29.05.2020 Donald Sassoon

La tecnologia non ci fa sentire soli

«No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main; (…) any man’s death diminishes me, because I am involved in mankind. And therefore never send to know for whom the bells tolls; it tolls for thee».

John Donne

Per secoli, forse fino all’Ottocento, chi voleva consumare cultura doveva, di solito, spostarsi, muoversi, uscire di casa. Chi era benestante andava a teatro, ai concerti, si ritrovava nei salotti dei ricchi ad ascoltare musica. Al Globe Theatre, nella Londra di Shakespeare, si poteva godere l’“Amleto” (quattro ore nella versione originale!) tutti in piedi – tranne i ricchi – l’uno accanto all’altro, respirando la stessa aria, chiedendosi se essere o non essere. Se si era poveri si poteva sempre andare in chiesa, godere la musica e sperare in un posto in paradiso. Chi aveva la fortuna di abitare a Leipzig tra il 1723 e il 1750 poteva ascoltare alla Thomaskirche, in prima mondiale, una cantata di Johann Sebastian Bach, da lui stesso diretta, quasi ogni settimana. Nelle fiere si incontravano spesso cantastorie che, per qualche soldo, diffondevano, in gran parte d’Europa, storie di mostri, di fatti cruenti, di omicidi, di torture, di lotta tra buoni e cattivi, di amori proibiti – tutti elementi delle telenovele e delle serie televisive del futuro. Venivano semplificate le storie di grande successo come “La vida de Lazarillo de Tormes”, “Robinson Crusoe”, le varie versioni di “Tristano e Isotta” e le gesta di cavalieri erranti e di aristocratici costretti a farsi banditi.

In epoca premoderna la cultura diveniva un fatto sociale, con molte possibilità di fare incontri, di fare amicizia, scambiarsi idee e, naturalmente, anche microbi e virus. La cultura, come la guerra e l’amore, costituiva un ottimo mezzo di contagio. Chi era veramente povero se ne stava nel suo villaggio e non andava in nessun posto. Se la peste bubbonica raggiungeva un villaggio quasi tutti morivano, se questo veniva invece risparmiato si salvavano quasi tutti.

I libri erano costosi e la maggior parte delle persone che sapeva leggere li prendeva in prestito a pagamento dalle biblioteche. Ogni libro veniva maneggiato non solo da chi lo produceva, lo vendeva o lo dava in prestito, ma da decine di lettori. Saper leggere non era tutto: i contadini erano di solito analfabeti, ma c’era spesso un prete che leggeva a voce alta una vita dei santi, un racconto biblico, favole morali che aiutavano il buon cristiano a essere ancora più buono e ancora più cristiano. In alcune abitazioni, nelle lunghe serate d’inverno, quando si lavorava poco, ci si riuniva ad ascoltare racconti popolari, talvolta scabrosi che, naturalmente, risultavano molto più divertenti delle storie dei santi.

Dal punto di vista tecnologico, tra l’invenzione di Gutenberg e quella della registrazione dei suoni (prima il cilindro poi il disco), nulla di assolutamente innovativo cambiava la produzione e il consumo della cultura. Certo i libri diventavano meno cari, così come gli strumenti musicali. Un professionista, un medico o un farmacista, poteva permettersi di acquistare un pianoforte. La crescita della scolarizzazione

faceva aumentare il numero delle persone in grado di leggere un romanzo e moltiplicava dunque anche il numero degli autori, degli editori, dei librai, delle biblioteche che davano i libri in prestito, dei giornali e delle riviste.

Con l’invenzione del fonografo avveniva il primo grande cambiamento dei tempi moderni. Finalmente era possibile ascoltare da casa non solo Beethoven, Mozart e le arie di Verdi ma perfino le nuove canzonette alla moda, senza dover andare in un café chantant o in un cabaret. Poi arrivò la radio che diffondeva non solo musica ma anche storie e bollettini sui fatti del giorno. Questa tendenza verso il consumo culturale solitario fu accelerata enormemente dall’invenzione e dalla diffusione della televisione, che vide successivamente affermarsi le cosiddette soap opera (così chiamate in America perché, rivolgendosi prevalentemente a casalinghe, la pubblicità che trasmettevano era dominata dai detersivi). All’inizio, essendo la televisione troppo costosa per la maggioranza delle persone, ci si incontrava al bar e al caffè per guardare programmi come “Lascia o raddoppia?”. Con il tempo questa abitudine si attenuò, anche se molti ancora oggi scelgono di andare al pub o al bar a guardare eventi sportivi in gruppo.

Mentre il consumo individuale aumentava, aumentavano anche gli spostamenti. Se prima del 1945 erano in pochi ad andare in vacanza, nei decenni che seguirono il dopoguerra il turismo di massa divenne un fenomeno abituale, così come l’emigrazione di massa raggiunse e forse superò i numeri dei decenni della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, divenendo globale.

A partire dagli anni Sessanta, tuttavia, la tecnologia contribuì a produrre beni che permettevano il consumo individuale di cultura: le radio a transistor furono prodotte commercialmente negli Stati Uniti sin dalla metà degli anni Cinquanta; poi nel 1980 con il Sony Walkman si poteva andare in giro, isolati da tutti, ascoltando la propria musica preferita in cassette. Infine con internet e la diffusione di computer a basso costo, di tablet, telefonini, iPad, iPhone, ebook, kindle, Skype, Whatsapp, Instagram, e soprattutto dei social media quali Twitter e Facebook, la possibilità di un isolamento fisico quasi completo veniva finalmente raggiunta, mentre la possibilità di comunicare cresceva.

(In copertina) Medico con indosso un indumento protettivo durante la peste del XVII secolo, 1910 ca., acquerello, Wellcome Library, Londra. (Sopra) The Pit Door at Drury Lane Theatre, Carington Bowles, Thomas Dighton, 1784, stampa, British Museum, Londra

Le persone, naturalmente, continuavano a incontrarsi, a parlarsi nei caffè e nei bar, ad andare al cinema, a comprare libri in libreria, ad avere amici “veri” e non semplicemente amicizie virtuali. Si poteva fare lezione e ascoltarle dal computer, ma il rapporto diretto permaneva, giovandosi della possibilità di muoversi facilmente. Gli accademici continuavano ad andare in giro per il mondo per partecipare ai convegni. Gli uomini politici parlavano al telefono ma i dirigenti dei G7, G8 e G20 si riunivano di persona, così come i delegati delle Nazioni Unite e delle varie organizzazioni internazionali. Vedere leader che si stringevano la mano rimaneva importante. Vladimir Putin che discute con Donald Trump al telefono non fa notizia, ma Trump che atterra a Mosca, salutando con la mano un pubblico immaginario, viene trasmesso da tutte le stazioni televisive del mondo. Il contatto visivo e diretto rimane centrale nella società moderna: i devoti che si recano a Roma vogliono vedere il papa ed essere benedetti quando si affaccia dal balcone, così come in Inghilterra moltitudini di persone si affollano per assistere al passaggio della regina che in carrozza si dirige verso il Parlamento. L’importanza dell’esperienza diretta è cosa antica. In molti andavano in pellegrinaggio alla Mecca, a Roma, a Gerusalemme per vedere e toccare. I milioni di turisti che si recano al Louvre vogliono scoprire la vera “Gioconda” non una copia. Osservare sul computer di casa i capolavori degli Uffizi non è paragonabile a essere lì di persona per ammirare, anche se solo per pochi secondi e ostacolati dai numerosi altri visitatori, la “Nascita di Venere” del Botticelli.

Gruppo di persone riunite davanti al televisore, Inghilterra, foto di Allan Cash, anni Cinquanta

Consumare cultura in quasi completo isolamento è possibile da anni, ma nelle condizioni dell’attuale pandemia siamo incoraggiati e perfino obbligati a farlo. Eppure nei momenti di crisi la solidarietà è una necessità imprescindibile. 

Un’epidemia dovrebbe costringere a organizzarsi per prendersi cura degli altri, e questo lo fanno i medici, gli infermieri e i volontari, ma la maggior parte degli individui deve esprimere la propria solidarietà (e anche la cura di sé) applicando la distanza sociale. Oggi si può fare lezione da casa, come molte scuole e università stanno facendo; lo psicoanalista può essere consultato dai pazienti via Skype; i politici e gli esperti parlano da casa loro e non da uno studio televisivo; si scopre che in molti casi non è necessario andare in ufficio e che una visita medica può a volte richiedere solo una conversazione. Insomma, possiamo lavorare, ascoltare musica, vedere film e spettacoli teatrali, leggere libri, parlare con amici, esprimere le nostre opinioni su Twitter e Facebook, fare atto di devozione in una chiesa o in una moschea virtuali, restare informati di tutto quello che succede nel mondo senza mai uscire di casa. Tutto ciò potevamo fare anche ieri, prima del coronavirus. Oggi siamo costretti a farlo. Quando l’epidemia sarà finita (ma quando?) ci troveremo dinanzi a grandi cambiamenti? Ci sarà un aumento della solitudine? Al momento non lo possiamo sapere. Se una cosa è possibile non è detto che sia inevitabile. La novità tuttavia consiste nel fatto che non siamo veramente soli, siamo in costante comunicazione con gli altri: riusciamo a sopportare di essere soli appunto perché la nostra è una solitudine materiale, poiché la tecnologia ci permette di comunicare con un numero enorme di persone. Ed è questo che rende sopportabile la solitudine fisica. L’essere socievole è parte integrante della natura umana. Non siamo orsi che vanno in letargo per molti mesi o bradipi pigri, lenti e solitari; siamo piuttosto come i lupi, i pinguini o le pecore che stanno insieme. Essere soli o solidali rimarrà una scelta, ma è utile ricordarsi delle parole del grande poeta inglese John Donne: «Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto; (…) la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te».

Test pattern (n. 7), Ryoji Ikeda, 2015, installazione audiovisiva, Plzeň, European Capital of Culture, Repubblica Ceca. Foto di Pavel Nemecek