis. E non è un caso che si stia già formando una resistenza armata ai talebani, guidata da Ahmad Massoud, figlio del leggendario comandante militare afghano Ahmad Shah Massoud che fu assassinato dagli uomini di bin Laden appena due giorni prima degli attentati dell'11 settembre. Elementi che lasciano presagire scenari di grande instabilità. Ed è intorno a questo grande dibattito, oggi, che si snodano le preoccupazioni di Washington, dell’Europa, ma in particolare di russi e cinesi.

A dispetto delle apparenze, nel lungo periodo la presa talebana di Kabul sarà infatti più un problema per Vladimir Putin e Xi Jinping di quanto non lo sia per Joe Biden, mentre il compito dell’Ue dovrà essere quello di separare Mosca da Pechino. Le regioni da attenzionare sono lo Xinjiang e il Caucaso. Il 28 luglio il mullah Abdul Ghani Baradar, già vice del defunto mullah Mohammed Omar e co-fondatore dell’Emirato islamico, ha guidato una delegazione a Pechino in un incontro con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. Al centro dei colloqui c’è stata la richiesta cinese ai talebani di tagliare completamente ogni legame con il movimento del Turkestan orientale, che la Cina considera un'organizzazione terroristica e che lotta per l'indipendenza dello Xinjiang. La delegazione talebana ha fornito le sue rassicurazioni poiché spera di sviluppare relazioni amichevoli con la Cina per garantirsi un ruolo attivo negli investimenti durante la ricostruzione, ma è troppo presto per dire se i talebani manterranno la parola data e Pechino sa benissimo che, indipendentemente dagli accordi, il successo talebano in Afghanistan può incoraggiare la nascita e la proliferazione di nuovi gruppi e cellule islamiste in tutta l'Asia centrale, con un potenziale di influenza proprio nello Xinjiang, il che rappresenterebbe un ulteriore ostacolo alle iniziative già in corso (vedi il progetto della linea ferroviaria tra Cina e Afghanistan via Kazakistan e Uzbekistan) per stabilire un corridoio di trasporto per il commercio che sarà cruciale per incorporare gradualmente l'Afghanistan nella Belt and Road Initiative (BRI). Un clima analogo si respira anche a Mosca, dalle parti del Cremlino, preoccupato per le ripercussioni che la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan avrà sul Caucaso settentrionale. Le ragioni sono principalmente tre. In primo luogo, la vittoria dei talebani ispirerà sicuramente i gruppi ribelli islamisti nella regione, proprio come le precedenti vittorie islamiste in Medio Oriente li hanno motivati in passato (tutti ricordano l’era Umarov, fondatore dell’Emirato del Caucaso fino alla sua morte). In secondo luogo, dopo la caduta di Kabul, è probabile che un gran numero di nord caucasici andati in Afghanistan a combattere per i talebani, per l’Isis, o per qualsiasi altro gruppo criminale ritornino nelle loro terre per cercare di promuovere il jihad e possibilmente aumentare le loro possibilità di guadagno attraverso il traffico di droga. E terzo, come spesso si dimentica, il Caucaso settentrionale rimane un terreno fertile per i radicalismi. Mosca non è stata in grado di impedire a questi combattenti di partire, ed è improbabile che si mostrerà in grado di impedire loro di tornare.