La politica e i suoi tempi

Di Gianfranco Pasquino

30 novembre 2020

Voglio smentire l’Ecclesiaste. Non è vero che “c’è un tempo per la politica e un tempo per l’antipolitica”. Al contrario, politica e antipolitica convivono, in competizione e in contrasto, contendendosi gli spazi. In una certa misura, l’antipolitica è un modo di fare politica, ma fra gli antipolitici si trovano gli alienati, gli apatici, persino gli indifferenti. Possono condividere i sentimenti antipolitici, ma raramente passano all’azione antipolitica. Comunque, l’antipolitica ha bisogno della politica. Infatti, laddove non c’è politica, non fa la sua comparsa neppure l’antipolitica. Nelle società tradizionali, non soltanto del passato, non c’è nessun tempo per la politica. Abitualmente, c’è una persona(lità) che comanda da lungo tempo. È accettata perché, prima di lui, è sempre stato così. Dura in carica e trasmette quella carica ai suoi successori senza nessuna discussione su meriti, conseguenze, vantaggi. Talvolta, la politica, ovvero, conflitti e contrasti, si affaccia nella crisi di successione. Poi, si richiude. Si torna alla accettazione passiva.

Tecnicamente, non è neppure corretto dire che c’è (un) tempo per la politica nei regimi autoritari, teocrazie comprese, poiché l’esistenza di quei regimi, pur nella loro varietà, è per lo più giustificata con la motivazione che è imperativo porre fine alla politica che ha prodotto disordini; ha causato divisioni nel popolo; consuma energie e risorse del sistema. Un regime autoritario anche appena consolidato, se non è semplicemente una repubblica delle banane, ristabilisce l’ordine escludendo la politica e ponendo fine alla politicizzazione. È opportuno non confondere assolutamente la politica con la forza/ violenza con il ricorso alla quale si fondano, si costruiscono e si mantengono i regimi autoritari. Il loro successo dipende anche dalla capacità di spoliticizzare la società (dirò in seguito che cosa è spoliticizzazione). Poiché i regimi totalitari sono caratterizzati dalla massima concentrazione di potere, violenza, terrore, mi pare corretto sostenere che altresì in quei regimi il tempo della politica fa la sua comparsa esclusivamente quando si rivela l’esistenza di crepe, quando si palesano sfide e sfidanti, compaiono gli in(d)izi della decomposizione. Peraltro, avendo fatto piazza pulita degli oppositori e impedito qualsiasi attività politica, i regimi totalitari non si trasformano, ma crollano (l’esperienza dell’URSS docet). Certamente, l’Unione Sovietica non sarebbe stata considerata da Marx (ed Engels) l’esempio di una avvenuta transizione di successo al socialismo. Quindi, l’affermazione di Marx che nel socialismo realizzato l’amministrazione delle cose si sostituisce al governo degli uomini sugli uomini non sarebbe stata appropriata per descrivere il caso sovietico (e neppure quelli diversi della Cina di Mao e di Xi Jinping). Credo si possa sostenere che in qualsiasi, peraltro rarissima e forse irrealistica, situazione nella quale “l’amministrazione delle cose” sia diventata l’attività dominante, se non esclusiva, il tempo della politica è terminato (e l’antipolitica perde qualsiasi senso).

A questo punto è del tutto legittimo sostenere che il tempo della politica giunge soltanto quando in una collettività gli uomini e le donne si confrontano liberamente su scelte alternative, approvandone alcune contrastandone altre, agendo non come nemici, ma come avversari, che riconoscono di poter perdere, ma sanno che non c’è mai una sconfitta definitiva che li cancelli alla radice. La politica non è, neppure in ultima istanza, come ha scritto Carl Schmitt e come ripetono pappagallescamente i suoi estimatori, scontro finale “amico-nemico”. Infatti, la politica non è soltanto conflitto, meno che mai mortale. L’hobbesiano bellum omnium contra omnes non è definibile come il tempo persistente e permanente, caratterizzante, della politica. Una situazione di anomia è molto diversa dalla situazione nella quale esiste la politica chiamata a dare risposte secondo regole e procedure accettate e condivise, talvolta sfidate, ma, per l’appunto, conformemente alle regole e alle procedure vigenti. Oltre che come conflitto regolamentato, il tempo della politica si presenta anche come tempo nel quale si sperimentano e attuano varie forme e modalità di collaborazione.

(Copertina) The Clock, Christian Marclay, 2010, video-installazione. (Sopra) Too broken to pretend not to be, Sali Muller, 2017, specchi

Da questo punto di vista, vale a dire, la coesistenza di conflitto e collaborazione in una collettività, è sempre il tempo della politica. Lo fu nella ­πόλις ateniese. In greco Πολιτική è un termine plurale che si riferisce alle attività che si svolgono nella polis. Riguarda (quasi) tutto quello che fanno i cittadini che, per l’appunto, nella famosa espressione di Aristotele, sono “animali politici” perché vivono e operano nella polis e contribuiscono direttamente a governarla. Un certo numero di quei cittadini sono migliori di altri, secondo il famoso discorso di Pericle sulle peculiarità di Atene, proprio quando e perché dedicano il loro tempo al governo della polis sacrificando, almeno in parte, i loro affari personali. Politica è, dunque, partecipazione attiva alla vita della polis, alle scelte e alle decisioni da prendere e da attuare. In larga misura, questa concezione fu presente e influente nella Roma repubblicana. Poi, si ebbe un lungo periodo, almeno fino al Rinascimento, nel quale furono molto bui i tempi della politica sottomessi alla religione. Sappiamo che uno dei grandissimi meriti di Niccolò Machiavelli fu proprio quello di (ri)dare autonomia alla politica. Tuttavia, il tempo della politica continuò a essere contrastato, turbolento, ristretto e confinato per qualche tempo facendo la sua ricomparsa nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, ma anche nei town hall meetings della Nuova Inghilterra e nelle aule parlamentari di Westminster. Altrove era caratterizzato da complotti, congiure di palazzo, diplomazia segreta.

Tentativi di comprimere il tempo della politica sono presenti e frequenti un po’ dappertutto nel mondo contemporaneo, con la complicazione della comparsa dell’antipolitica che non è soltanto e, spesso, neppure prevalentemente, critica e sfida della politica esistente, ma rivendicazione di alterità, di estraneità. Spesso, l’antipolitica si configura anche come tentativo di emarginare la politica, di dimostrarne non soltanto difetti e inconvenienti, ma anche l’inutilità. Il tempo dell’antipolitica è caratterizzato dalla comparsa di due agguerritissimi interpreti: la tecnocrazia e il populismo. Laddove la politica è confronto e scontro fra idee, proposte e soluzioni, la tecnocrazia si offre come superiore e preferibile poiché è il prodotto dell’esistenza di uomini e donne che posseggono sapere raffinato e competenze specialistiche al di fuori della portata dei politici e degli elettori. Laddove la politica accetta la pluralità di posizioni e di preferenze e quindi le differenze e le divisioni che ne conseguono, il populismo si erge e si giustifica come l’affermazione di un leader che ascolta, capisce, rappresenta il popolo e lo riunifica. Non troppo sorprendentemente, tecnocrazia e populismo convergono nel togliere spazio alla politica, nell’affermare che non è più il tempo della politica, ma, da un lato, della scienza, dall’altro, del volere del popolo.

Invece, al contrario di quello che sostengono gli allarmati scopritori dell’esistenza di una crisi della democrazia, il tempo della politica si sta ampliando. Apparente è la stabilità della grande maggioranza dei regimi autoritari soppressori di politica. Da Hong Kong alla Bielorussia, dalle prigioni turche alle redazioni dei giornali russi emerge una richiesta di ritorno della politica, della discussione, del confronto, della espressione di posizioni e idee sul governo e sul futuro delle rispettive collettività. Nelle democrazie realmente esistenti, compresa quella della Unione europea, con problemi di funzionamento dei più vari tipi che dipendono anche dalla vitalità delle società, il tempo della politica viene rivendicato e segnato nel bene, che è molto, e nel male, che esiste e occupa un suo spazio, da cittadini e cittadine. Quanto tempo deve avere la politica nella propria vita lo decidono di volta in volta i cittadini che si interessano di politica, che si informano sulla politica, che partecipano alle attività politiche a tutti i livelli. Se questa è politicizzazione, allora spoliticizzazione significa (cercare di) ridurre l’interesse, limitare le informazioni, impedire la partecipazione fino a convincere la cittadinanza dell’inutilità del suo impegno.

Tuttora, però, per molti cittadini e cittadine il tempo della politica è hic et nunc. Per molti di loro il tempo della politica è anche tempo di vita. È il tempo di ascoltare e di agire, il tempo di controllare l’operato dei rappresentanti e dei governanti, di quello che fanno, non fanno, fanno male, e di sostituirli, il tempo di impegnarsi in prima persona, ma coinvolgendo altri. Per molti, in maniera consapevole e deliberata, il tempo della politica è il tempo che, con grande soddisfazione, dedicano alla vita della città e dei concittadini per migliorarla. È tempo passato, ma anche futuro.