La Chiesa tra digitale e umano: intervista a Don Luca Peyron

Di Niccolò Serri

18 febbraio 2021

A prima vista teologia e digitale sembrano due mondi distanti. La fede è il regno dell’immateriale spirituale, la tecnologia, dall’altro lato, sembra incarnare il mondo del materialismo scientifico. Secondo lei, come possono la teologia, e soprattutto la fede, aiutarci a navigare oggi in un mondo profondamente modificato dall’intelligenza artificiale, dove nuovi sistemi autonomi restringono i margini per il libero arbitrio umano?

La teologia cattolica parte da un fondamento: quello dell’incarnazione, secondo cui Cristo si è fatto carne. Nel momento in cui l’immateriale si fa materiale, il verbo di Dio diventa carne e investe la realtà nella sua totalità. Ciò non vuol dire accettare una sorta di panteismo, ma riconoscere che l’evento di Cristo modifica radicalmente il rapporto tra il divino e l’umano: dalla totale alterità tra le due sfere, si arriva a credere a un divino umano, giocato sul dinamismo tra ciò che è pienamente divino e ciò che è pienamente umano.

Parto da questa premessa perché credo sia determinante, paradossalmente, anche per analizzare il rapporto tra l’uomo e le macchine: la nostra relazione con la tecnologia rischia di essere conflittuale, contrapponendo costantemente l’uomo alla macchina, e viceversa. La soluzione non è scegliere tra questi due poli, ma vivere il più possibile nella loro dialettica. La divino-umanità di Cristo rappresenta un modello di pensiero esistenziale, una postura relazionale che può offrire risposte alle grandi alternative poste dalla trasformazione digitale: uomo-macchina, materiale-immateriale, cyborg-umano. Laddove non esistono contrapposizioni nette, infatti, è possibile operare una scelta, non di compromesso, ma di compimento. Una scelta di compromesso sarebbe quella di prendere un pezzo di qua e uno di là: Gesù è un po’ uomo e un po’ Dio. La scelta di compimento è riconoscere la coesistenza perfetta delle due nature. Il compimento è innestarsi in un “già”, cioè in una realtà preesistente, e andare verso un “non ancora”.

Io credo che la tecnologia possa essere uno strumento importante a fianco dell’uomo per il suo compimento. Penso, per esempio, alla realtà virtuale. La virtualità non si oppone alla realtà materiale in quanto tale, anzi, può diventare uno strumento di progettualità che aiuta l’uomo a essere pienamente sé stesso e ad abbracciare la sua chiamata vocazionale. Se il virtuale ci fa vedere una modalità di esercizio dell’umano che è anti-umana, non-umana o trans-umana, solo allora esso diventa uno strumento non per il nostro compimento ma addirittura per il nostro annichilimento

La logica del suo discorso sembra entrare in contrasto con le regole commerciali dell’industria digitale, dove gli aspetti transumani e antiumani della tecnologia vengono spesso estremizzati.

Ogni teologia, non solo quella cattolica, è caratterizzata da un elemento sostanziale che è l’escatologia; alcune escatologie prevedono che ci sia un aldilà, altre prevedono che non ci sia nulla, alcune credono nella fusione con il cosmo, altre ancora immaginano la reincarnazione. Il modo in cui concepiamo la vita oltre la morte serve a dare un senso alla nostra esistenza, la dà una teleologia. La trasformazione digitale, però, non è guidata da una finalizzazione chiara, ha solamente due obbiettivi: il primo è la massimizzazione del profitto, guidata dalle imprese e dal mercato; il secondo è la performatività del sistema digitale, in cui le macchine devono lavorare in maniera sempre più efficiente. In un mondo in cui la nostra vita viene regolata esclusivamente dalla reddittività del sistema digitale, ci troviamo spiazzati.

Ed è proprio qui che dobbiamo innestare la tanto citata istanza etica, partendo dalle considerazioni semplici: che cosa è bene e cosa è male? Sappiamo che è bene l’essere e che è male il nulla; sappiamo che è bene la vita e che è male la morte. Se già incominciassimo a mettere ordine da un punto di vista etico alla trasformazione digitale utilizzando questi due criteri sostanzialmente validi per buona parte del mondo, potremmo già dare un contributo significativo. Le imprese private, però, non operano in questo modo e non è neanche giusto che lo facciano. Il problema di fondo è che abbiamo delegato a soggetti ai quali non può essere delegato un compito che evidentemente non possono assumersi.

Dal un punto di vista pratico, il progresso tecnologico pone delle nuove sfide alla Chiesa Cattolica. Da un lato, il medium digitale rischia di rendere gli individui più soli, limitando le relazioni umane allo schermo del computer. Allo stesso tempo, però, è innegabile il suo potere di connessione, che può favorire la disintermediazione tra individui. Secondo lei in che modo la trasformazione digitale può favorire l’avvicinamento tra chiesa e società?

Prima di tutto dobbiamo sgomberare il campo dallo stereotipo mercantile della Chiesa. La Chiesa non ha l’obbiettivo di raccogliere più adepti possibili, benché si siano scritti molti libri sul marketing religioso. Il prodotto, oltretutto, è piuttosto difficile da vendere: un Dio crocefisso che, nel silenzio, soffre per il genere umano. Il digitale non serve alla Chiesa per mantenere una rendita d’anime, piuttosto rappresenta uno strumento per assolvere il mandato che le è stato dato da Cristo: quello di andare per il mondo e annunciare il Vangelo. La trasformazione digitale, nella misura in cui permette di adempire a questa missione, proprio perché frutto dell’umano, non può che essere in qualche modo assimilabile alla missione millenaria della Chiesa. La trasformazione digitale fondamentalmente oggi è una questione di infosfera e di comunicazione, in cui, proprio come diceva Marshall McLuhan, il “medium è il messaggio”. Come tale, la Chiesa deve esserci, perché Cristo per primo si è fatto accanto all’umano.

In questo contesto, credo che il vero problema della trasformazione digitale sia la “datificazione” della realtà. Papa Benedetto XVI diceva che nel momento in cui l’essere umano diventa numero, diventa il numero della bestia, cioè di Satana. Lui faceva riferimento ai campi di concentramento e a tutte quelle situazioni in cui l’essere umano è stato ridotto a numero proprio per cancellare il suo essere persona. La realtà che diventa numero deve essere guardata con attenzione e preoccupazione perché non è detto che il numero riveli la realtà nella sua pienezza e nella sua totalità: molto banalmente gli emarginati, gli ultimi, non rientrano all’interno dei radar che normalmente determinano la datificazione. Se io sono povero e non ho lo smartphone non esisto per i decisori politici, non esisto per i decisori economici, non esisto per nessuno. E quindi sono ancora più escluso perché sono numericamente inesistente, non rientro addirittura più nemmeno nelle statistiche. Questo aspetto della trasformazione digitale va in qualche modo governato: sia nell’acquisizione del dato, che nella sua gestione e manipolazione.

Questa sua ultima riflessione fa venire in mente il classico di Alvin Toffler, Future Shock (Random House, 1970), in cui l’autore spiegava come la velocità sempre più crescente dello sviluppo tecnologico finisse per lasciare indietro le generazioni e le classi sociali a cui mancano gli strumenti per leggerne l’evoluzione.

La trasformazione digitale è un processo in itinere e quindi non è poi così semplice capire tutte le sue implicazioni future. Leggendo le ultime statistiche, ad esempio, scopriamo un risultato sorprendente: anche i ventenni si stanno cominciando a ritirare dalla sfera digitale, hanno mollato Facebook e sono troppo maturi per TikTok, qualcuno comincia a usare Linkedin, ma limitatamente al mondo del lavoro.

Io sono convinto di una cosa, e questo di nuovo è un dato teologico: ovunque si andrà a parare, non potremo allontanarci troppo da quello che è l’essere umano. Quando è nato il mondo elettronico di Second Life in molti hanno profetizzato la fine delle relazioni sociali. Anche tra gli ecclesiastici, era molto in voga l’idea di creare delle parrocchie in questo universo virtuale. Ma la forza dell’umano - che è poi anche la sua debolezza - è proprio quella di essere una persona; possiamo avere tutti gli avatar di questo mondo ma, alla fine, un bacio è un bacio, e a vent’anni ho bisogno di un bacio. L’umanità è irriducibile al dato, al virtuale, all’immateriale, a tutte le corbellerie che lo Zuckerberg di turno può inventare. Il problema vero è che siccome non potremo mai andare troppo lontano dall’umano, si sta cercando di meccanizzare il più possibile l’umano, per ragioni di semplificazione e omologazione.

L’ultima domanda riguarda la città di Torino: a settembre 2020, il Governo ha selezionato Torino per ospitare l’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale. A lanciare la sfida siete stati proprio lei e l’Arcidiocesi di Torino poco prima dell’estate. Cosa ha motivato questa decisione di assumere un ruolo di primo piano e, soprattutto, che cosa si aspetta dal nuovo istituto?

Papa Giovanni XXIII aprendo il Concilio Vaticano II diceva che la Chiesa è esperta di umanità. Come tale, può rendere un servizio al bene comune portando un contributo di pensiero alla trasformazione digitale. E Torino ha alcune carte in regola per diventare il centro di questa riflessione. Per la sua storia: la città rappresenta infatti una punta avanzata sui temi etici e valoriali del mondo del lavoro. Al pari di altri territori, ha eccellenze accademiche e di impresa ma ha anche uno sguardo tutto particolare alle tematiche sociali del mondo del lavoro, sia dal lato ecclesiale che da quello politico. La digitalizzazione è prima di tutto una transizione da una modalità di lavoro ad un’altra e come tale ha anche dei costi umani. Se noi applicassimo dall’oggi al domani l’automazione, molti disoccupati non potrebbero essere riassorbiti dal sistema con immediatezza. Torino può portare un grande contributo all’elaborazione su questi temi.

Per fare ciò, l’aggettivo nazionale del futuro Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale non deve restare una semplice connotazione geografica. L’aggettivo “Italiano” simboleggia infatti un patrimonio di radici e di valori, significa coniugare la civiltà latina con la civiltà greca, significa il Rinascimento e il Risorgimento, significa certamente la cultura cattolica, significa l’umanesimo di cui siamo stati portatori. L’Intelligenza Artificiale sarà veramente italiana se sapremo trasfondere nelle macchine un’algoretica – come dice il mio amico Paolo Benanti - capace di trasformare in codice binario il nostro patrimonio etico e culturale.

E questo è solo il punto di partenza: Torino deve diventare un centro europeo dell’intelligenza artificiale, riportando al cuore dell’Europa quel bagaglio culturale che l’ha fatta diventare un continente. Oggi mi sembra che questo bagaglio culturale sia stato messo da parte, importando tanto da Oriente quanto da Occidente modalità di vivere la società e l’umano che non ci appartengono. Riportare i valori della cultura Europea al centro della riflessione sulla transizione digitale ci aiuterà a tornare di nuovo grandi, non nel senso di potenza e ricchezza, ma come civiltà matura capace di assumersi le proprie responsabilità.

Don Luca Peyron è direttore della pastorale universitaria e coordinatore del servizio per l’Apostolato Digitale dell’Arcidiocesi di Torino