16.12.2019 John Batchelor

La scienza ha bisogno della poesia

Da bambino lessi un breve racconto di fantascienza in cui si parlava di un sistema solare molto lontano, intrappolato in una perpetua guerra tra pianeti.

La storia si concludeva con un finale a sorpresa che riguardava le relazioni tra l’ingegneria e la poesia. Ricordo che la mia prima reazione, a tredici anni, fu quella di non aver capito la lezione. Oggi, non solo vi confermo di averla compresa, ma credo che raccontare nuovamente quella storia possa essere un modo per esprimere la mia ammirazione per il risorgere di una prestigiosa rivista di ingegneria e poesia quale è “Civiltà delle Macchine”. C’era una volta – si tratta della memoria di un adulto che tenta di ricordare la sua lettura adolescenziale del racconto – un conflitto tra pianeti che si era protratto per molte generazioni, con grande dispendio di energie e sacrifici. Il pianeta più sofisticato, che chiameremo Oceanus, era il principale produttore di macchine e sistemi. Oceanus era controllato da ingegneri esperti che avevano affinato nel tempo le proprie strategie di combattimento interplanetario in modo da offrire una soluzione ingegneristica istantanea a qualsiasi problema.

Ad esempio, quando il Polo Nord di Oceanus fu attaccato dal suo rivale, Hyperion, i maestri ingegneri impartirono l’ordine: «Invia cinquemila ingegneri da combattimento artico al Polo Nord» e l’attacco fu respinto. Oppure, quando Oceanus lanciò un’operazione furtiva contro il suo rivale, Tethys e la prima ondata d’assalto venne respinta sulla spiaggia, i maestri ingegneri impartirono l’ordine: «Invia cinquemila ingegneri scavatori e cinquemila ingegneri con unità corazzate» e il secondo assalto ebbe successo. Oceanus – fiducioso, rigoroso, intraprendente e spietato, un vero e proprio arsenale di soluzioni ingegneristiche – logorava lentamente i propri nemici, facendo intendere a tutti che la sconfitta finale era inevitabile. Sarebbero state però necessarie diverse generazioni perché i rivali erano dotati di una mentalità forte e di popolazioni fertili, ma la loro fine stava arrivando. Un giorno Oceanus ricevette un messaggio collettivo dai suoi rivali: «Perché ci stiamo distruggendo a vicenda? Siamo pianeti fratelli. Condividiamo lo stesso Sole. Perché dobbiamo uccidere i nostri figli? Possiamo imparare a vivere insieme e condividere le risorse. Potrebbe sembrare impossibile ora, perché siamo ancora afflitti per le nostre perdite.

Con il tempo, tuttavia, potremmo superare le differenze. Potremmo insegnare ai nostri eredi a lavorare insieme per la prosperità. Potremmo insegnare ai nostri compagni a essere gentili e comprensivi piuttosto che crudeli e autoritari». I maestri ingegneri di Oceanus sospettavano che ci fosse un trucco. Cosa significava “condividere risorse”? Rinunciare al proprio vantaggio? Chi era “afflitto”? Stavano vincendo! Come avrebbero potuto lavorare con sistemi collettivi tecnologicamente inferiori ai loro? Allora i maestri ingegneri mandarono a chiamare un ingegnere dell’informazione che esaminò le parole, i caratteri e i possibili significati nascosti il quale rispose: «Non so cosa significhi, ma un ingegnere poeta potrebbe saperlo. “L’afflizione” costituisce un indizio. La mia raccomandazione è chiamare degli ingegneri poeti». I maestri ingegneri impartirono l’ordine: «Invia cinquemila ingegneri poeti!». Nessuna risposta. E ancora una volta: «Invia mille poeti!». Nessuna risposta. Infine, «inviane due! O anche uno!». Di tutta la popolazione del pianeta dei sistemi ingegneristici perfetti nessuno si fece avanti. Frustrati, l’unica spiegazione che i maestri ingegneri riuscirono a dare al messaggio irrisolto era che gli avversari non erano solo subdoli, ma anche deboli. Con questa determinazione, Oceanus lanciò un assalto totale contro tutti i suoi rivali e, prima di quanto chiunque avesse previsto, i nemici furono distrutti. Oceanus era il vincitore. Era però rimasto solo nel suo sistema solare, fin quando non arrivarono ingegneri ancora più avanzati. È una storia triste, e potrebbe anche essere una versione sbagliata: la mia memoria è un poco ballerina dopo sessant’anni, e non saprei come ritrovare l’originale.

Può darsi addirittura che Oceanus non sia stato il vincitore, ma il vero perdente della guerra, poiché non riuscì a trovare un solo poeta tra i suoi miliardi di ingegneri. Può anche darsi che io abbia modificato il mio ricordo di questo racconto per adattarlo alla mia interpretazione della storia globale degli ultimi secoli. Una lettura della storia del XX secolo vede gli ingegneri costruttori di città intelligenti, macchine, armi e di un insieme di sistemi sofisticati che hanno creato le condizioni per una guerra globale senza fine, fino a che i contendenti non sono usciti di scena uno dopo l’altro, lasciando un solo mastro ingegnere vittorioso. Ho raccontato una versione più breve di questa storia in occasione della presentazione del primo numero della rivista “Civiltà delle Macchine”, che si è tenuta presso il Consolato Generale d’Italia a New York, alla presenza dell’ambasciatore italiano negli Stati Uniti Armando Varricchio, del console generale Francesco Genuardi, del CEO di Leonardo, Alessandro Profumo, del direttore della rivista, Peppino Caldarola, del direttore del dipartimento di ricerca scientifica del Metropolitan Museum of Art, Marco Leona e del mio amico Lorenzo Fiori. Il pubblico era attento, gentile e paziente, tuttavia la mia impressione è di non aver suscitato un sentimento di gioia.

Mi è appena sovvenuto che la mia lettura d’infanzia si è trasformata in una lezione appresa: senza la poesia, e la felicità, l’ironia, il mistero e la dolcezza che essa porta, anche l’ingegneria più magistrale e riconosciuta resta sola nell’universo e assai vulnerabile.