La democrazia al tempo del Covid-19. Sopportare i limiti, a quale prezzo?

Di Nadia Urbinati

29 maggio 2020

CITTÀ CHIUSE E CITTÀ APERTE

 

Le città premoderne avevano muri, spesso anche fossati. In età cristiana alzavano muri anche al loro interno, per segregare gli ebrei. Città-ghetto rispetto al mondo largo; quartieri-ghetto rispetto alla città. Chiudere era anche una soluzione contro le epidemie. Il “Decameron” ha per protagonisti un gruppo di giovani che nel 1348 lasciano Firenze, dove imperversa la peste nera, e riparano fuori le mura. La città murata diventava un lazzaretto. Al confronto, le nostre società sembrano aperte. Ma si tratta di un’illusione ottica, perché le nostre non lo sono mai completamente, neppure in tempo di normalità (non dimentichiamo i tanti muri anti-immigrazione che gli Stati democratici hanno costruito per “proteggere” le loro libertà). I muri fisici non sono mai scomparsi.

Nel tempo del coronavirus altri muri sono stati alzati, giuridici e politici. Anche di questi ve n’erano già nelle città premoderne, ad esempio quelle che ci hanno dato i fondamenti della politica, Atene e Roma. La democratica Atene, orgogliosa della propria libertà politica, non estendeva la cittadinanza a residenti lavoratori non ateniesi, né ovviamente agli schiavi e neppure alle donne. Quell’antica autonomia era a tutti gli effetti un privilegio dei maschi autoctoni. Roma era più aperta, anche nella concessione della cittadinanza, ma in compenso aveva barriere che dividevano il corpo politico e il potere, i molti e i pochi. Ma rispetto al mondo era aperta, non autoctona. Roma era una città protesa ai commerci e alle conquiste militari; limes designava barriera e confine, e anche strada d’accesso o attraversamento, un termine che si adattava all’espansione imperiale.

Le nostre società democratiche mescolano chiusura e apertura, autoctonia e cosmopolitismo, direttrici divergenti e che stanno sempre in coppia. Mazzini e Kant rappresentano al meglio questo elastico di appartenenza alla nazione e all’umanità, la tensione (capace di sfociare in conflitto distruttivo) tra rispetto delle persone nelle loro specificità culturali (siamo tutti esseri situati) e rispetto delle persone nella loro umanità (siamo tutti capaci di soffrire). La società moderna ha la presunzione di essere riuscita a mediare con il diritto chiusura e apertura. Da un lato, ha in alcuni casi (pochissimi, in effetti) dissociato la cittadinanza dall’ethnos; dall’altro ha accettato (con molte riserve applicative) convenzioni sui diritti che dovrebbero riuscire a legare tutte le nazioni del mondo in un unico destino, con doveri morali e obblighi giuridici. Di fatto, l’apertura ha funzionato molto meglio nel campo economico – la filosofia del doux commerce, della pace per mezzo degli scambi, ci propone un mondo unificato sui pilastri dell’interesse a prosperare e guadagnare. Questa è la faccia del cosmopolitismo che ha oggi più successo, e che ha aperto la strada al contagio globale. Unito dalle linee di comunicazione e dagli affari, il nostro mondo è diventato un luogo ideale per la delocalizzazione, l’interdipendenza e... la pandemia. Come si chiudono le città aperte fondate sul diritto?

(In copertina) Birdy – Le ali della libertà, di Alan Parker, 1984. (Sopra) Senzatetto si preparano a passare la notte all’interno di aree circoscritte in un parcheggio di Las Vegas, foto di John Locher, Nevada, 30 marzo 2020

DENTRO LE MURA DELLA NOSTRA LIBERTÀ

 

Se le città medievali si chiudevano dentro le mura, le nostre società aperte chiudono i cittadini dentro le loro case, che diventano le mura delle società aperte. Nel mondo dell’universalità degli scambi, degli istituti internazionali di diritto privato e commerciale, sono i singoli a doversi ingegnare a svolgere la funzione che un tempo era svolta dalle mura e dai fossati. Dove il diritto civile e le convenzioni sui diritti hanno abbattuto mura e reso ciascuno di noi un sinolo di diritti, è il diritto a fare da chiavistello. Mentre i giovani del “Decameron” si ritirarono nella campagna fuori le mura, noi liberi cittadini ci ritiriamo nelle nostre abitazioni e interrompiamo quella larghezza di comunicazione che il diritto continua a garantirci. Il diritto è il muro che dovrebbe proteggerci dalla pandemia del coronavirus. E per non morire di virus, moriamo un po’ nelle nostre libertà accettando di congelarle, preservandole per il “dopo”.

In due mesi di quarantena abbiamo sperimentato il paradosso del diritto che chiude e limita senza toglierci la libertà: vivere liberi costretti nelle nostre case (quando abbiamo una casa); fare della nostra vita un luogo di rinuncia per la nostra salvezza. Dobbiamo riflettere criticamente sulla vulnerabilità a cui è soggetta la persona singola armata di diritti, rispetto non solo al virus ma soprattutto alle strategie di protezione che vengono messe in atto e che accettiamo. Nella nostra società, tutto fa centro sulla singola persona: sono i diritti civili ad aprirci e a esporci al mondo; e sono questi stessi diritti a dover essere limitati se da quell’esposizione discendono pericoli come le epidemie. Siamo noi ad accettare, anche con forme autocertificate di assenso, questa limitazione. Nessun despota ci impone la reclusione; non ci sono fili spinati sotto casa. Ce la imponiamo attraverso governi legittimati dal nostro consenso e che sottostanno al sistema dei diritti e dei poteri divisi e limitati.

Sono le nostre democrazie costituzionali attrezzate a questa strategia di limitazione? Lo sono e hanno fin qui avuto successo. Sfatando una insidiosa ammirazione dell’efficienza ordinatrice dei sistemi dispotici. Sono attrezzate secondo le forme che hanno scelto, soprattutto se e quando sono state scritte, come quella italiana, in reazione a un regime dittatoriale e totalitario. La democrazia costituzionale su base parlamentare non assegna a un monarca o a un presidente speciali prerogative di dichiarazione dello stato d’emergenza. Assegna all’esecutivo poteri di decretazione non piccoli ma che sottostanno all’approvazione del parlamento e sono circoscritti nelle funzioni, negli scopi e nel tempo di applicazione. Il fatto inedito di questi mesi di emergenza è stato questo: all’interno della cornice della decretazione d’emergenza, il governo ha fatto largo uso dei decreti amministrativi, i quali consentono all’esecutivo una maggiore latitudine pur senza intervenire direttamente sulle libertà (è la stessa struttura sussidiaria contemplata dal Titolo V ad aver agevolato questa strada). La questione è di lana caprina, poiché regolare l’apertura dei supermercati secondo la loro estensione o decidere di chiudere le attività commerciali ecc.: tutto questo è già limitare la nostra libertà, ma in maniera indiretta o amministrativa. È come se si lasciasse a una persona la libertà di camminare ma le si togliessero le scarpe. Resta libera anche se impossibilitata.

Man near the window, foto di Yuttana Koedpradit

TECNOLOGIA LIMITANTE

 

Insieme al diritto usato come chiavistello, la pandemia nelle società libere ha messo in campo la potenza della tecnologia informatica. Due premesse sono qui necessarie e si legano al tema della libertà: in primo luogo, internet vive del nostro diretto coinvolgimento anche entusiasta – noi ci esponiamo al mondo ogni volta che usiamo social e carte di credito, e questo ci piace, nessuno ce lo impone; in secondo luogo, nessuna costituzione contempla una libertà illimitata; del resto, neppure in un ipotetico stato di natura c’è una tale libertà perché il movimento libero incontra ostacoli. Muoversi senza ostacoli non è pensabile. Essere liberi assolutamente neppure. Quindi, il tema cruciale della libertà si incontra con il tema del limite. Come limitare la libertà, è il problema. C’è differenza tra un esecutivo che sta sotto l’occhio del parlamento e un esecutivo che chiude il parlamento; tra l’emergenza gestita in Italia e quella gestita in Ungheria. Ma non accontentiamoci di questa rassicurante comparazione.

Abbiamo sperimentato in questo periodo, quanto facile sia per chi ha una divisa o ricopre una funzione pubblica interpretare con zelo i suoi poteri: sindaci che rincorrevano i loro concittadini per riportarli a casa; forze di polizia dispiegate contro un cittadino solo su una spiaggia deserta. Il potere, grande o piccolo, alimenta il piacere del comando in chi lo esercita, e questo ci deve insospettire. Quale che sia la legittimità delle norme restrittive, resta il fatto che la mentalità che queste norme giustificano è pericolosa, anche in una democrazia costituzionale. Lo Stato – anche quando si mobilita per il nostro bene – dispone di una quantità di mezzi di interferenza che è sproporzionata ai nostri mezzi di resistenza. Questo è un fatto, quale che sia il regime politico. La più liberale delle democrazie non è meno esposta ai rischi del comando di un sistema che è preordinatamente dispotico.

Una sana diffidenza nei confronti del potere costituito ci deve allertare sull’uso del diritto per fare delle nostre vite e delle nostre case i nostri luoghi di reclusione. Accettiamo le limitazioni, per la nostra e l’altrui salute, ma teniamo a mente che esse fanno di noi, come singoli, dei muri di cinta.

Il distanziamento sociale mira a fare di ciascuno di noi una cittadella murata. In questo contesto va situata la riflessione sull’uso della tecnologia informatica, in particolare la proposta di tracciamento via smartphone, l’app Immuni. Ci dicono i giuristi che in questo caso, un decreto amministrativo non basta; occorre una legge che regoli l’uso dell’app per mettere in sicurezza i nostri dati e garantirci che verranno usati solo per controllare la diffusione del virus e distrutti una volta finita la pandemia. Essendo soggetti privati gli operatori di questo servizio, tali garanzie sono oltremodo obbligate. Ma non valgano a tranquillizzarci.

Nel caso della tecnologia di controllo e di tracciamento i baluardi del diritto non ci danno sufficiente sicurezza. Non solo perché chi esercita il potere di tracciamento può essere tentato a usarlo per scopi a noi ignoti – che venga punito “dopo” non ci rende tranquilli poiché gli effetti psicologici del danno di avere la nostra vita intima violata sono incalcolabili e non risarcibili. Il diritto non ci tranquillizza per le implicazioni che la distinzione tra “contagiati” e “immuni” può avere sui comportamenti sociali. Quanta virtù è necessaria per interagire con tolleranza e rispetto con chi è contagiato? Sappiamo quanto permeabili siamo all’intolleranza e alla discriminazione. Un “non immune” sarebbe percepito come un appestato delle antiche città o come un cittadino di serie B? È possibile che ciascuno di noi sia indotto a classificare gli altri come immuni o contagiati? Con tutta la buona volontà di esperti valenti, di giuristi e politici democratici, non possiamo fidarci, non dobbiamo fidarci.

Le implicazioni delle misure che dovrebbero aiutarci a stare in salute mentre socializziamo (e produciamo) sarebbero ancora più problematiche di quelle che ci hanno aiutato a stare in salute dentro le mura di casa. La democrazia al tempo del Covid-19 ci dovrebbe insegnare ad allenarci alla sfiducia, per produrre anticorpi contro l’assuefazione a forme di vita sociale improntate alla disciplina e alla sorveglianza.

Woman standing on field during daytime, foto di Yuttana Koedpradit